Storie di vite migranti

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Recensire questo romanzo di Agatha Orrico ha permesso durante la lettura il riemergere di sprazzi di racconti di mio nonno materno emigrato negli Stati Uniti nella tragica epopea della fuga dalla povertà italica. Racconti di ribellione, purtroppo individuali o di piccoli gruppi allo sfruttamento più odioso, quello etnico dei ricchi e della legge nella “Patria della libertà”.
Questo primo romanzo di Agatha è impregnato di materialismo storico, di quella memoria che parte dalle vite vissute e rappresenta l’unico filone di studio concreto anche per leggere i flussi migratori di oggi repressi dall’odio razziale nella scomparsa civiltà europea.

Quelli arrivati negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo e fino agli anni venti erano persone con un basso grado di istruzione, avevano abbassato la testa di fronte all angherie, allo schiavismo di qualsiasi lavoro, erano comunque forti nell’anima, nella loro speranza di essere un giorno benestanti o addirittura ricchi. Quella speranza si scontrò con la realtà senza soluzione di continuità ma riprese forma attiva nella coscienza dei loro figli “Guarda cosa ha fatto l’America a Sacco e Vanzetti”, ” La mafia è quel cancro che ci rovina”.

Il romanzo percorre la storia di singole persone che nel percorso di sopravvivenza convergono con altre. Ripercorro i capitoli che mi sono rimasti impressi e butto giù scrivendo di getto. Iniziano con Malcom (Maio) che di fronte all’ostentata ricchezza della coppia ricca e felice prova la disperazione di classe, l’impotenza degli ultimi certificata dalla violenza della polizia nel vicolo. “Di che ti stupisci? Lo sappiamo come funziona la legge qui. Per qualcuno, siccome siamo neri, è sicuro che ci portiamo addosso la nostra dose di degrado“, gli ricorda un altro caduto nella rete della legge dei dominanti.
Maio non aspetta altro che uscire dalla gabbia per rientrare in un’altra, quei bassifondi gonfi di rabbia repressa e inesplosa pur sapendo di non avere niente da perdere in quella “Grande mela” avvelenata nella quale l’intolleranza per gli afroamericani, irlandesi, italiani e portoricani si respirava nelle viscere, l’unico respiro che accomunava ricchi, benestanti divisi tra benpensanti e delinquenza, e ultimi che lo subivano appena usciti dai ghetti etnici. Dove l’unica ribellione permessa era la depressione e un senso di claustrofobia dentro l’immensa gabbia chiamata New York.

La variegata giornata di Alberto “femminaro” nella Little Italy è immersa nei ricordi della sua terra e nella realtà di una tristezza perenne in una metropoli di brutale dispersione umana.

Quella metropoli che aveva già ingoiato sua madre Rosalinda e suo padre che aveva già cercato e subito nella matrice di sfruttamento dieci lavori diversi. Per Rosalinda quei ricordi che divennero sempre più dolorosi quando restò vedova, dovette rimboccarsi le maniche per trovare lavoro da “donna libera” dalla tradizione di sposa casalinga, succube volente o nolente e di madre sempre accudente i figli seppur adulti. L’attività lavorativa di una donna non ha mai lo sbocco della pensione! Ma nelle difficoltà di vedova alla ricerca di un lavoro dignitoso ritrovò anche la bellezza, anche quella interiore che le ridà un protagonismo di genere che nella sua terra natia le era impossibile.

Jamilah che si riflette nella bionda e ricca del film Metropolis e s’inventa cantante per sopravvivere.
Quando era arrivata in America non credeva ai suoi occhi, ora, provata dalla fatica di essere donna in una società dedita anche allo schiavismo sessuale come valore di dominazione che includeva anche tanti ultimi, voleva solo “restituire la sua esistenza alla legittima proprietaria: se stessa”, forse rivedendosi quando era comunque protagonista della sua vita, allenata com’era a rubare, e le riusciva benissimo. Allora si considerava una stronza per i piccoli danni che faceva agli altri ma ora, forse, considerava l’unica strada per emergere quella di rubare agli altri con l’illusione di dominarli.

Shui che si beava a raccogliere quanto gli altri avevano perso o buttato sui pavimenti della metropolitana. “Piccole schegge di vita altrui” con le quali si convinceva che erano doni di compensazione alla sua vita stracciata prima di ritornare nei meandri chiaroscuri di Chinatown.

Altre storie di vita vissuta ci raccontano di Amar, Betty, Prince, Consuelo.

Tutte le 360 pagine ci raccontano, meglio di un album di crude fotografie in bianco e nero, di anfratti personali tenuti segreti, odiose discriminazioni sociali ed etniche, povertà coercitiva che calpesta la fatica per sopravvivere, problematiche relazionali e familiari, come ovvie conseguenze della violenta emarginazione e oppressione delle comunità che hanno fatto da basamento di sangue alla protervia di una nazione, “patria dell’oppressione” dei popoli, dentro e fuori le sue mura a stelle e strisce.


Agatha Orrico è traduttrice e giornalista free-lancer. Ha collaborato con varie riviste proponendo interviste, reportage, articoli di ricostruzione, storica e temi sociali. e portavoce di un Collettivo di Donne vittime di violenza.
Vive a Brescia e “Stracci di vita a New York” è il suo romanzo di esordio.

Collaboratrice redazionale del mensile Lavoro e Salute

STRACCI DI VITA A NEW YORK
Editore: Independently published (13 settembre 2022)
Pagine 369 24,00 euro

Recensione di Franco Cilenti, pubblicata sul numero di novembre di Lavoro e Salute

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