Storia di Mohamed, morto tra le fiamme nel ghetto dei braccianti

Foto da dirittiglobali.it

Si continua a morire a Borgo Mezzanone (in provincia di Foggia), nelle fiamme, senza tregua. Si continua a morire ai margini, senza la possibilità di pronunciare un’ultima parola su questa Europa che esclude e marginalizza.
L’ultima vittima è Mohamed Ben Ali, arrivato dal Senegal in Italia, più di 15 anni fa. Non viveva a Borgo Mezzanone da molto, un anno circa. Prima aveva vissuto a Bologna e Napoli, lavorando come commerciante e venditore ambulante. È morto carbonizzato, alle prime luci del giorno, nella sua abitazione di fortuna precaria, isolata in una parte del ghetto. Non aveva né corrente né gas, e per questo motivo non è chiaro quale sia stata la scintilla che ha dato inizio all’incendio. Abdoulaye (nome di fantasia) lo conosceva bene, andava spesso nel suo negozio, parlavano per ore. L’ultima volta, pochi giorni fa, avevano parlato fino a tarda notte, della vita in Italia, del Senegal, delle speranze deluse. A differenza dei tanti incendi a cui ha assistito e che ha documentato con il suo telefono, questa volta non è andato sul luogo dell’incendio. Non ha avuto la forza di vedere il corpo di un amico carbonizzato, di non poter riconoscere il volto né traccia di una vita che aveva conosciuto.

A Borgo Mezzanone si incontrano molteplici storie di esclusione, che tentano di ricostruirsi, in un pezzo di terra che non sembra Italia, una parvenza di normalità.
Piuttosto che condannare gli insediamenti informali del Sud Italia di per sé, sarebbe necessario interrogarsi sulle ragioni alla base della loro esistenza, che non possono essere rintracciate esclusivamente nello sfruttamento nella filiera del cibo o nei decreti sicurezza. A Borgo Mezzanone non vivono solo irregolari, né solo ‘braccianti’.

Nelle strade polverose di Borgo Mezzanone ho incontrato diverse persone, in Italia da più di un decennio, costrette ad emigrare dai distretti industriali del nord Italia al Sud a causa dei licenziamenti e della crisi del 2008-2010, in una sorta di ciclo inverso della migrazione. Ritrovatisi da un giorno all’altro a passare da una vita più o meno stabile, ad una precarietà esistenziale fatta di una ricerca quotidiana di espedienti di sopravvivenza, dormendo in abitazioni di fortuna e svegliandosi la mattina alle cinque per lavorare nelle campagne foggiane. Altri, come Mohamed, sono stati colpiti dalla stretta sui venditori ambulanti e contro la contraffazione promossa dall’ex-ministro dell’Interno nell’estate 2018. Percorsi già di per sé precari, bruscamente interrotti.

La vita e la morte di Mohamed raccontano la storia di un’Italia in cui la durata della permanenza o il tipo di permesso di soggiorno non sono mai conquiste definitive né garanzia di stabilità. Un’Italia in cui il colore della pelle è un fattore di discriminazione strutturale, che contribuisce a relegare decine di migliaia di persone ai margini delle nostre città. Perché il motivo per cui molte persone si trovano costrette ad abitare in una baracca piuttosto che in una casa non è esclusivamente dovuto allo status economico o giuridico. Ma anche alla discriminazione razziale che impedisce di trovare una casa in affitto nel centro di Foggia, o trovare un lavoro in un altro settore che non sia quello dell’agricoltura, che come conferma il recente provvedimento di regolarizzazione, sembrerebbe essere l’unico ritenuto idoneo per chi è straniero.

Per evitare di continuare a contare le morti, per poter gridare che le vite dei migranti contano e le vite nere contano, anche in Italia, non è sufficiente continuare ad attaccare il caporalato, la grande distribuzione o decreti sicurezza come unici responsabili della precarietà esistenziale di chi si trova a dover vivere negli insediamenti informali. La frase che viene ripetutamente ciclicamente dai migranti in queste occasioni, dagli eventi di Rosarno fino all’incendio di questi giorni è “non siamo animali, siamo esseri umani e vogliamo essere trattati come tali”. E per mettere fine a questi episodi è necessario eradicare il profondo e dilagante razzismo della società italiana, non gridando che siamo “tutti scimmie” ma che nessuno lo è.

Camilla Macciani

13/6/2020 https://left.it

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