Solidarietà in chiaroscuro

Il brutale omicidio razzista del 46enne George Floyd è solo l’ennesimo di una lunga lista di assassinii di stato. Secondo le statistiche elaborate dal sito Fatal Encounters, dal 2014 a oggi negli Stati uniti più di duemila persone nere sono morte a seguito di un fermo di polizia, di cui la stragrande maggioranza di genere maschile. È stato calcolato come lungo il corso della sua vita un uomo nero abbia una possibilità su mille di essere ucciso dalla polizia. Nel 2015 un articolo del New York Times riportava come 1,5 milioni di maschi neri sono stati sottratti alla vita quotidiana delle loro comunità dalla morte o dal carcere. Gli effetti di questo genocidio razziale praticato nel cuore stesso della «più grande democrazia bianca occidentale» colpiscono con il massimo della forza i giovani afroamericani tra i 18 e i 24 anni e ridefiniscono il senso stesso dell’adolescenza e della transizione all’età adulta. Come ricorda oggi l’attivista e docente Tommy J. Curry, la linea del colore sconvolge le caratteristiche che normalmente attribuiamo al genere maschile costringendoci a riconoscere come in società plasmate dalla supremazia bianca, il maschio nero fa esperienza di un mondo costruito sulla sua stessa negazione.

Che cosa significa crescere in un corpo a corpo continuo con la possibilità della morte? Laddove poi non vi è morte fisica, rimane lo stato di morte sociale prodotto dalle condizioni di vita nei quartieri-ghetto delle metropoli, dall’impoverimento e dallo sfruttamento estensivo, così come dall’incarcerazione come destino incombente. Ce lo ricordava già Fanon sin da Pelle nera. Maschere bianche: il razzismo strutturale genera un «complesso psico-esistenziale» che deforma ogni aspetto dell’esistenza. 

Le immagini dell’assassinio di stato hanno circolato sul web e hanno mostrato ancora una volta lo stato di spossessamento e di vulnerabilità a cui sono normalmente ridotti i corpi e le vite dei neri. La rappresentazione visiva della violenza razzista che attraversa il quotidiano delle inner-cities, condensata in un episodio, ha scatenato una serie di rivolte urbane che da Minneapolis si sono estese a tutto il territorio degli Stati uniti. A essere messo sotto accusa dalle insorgenze non è più il singolo episodio né il trattamento storicamente coloniale da parte della polizia, ma l’intera struttura razzista del capitalismo americano. A tal proposito, è sufficiente ricordare come anche la gestione statale della pandemia, alimentando e supportando la lunga mano invisibile del capitalismo razziale, e quindi pianificando, come tradizione, quello che si può chiamare l’abbandono organizzato dei poveri neri, abbia colpito secondo le consuete linee di oppressione, producendo nella comunità nera un’esposizione a morte prematura, per dirla con la geografa Ruth Gilmore, senza paragone con la media nazionale. La violenza razziale e la pulizia etnica generata dalla gestione statal-istituzionale dell’uragano Katrina a New Orleans risuona ancora nella memoria. È stato detto che se gli effetti della crisi pandemica avessero colpito allo stesso modo bianchi e neri, non solo la stragrande maggioranza dei nuovi 40 milioni di disoccupati non sarebbe né nera né di origine «latina» o «migrante», ma diverse migliaia di africano-americani sarebbero ancora vivi.

In un contesto storico del genere, la pratica politica del riot non è casuale e affonda le sue radici in una tradizione globale di lotte plasmata da un rapporto con lo spazio e con la morte segnato dall’invivibilità, e ne costituisce il rovescio positivo: la necessità assoluta di una dignità non rimandabile. «La prossima volta il fuoco», scrisse James Baldwin negli anni Sessanta; non si trattava di un artificio letterario, ma di un precetto, prima ontologico che politico, iscritto in quello che il grande marxista nero Cedric Robinson ha denominato la «Black Radical Tradition». E qui tradizione, per quanto possa urtare il buon senso liberale progressista e anche marxista occidentale, non è certo un significante come un altro.

In Italia, gli eventi che si stanno susseguendo sono stati perlopiù decodificati attraverso uno sguardo che, pur riconoscendo molti di questi aspetti, fatica a interrogarsi su quanto abbiano da insegnare a noi e alle nostre pratiche antirazziste. I commenti sul razzismo sistemico «made in Usa», analisi anche curate del suprematismo bianco negli States, così come l’attenzione alle voci di protesta e al protagonismo della comunità nera si traducono spesso in dichiarazioni di solidarietà e di supporto che rischiano di risultare non solo inefficaci, bensì mere proiezioni identificatorie (proprio quello che la tradizione nera rivoluzionaria ha storicamente chiesto di «non» fare ai bianchi), se si limitano a osservare quel che succede e a proiettare la problematica dell’oppressione razziale sulla sola specificità-eccezionalità statunitense. È un paradosso che non poteva passare inosservato tra chi oggi in Italia vive quotidianamente e sulla propria pelle gli effetti del razzismo e che si trova ad assistere ai numerosi appelli di un’indignazione innocente, dimentica di quanto ciò che sta accadendo ci interpelli direttamente (vedi il video delle e degli attiviste e attivisti afroitaliani OMJ e Djarah Kan).Infatti, sottovalutare tali dimensioni della questione non farebbe che riproporre, in modo anche del tutto pacificato, una semplice variante dell’ordine del discorso pubblico-mediatico dominante, che non ha fatto in questi giorni che riproporre il razzismo e la violenza razzista come una contraddizione strutturale interna alla singolarità della storia della democrazia statunitense.

È banale da ricordare, ma l’esperienza ontologica del razzismo forgiata dai processi di valorizzazione capitalistici è stata sin da subito caratterizzata dal suo carattere globale. Una delle grandi rotture politiche venute fuori all’interno della tradizione radicale nera negli anni Sessanta è stata proprio quella di ricollocare «the negro question» negli Stati uniti in un contesto più globale, di rielaborare la propria condizione storico-strutturale di oppressione come una variante locale del razzismo coloniale planetario, ovvero di riconsiderare razza e razzismo come dispositivi al centro stesso dell’espansione del modo di produzione capitalistico. Era questo il senso di quella rilettura politica della condizione nera negli Stati uniti come «colonia interna», in una mossa che proiettava sia la dimensione del potere razzista (da combattere) che quella del contropotere nero (da costruire) in una dimensione decisamente più internazionale.

Il capitalismo razziale, il suprematismo bianco – ci tenevano a dire l’ultimo Malcolm X, C.L.R James, il Du Bois esiliato in Ghana, Stokely Carmichael, Huey P. Newton e le pantere nere, così come le altre formazioni radicali del Black Power e del nazionalismo nero rivoluzionario di quel periodo e perfino l’ultimo Martin Luther King – non riguardava solo gli Stati uniti, benché qui si fosse storicamente snodata una delle sue versioni più perverse. Da qui il rilancio, negli anni del Black Power, del panafricanismo come una prospettiva politica e culturale indispensabile alla soggettivazione del movimento nero, vale a dire la necessità di ristabilire un dialogo più diretto con i movimenti africani di liberazione nazionale in lotta per la decolonizzazione, il riavvicinamento ad alcune formazioni rivoluzionarie latinoamericane (prima di tutto alla Cuba di Castro, che incontrò Malcolm X nel 1960 a Harlem), ma anche con l’Algeria del Fronte di liberazione nazionale (il Black panther party trasferì ad Algeri una sua sede) e con la Cina maoista. Seguendo in qualche modo questo nuovo corso del pensiero radicale nero, sono passati ormai più di trent’anni da quando Paul Gilroy sottolineava l’importanza di analizzare lo spazio entro cui si è costituita una identità nera come uno spazio transnazionale, quell’Atlantico Nero «continuamente attraversato dal movimento di Persone Nere – non solo come merci ma impegnate in varie lotte per l’emancipazione, l’autonomia e la cittadinanza». Allo stesso modo non è particolarmente complicato osservare come sia la stessa storicità delle lotte africano-americane a interpellarci in un movimento che va dal locale statunitense all’universale dei movimenti di decolonizzazione e dei meccanismi di oppressione dei popoli razzializzati su scala mondiale.

Se la tradizione radicale nera ci chiede dunque di pensare razzismo e antirazzismo nei termini di una loro centralità globale, e a partire dalla propria esperienza storica materiale e concreta di sfruttamento e di lotta, può risultare estremamente paradossale un atteggiamento che resti fermo a guardare ciò che succede al di là dell’Atlantico senza mettersi realmente in ascolto. Il modo in cui attraverso le rivolte urbane i neri statunitensi stanno prendendo parola per articolare l’esperienza vissuta della razza, rivendicando autonomia e autodeterminazione sulle proprie vite e sulle proprie comunità, ci restituisce un quadro che va ben al di là di quella retorica sui «populismi di destra» e sulle politiche dei vari Trump, Le Pen e Salvini a cui spesso, da noi, il razzismo viene ridotto. Pretendendo a giusto titolo di definire l’antirazzismo nei loro termini, ci mettono in guardia verso una tradizione politica «bianca» che ne ha storicamente sottovalutato la centralità, riducendolo a una questione di cattiva «coscienza», ovvero di «moralità», di «mentalità» o di (mancanza di) «umanità», e che molto semplicisticamente tende spesso a visualizzare il razzismo come fenomeno sociale (come chiave di lettura dei conflitti, dello sfruttamento e delle lotte) in questioni, spazi o territori d’eccezione.

Il ricordo e la battaglia per George Floyd e per la giustizia che si sta svolgendo sul suolo americano risuonano quindi (o dovrebbero risuonare) con il razzismo di Stato, con le molteplici morti e con lo sfruttamento razziale che attraversano strutturalmente, qui e ora, il nostro paese. La segregazione metropolitana, abitativa e lavorativa, l’esposizione a morte prematura e la disumanizzazione nei centri d’accoglienza, così come il ripetersi di aggressioni fisiche e omicidi «razzisti» (non c’è bisogno di ricordare qui il lungo elenco di migranti assassinati sul territorio nazionale negli ultimi anni), non sono realtà lontane, ma costituiscono l’ordinario della società italiana, pur esprimendosi attraverso logiche e condizioni diverse da quelle tipicamente statunitensi. La stessa gestione politica della pandemia, organizzata attorno alla figura del cittadino bianco di classe media e l’abbandono organizzato da parte dello Stato delle diverse comunità di migranti e rifugiati, ha reso ancor più evidente questo fossato razziale, rinnovando un nuovo contratto sociale bianco-italiano, per dirla con le parole di C. W. Mills.

Si tratta di fenomeni certamente «parlati» sullo scenario politico locale, ma mai resi visibili come effetti del «razzismo strutturale» sui nostri spazi e territori. Anzi, spesso la loro specificità razzista viene diluita all’interno di narrazioni politiche interessate a mostrare/codificare le gerarchie del conflitto sociale su piani del tutto diversi – per non dire estranei – e che impediscono di pensare al razzismo se non come conseguenza «secondaria» di altre problematiche: è il caso, per fare solo un esempio tra i tanti, di quando i suoi effetti sono ricondotti a un generico e indifferenziato problema di disuguaglianze e disagio sociale. Prendere sul serio quello che le rivolte antirazziste dicono su sé stesse, significa dunque cercare di attingere al bagaglio di storia e di esperienze di cui sono l’esito per aiutarci a elaborare una visione densa di questi fenomeni e delle reti globali di cui sono parte. 

D’altronde, l’attualità statunitense dovrebbe metterci in guardia da un altro fenomeno che attraversa il dibattito italiano, ovvero il rischio di una sorta di feticizzazione dell’esperienza e delle lotte nere attraverso varie forme di senso di colpa bianco. Per quanto sia infatti importante riconoscere l’esistenza di un «salario della bianchezza», la moltiplicazione di pratiche discorsive di decostruzione del proprio privilegio sviliscono, individualizzano e sono più funzionali a una dinamica narcisistica che non a un processo di reale ricomposizione politica. La working class e il sottoproletariato nero che si rivoltano per le strade e le metropoli statunitensi, si rivoltano anche contro i numerosi Uncle Tom che hanno ridotto la tradizione rivoluzionaria nera a una politica dell’identità, buona solo a includere qualche minoranza nella gestione del potere. Soprattutto, ci ricordano che la posta in gioco non è tanto la pratica accademica di decostruzione del proprio privilegio, quanto la costruzione di lotte e conflitti che sappiano mettere l’antirazzismo al centro dell’esperienza sociale, culturale e materiale del presente.

È una lezione che, proprio in questi giorni, ci arriva anche dalle dimostrazioni di piazza di Amsterdam e Parigi, in cui il vento di rivolta antirazzista sta producendo importanti movimenti di contestazione, innestandosi sulle linee di conflitto che attraversano la geografia postcoloniale dell’Europa. In fondo, i riot urbani statunitensi ci mostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, non solo l’impressionante potere di aggregazione e di ricomposizione dell’antirazzismo (è stata diverse volte sottolineata la disomogeneità razziale delle insurrezioni, così come la politicizzazione della gestione «capitalistica» della pandemia di cui esse sono anche espressione), ma soprattutto la sterilità degli antirazzismi formali, morali, pedagogici e umanitari promossi sotto diverse forme negli ultimi cinquant’anni all’interno delle agende istituzionali statunitensi dai cosiddetti Black Liberal Dem. Verrebbe qui da ricordare le note parole dell’ex pantera nera Assata Shakur:  

«Nobody in the world, nobody in history, has ever gotten their freedom by appealing to the morale sense of the people who were oppressing them». 

Più che esprimere semplicemente solidarietà verso le rivolte di questi giorni, occorre imparare dalla tradizione radicale nera ciò che essa ha da dirci su razzismo, antirazzismo e soggettivazione sociale. Senza compiere questo passo ulteriore si ricadrà, volenti o nolenti, nella logica del solito atteggiamento «paternalistico» della buona coscienza bianca.

Andrea Caroselli

antropologo, si occupa principalmente di conflitto giovanile e dei processi di segregazione scolastica tra le diverse filiere dell’istruzione secondaria. È attualmente dottorando presso l’Università di Padova.

Miguel Mellino

docente di Studi Postcoloniali all’Università di Napoli L’Orientale. Si occupa di migrazioni, razzismo e questioni e conflitti riguardanti l’eredità del colonialismo nell’Europa di oggi. Tra le sue pubblicazioni più recenti Marx nei margini (Alegre, 2020), Governare la crisi dei rifugiati (Deriveapprodi, 2019), Stuart Hall: Cultura, Razza e  Potere (ombre corte 2015).

5/6/2020 https://jacobinitalia.it

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