“STAI ZITTAAAA”. La violenza non è sempre visibile


di Alba Vastano –
Da inizio millennium, con l’esponenziale tamtam delle news online, riceviamo, quotidianamente ormai, bollettini sui numerosi fatti di cronaca nera riguardanti la violenza sulle donne. Violenza spesso estrema che si traduce con un neologismo ormai entrato tristemente nel linguaggio giuridico e giornalistico: femminicidio. (ndr, il termine fu coniato dalla criminologa Diana Russell, che lo usò per la prima volta 1992, nel libro Femicide, spiegandone così il significato come categoria criminologica: “Il concetto di femmicidio si estende aldilà della definizione giuridica di assassinio ed include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”).


Che già il neologismo composito esprima di per sé un’idea tribale e patologica la dice lunga sul fatto che non è stata uccisa una donna durante una rapina o da qualsiasi altro persona uscita di senno, ma è stata uccisa una donna da un uomo, per ossessione di possesso. Quella femmina non meritava di vivere ed è stata uccisa, perché non acconsentiva alla volontà dell’ominide che di certo non la considerava una persona con una volontà da rispettare. L’estremo gesto, generalmente, è preceduto da un iter che si articola quasi sempre con le stesse modalità.

L’ominide umilia e scredita la vittima predestinata in privato e in pubblico. Inizia ad usarle violenza verbale, aggredendola poi con schiaffi e spintoni. Prima leggeri, come a mo’ di ammonimento. Poi sempre più pesanti. Le rivolge turpiloqui alludendo alla sua presunta leggerezza sessuale o ai suoi immaginari limiti intellettivi. Ed è quasi sempre la sua compagna di vita e spesso anche la madre dei suoi figli. Oppure è una vittima occasionale, mira dell’ossessione di un immondo stalker che, considerandola oggetto di iniqui piaceri sessuali, ha l’unico obiettivo di abusare del suo corpo. Se la preda fugge, cercando di prendere le distanze, il femminicidio è quasi scontato. Lo stupro e il femminicidio, in tal caso, sono tristemente legati.

La pandemia in corso ha acuito le motivazioni ancestrali di queste violenze estreme sulla donna, motivazioni che arrivano a sfociare in tragedia. Nel 2020, l’anno dell’inizio pandemia, il trend dei femminicidi è notevolmente aumentato, toccando il 40,6% del totale degli omicidi commessi dalla criminalità in cui le vittime erano donne. Pandemia a parte, con i danni che ne conseguono su tutto il complesso dell’esistenza, si verifica da sempre che alcuni uomini, certe tipologie di uomini, accomunati da specifiche attitudini comportamentali e inclini a reazioni di mal sopportazione e di violenza, con pregressi disagi esistenziali e affettive, possono impazzire davanti ad un No, a un rifiuto di una donna. Talvolta interpretando erroneamente il negarsi della vittima, come fosse un Ni o un Forse, facendo scattare nella sua mente malata un perverso desiderio di possederla, come se la conquista della preda fosse un tribale trofeo di caccia.

Dov’è l’origine del problema delle violenza sulle donne che si rivelano accondiscendenti in una relazione malata, nonostante tiri per loro una brutta aria? E perché non denunciano subito il loro carnefice? Il consenso al carnefice, se non è sindrome di Stoccolma, da quali oscuri e astrusi motivi proviene, considerando che spesso la vittima non appartiene al genere ‘Wilma, dammi la clava’, ma trattasi, in alcuni casi non rari (ndr, come si evince da informazioni in cronaca), di donne dall’ottimo e riconosciuto potenziale intellettivo e culturale e anche socialmente e professionalmente affermate? Avviene forse nella donna, come nella testa del Giano Bifronte, quel fenomeno che si realizza in una scissione mentale fra la donna emancipata e Wilma, quindi sottomessa ai voleri dell’uomo? Il peccato originale è comunque il consenso. Perché non si nega il consenso,pur sospettando, già dai primi segnali, che l’uomo di fronte non sia l’amorevole compagno o un uomo razionale , ma un possibile carnefice?

Ѐ un problema che si perpetua, per secula seculorum, dalla notte dei tempi. La scrittrice Michela Murgia, nel saggio ‘Ave Mary’, colloca il problema centrale nella religione. Quel Sì di Maria, ancora adolescente, all’angelo del Signore, ci ha schiavizzato, tramite uno stigma culturale, in una visione comune legata e dominata dai falsi valori della religione. La donna, relegata a stereotipi eversivi della subcultura che ha come mantra populista ‘Dio, Patria e famiglia’, è incline a dare il consenso incondizionato al suo compagno di vita, in quanto negare il consenso è sconveniente e non è nella sua natura di serva del Signore, angelo del focolare o pervasa da irrazionale riconoscimento della superiorità del maschio e del suo potere. Quella reazionaria subcultura, che esalta la sua funzione di accudimento perpetuo e che ha marchiato la donna con il mantra Obbedisco, non può negare le cure, non può sottrarsi al volere del suo dio/padrone a cui deve rispondere: Sia fatta la tua volontà. Per non tradire l’origine della sua cultura dell’obbedienza . Se provasse a ribellarsi all’obbedienza sarebbe quel tipo di società maschilista e perversa, a cui sfortunatamente appartiene, a farla sentire out, inadeguata.

E se si è portatori, anche sani, di quell’ancestrale cultura religiosa e reazionaria e s’incappa nell’uomo carnefice il pericolo è alle porte. Il non saper dire di No nel tempo debito in cui è necessario e vitale urlarlo in faccia ad un uomo prepotente e volgare, negando il consenso ai suoi bassi voleri, apre ancora oggi una ferita che ancora non si è del tutto rimarginata, causata da un certo tipo di educazione che non ha mai previsto un percorso rivoluzionario basato sul rifiuto al consenso. E subito. Senza aspettare il primo schiaffo o la prima avance subiti. Il peccato originale che legittima il consenso femminile, secondo Michela Murgia, è sempre consequenziale a quella chiamata iniziale a cui Mary ha risposto: “Sì, sono la tua serva. Sia fatta la tua volontà”. Connotando la donna più come madre amorevole e estremamente dedita alla cura che persona cogitante e risolta nella sua personalità, tanto da saper dire ‘NO’ ad un uomo che la relega in un cerchio vitale, in cui le è vietata la libertà di opinione e volontà personale.

Una piccola rivoluzione culturale del No, iniziò negli anni settanta, quando si iniziò a gridare in piazza la rabbia contro la supremazia dell’uomo sui nostri corpi e sulle nostre vite. Lo slogan ricorrente era ‘Io sono mia’, con il quale si rivendicava l’assoluta libertà di esprimere le proprie opinioni sempre e comunque e della piena libertà di disporre della propria esistenza e del proprio corpo. Il fine era anche di abbattere stereotipi sessuali legati al sessismo e al linguaggio sessista, che non ha mai smesso di fare danni sul corpo delle donne, degradandolo, classificandolo e riducendolo ad oggetto di piaceri maschili. Un corpo usa e getta. Linguaggio incivile e indecente che oggi, forse più di ieri, trova spazio sui social che ne hanno amplificato la diffusione.

Ѐ importante evidenziare che, contestualmente alla violenza fisica, è in atto un altro tipo di violenza sulla donna. Una modalità subdola e non meno feroce che tende a voler spersonalizzare la donna e a ridurla a un non pensante e non parlante, perché “di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo– scrive Michela Murgia nel suo ultimo saggio ‘Stai zitta’- parlare è ancora considerata la più sovversiva”. Il silenzio è una virtù, ma secondo un certo tipo di subcultura maschilista, dovrebbe essere praticato solo dalle donne. Difficile che, in un contesto collettivo sociale, familiare , politico o in un convivio, ad essere zittito sia un uomo.

In realtà agli uomini viene spesso richiesto e sollecitato un intervento. Che sia eccessivamente prolisso non fa nulla. Che abbia un senso nemmeno. Sono uomini e hanno diritto alla parola. Sono uomini e parlano quanto vogliono. Le donne zitte e ascoltino, perché quando parlano tendono a ‘fare le maestrine’. Questa storia della maestrina, l’immagine arcaica della figura dell’insegnante che parla da una cattedra e agli allievi è richiesto l’ascolto, sembra abbia conclamato, negativamente e irrimediabilmente, l’avversione di certi uomini verso la donna parlante, soprattutto se afferma cose sensate. Non è che tutte le maestre dicano necessariamente e sempre cose sensate, ma nell’immaginario del maschilista, l’assunto ‘Non fare la maestrina’ rimanda all’obbligo di un allievo di ascoltare una maestra che è una donna , smontando quello stereotipo maschile che recita come un imperativo e non come un consiglio: ‘ Le donne farebbero meglio a tacere’.

Altro stereotipo rivolto alla donna parlante è:’Vuoi sempre avere ragione’. Questo accade quando, nel corso di una conversazione in cui gli uomini si scambiano pareri e diktat vari sugli eventi in corso, interviene, anche per una sola volta, una donna e prova a dire la sua. Se è anche un’esperta sui temi trattati, cerca tanto più di prendere la parola, ma anche se non lo fosse, perché non dovrebbe prenderla? Da lì al primo monosillabo da lei pronunciato si notano evidenti gli effetti di disapprovazione espressi più o meno chiaramente sui volti maschili. Ѐ tutto un ammiccare fra loro, accompagnato da sorrisini sotto i baffi. Iniziano a modificare la postura, qualcuno scivola appositamente dalla sedia, un altro sbadiglia, qualcun altro si alza e esce a fumare. Altri ancora iniziano a parlare fra loro, incuranti delle domande che l’indesiderata interlocutrice sta osando rivolgere agli astanti. Infine,a rigor di logica di una certa tipologia di neuroni maschilisti, il mantra/assunto ‘Vuoi sempre avere ragione’ starebbe a significare che la donna che esprime le sue opinioni lo fa, come ossimoro, per avere torto. E farebbe bene ad ammettere che ciò che afferma è sbagliato e a tacere e ascoltare l’indiscutibile sapienza maschile. Alquanto contorto e bizantino il pensiero non espresso, ma facilmente intuibile. Se non è maschilismo puro, neanche tanto velato, questo.

E così si conferma, ancora oggi nel 2021, un codice linguistico palesemente avverso al riconoscimento della donna in quanto persona con pari dignità e diritti dell’uomo. Un linguaggio mistificato dalla benevolenza, dalla condiscendenza, dalla pietà verso i presunti limiti della donna in una società ancora dominata dall’uomo. Ed è tutto un diffondersi e un ripetersi nel mondo maschilista di frasi violente e provocatorie: ‘Non ci sono nomi di donne prestigiosi come quelli degli uomini’- ‘Le donne sono meno competenti’-‘Devi ribattere proprio a tutto? ‘Così resterai sola’. Un vero attacco alle tante donne di ben nota intelligenza, messa a supporto della cultura, della scienza, delle arti, del Bene comune e nel rendere agevole la vita quotidiana dei propri cari. Succede anche che le abitudini nell’agire della donna, come il prodigarsi nella cura degli altri e nell’agire con solerzia e precisione nelle professioni svolte, venga considerato come un volersi a tutti i costi far valere. O come uno smodato desiderio di riconoscimento. ‘Lo fai perché vuoi un riconoscimento’. Ecco. Anche questa è violenza, perché viola la dignità della persona, rinnegandola nel suo effettivo valore. Solo perché è donna.

Altra violenza è contenuta nel senso della frase di scherno rivolta ad una donna: ‘Fattela na risata’, in una specifica occasione. Chi pronuncia questa frase è, generalmente, il molestatore di turno che davanti a una donna offesa da qualche ignobile frase sessista da lui pronunciata, sghignazza e, generalmente, trova anche un afflato con altri uomini. E se lei prova a controbattere il molesto, a volte, si solleva un coro generale con imperativo finale ‘STAI ZITTA’. Deve tacere, solo perché esprime il suo dissenso alle volgarità. E il dissenso, invece di essere promosso da tutta le società civili come una conquista culturale, è ancora oggi la cosa più sovversiva che fa una donna. Anche questa è violenza. E fa male.

Nelle lotte perpetue delle donne per affermare il diritto di essere considerate persone, prima di essere donne, si accompagnano, in realtà molti uomini, di altro stampo, che sostengono appassionatamente questo diritto. Ed è con loro che vogliamo lottare, affinché queste aberrazioni sulle donne abbiano fine.

Alba Vastano

Giornalista. Collaboratrice redazionale del mensile Lavoro e Salute

Fonti: “Stai Zitta”- Michela Murgia – ed. Super Et Opera Viva
“Ave Mary”- Michela Murgia- ed. Einaudi

Foto: la Stampa.it / Inside marketing

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