Sul bordo dell’abisso

Di «cigno nero» in «cigno nero», capitalismo e «sonnambuli» annessi stanno trascinando l’Europa e il mondo verso il baratro. La storia (del capitale) si ripete: la prima volta come tragedia, la seconda pure

Partiamo dai fatti. Dopo aver reso pubblico, lo scorso 24 febbraio, 12 punti per la pace in Ucraina, Xi Jinping ha reso possibile l’incontro – senz’altro “storico” – tra Iran e Arabia Saudita, ha incontrato Putin e si appresta a incontrare (?) Zelenksy. Dopo aver avviato il repentino raffreddamento dell’economia, con l’innalzamento dei tassi di interesse (da zero o negativi a 5% in USA e 3,5% in UE), la Fed e la BCE devono fronteggiare la crisi bancaria che, partita dalla Silicon Valley Bank e da First Republic, ha già contagiato Credit Suisse, scosso le borse, e che potrebbe propagarsi ulteriormente. Dopo essere stata in India e avere con la stessa stretto accordi di «partenariato strategico» (commercio di armi), Giorgia Meloni ha approfittato dell’assist del Segretario della CGIL Maurizio Landini, presentando un programma liberal-corporativo già all’opera con le norme approvate e in via di approvazione. Dopo settimane di scioperi, Macron ha deciso di fregarsene del Paese in subbuglio e del Parlamento, imponendo la riforma delle pensioni: la Francia, a differenza dell’Italia, brucia.

Sembrano, tutto sommato, eventi privi di connessioni forti: la guerra in Ucraina non è quella che da 7 anni devasta lo Yemen, e che vede protagonisti Iran e Arabia Saudita; le banche centrali non possono non combattere l’inflazione (in merito, vedi l’importante approfondimento di Biagio Quattrocchi), ne va della loro credibilità, e ovviamente le banche too big to fail pretendono interventi del «prestatore di ultima istanza»; la CGIL vuole a tutti i costi la legge sulla rappresentanza, il monopolio della quale garantisce risorse e sopravvivenza, a 27 anni di distanza da Prodi e pochi giorni dalla strage di Cutro non poteva non discutere con Giorgia Meloni; finché la Francia brucia da sola, mentre in Italia riforme assai peggiori conquistano gli applausi “responsabili” delle parti sociali (sindacati confederali e Confindustria), c’è poco da temere, parola di Mario Monti.

Il problema è che connessioni ci sono eccome. Di più: le connessioni, se adeguatamente comprese, rivelano il carattere tragico, ai bordi dell’abisso, del tempo presente. Non si tratta di fomentare impotenza e depressione, intendiamoci, ma di sostenere e orientare la prassi, la sola che può rendere la comprensione della congiuntura adeguata. Vale dunque la pena fare uno sforzo e cogliere i legami dove sembrano meno evidenti, anche a costo di procedere per congetture.

Agli americani piace dire, soprattutto in questo momento, che tutti i mali del mondo vengono dalla Cina: colpa della Cina il riscaldamento globale; senz’altro colpa di Wuhan e della Cina la pandemia; secondo l’economista Kenneth Rogoff, e non solo secondo lui, colpa della flessione di immobiliare e infrastrutture cinesi (la Cina ha ormai costruito abbastanza) se l’aumento dei tassi di interesse produce crisi bancarie americano-elvetiche. Ovviamente è colpa della Cina se Putin non si arrende alla NATO e non si fa processare dalla Corte penale internazionale, anche se, altrettanto ovviamente, i crimini di guerra di Bush in Iraq nessuno può processarli – ci mancherebbe che le leggi internazionali siano uguali per tutti. I palloni sono tutte spie e certamente, anche se prove non ce ne sono, la Cina sta vendendo armi alla Russia. Ed è così che, se qualche politico europeo propone cautela nella guerra agita contro la Russia e imminente contro la Cina, Biden alza i toni e rilancia borioso: in primavera, con i caccia polacchi e l’uranio impoverito inglese già in Ucraina, e le esercitazioni dei militari ucraini a Sabaudia (a due passi dalla Capitale), parte la controffensiva; poi, probabilmente presto, ci si occuperà di Taiwan.

Lungi da me farla facile col nazionalismo di Xi Jinping (così diverso da quello di Modi?), che non è un tiranno ma che di certo non parteggia per la democrazia dei molti. Solo chi è in malafede, però, può far finta che non sia quella cinese, al momento, l’unica nonché autorevole politica globale ostile alla catastrofe bellica. Ovviamente gli Stati Uniti lavoreranno per far fallire le mosse diplomatiche di Xi, in Medioriente come in Ucraina. Proprio per questo, l’Europa dovrebbe seguire una strada diversa. Una mossa europea alternativa al cataclisma è altamente improbabile, Italia e Polonia si danno da fare per impedirla, Macron combina scarso (ma non del tutto inesistente) coraggio diplomatico con efferatezza neoliberale in patria, in nessun modo giustificabile. Solo dalla Germania di Scholz potrebbe arrivare una svolta, ma…

La Germania non è scema, ha chiara in testa la posta in gioco della guerra ucraina (la sopravvivenza dell’Europa a trazione franco-tedesca). Ed è forse per questo che ha ricominciato a pretendere austerità. Lo scontro nel Board della BCE dello scorso 16 marzo, risolto con un aumento dei tassi di 50 punti nonostante il crollo di Credit Suisse e delle borse, ha il sapore di una vendetta: se l’Italia fomenta l’Europa disegnata dalla Polonia, dai Paesi baltici e dalla NATO, mentre intanto lascia schiattare i migranti nel cimitero di nome Mediterraneo, bene che annaspi sotto il suo colossale debito pubblico con tassi di interesse in crescita repentina. Mera congettura? Magari sì, oppure no.

Vendette europee a parte, le banche centrali hanno ripreso i salvataggi che salvano ricchi e moral hazard. Al di là del funzionamento dei «CoCo bond», nuova follia finanziaria che invece di ridurre i rischi li aumenta, siamo di fronte a una classica crisi bancaria: panico e “corsa agli sportelli”, con addirittura i titoli di Stato americani a essere causa dei guai – fenomeno, quest’ultimo, indubbiamente meno “classico”. Ciò è avvenuto in primo luogo alla Silicon Valley, tra venture capital e startup, ma ha raggiunto fin troppo rapidamente la Svizzera, con Credit Suisse in caduta libera a partire dalle dichiarazioni del suo maggiore azionista, Saudi National Bank – che, forse non del tutto casualmente, è la più grande banca commerciale dell’Arabia Saudita. Panico vuol dire, in primo luogo, crisi di fiducia; in secondo, contagio emotivo e razionalità gregaria; in terzo luogo, panico è anche una profezia che si autoavvera: visto che temo il peggio, corro allo sportello; così facendo, favorisco il peggio invece di placarlo.

Ed è proprio nelle crisi bancarie, evidentemente frutto pure dell’assenza di vigilanza adeguata (le riforme del 2018 di Donald Trump hanno allentato regole e vigilanza in US), che emerge in superficie la vera natura delle banche, dei depositi, del credito: la liquidità manca perché non può non mancare, altrimenti non si tratterebbe di una banca, ma del salvadanaio di casa. La banca, sottoposta a regole più o meno vincolanti ed efficaci, con management contraddistinto da maggiore o minore inclinazione al moral hazard, è sempre una fabbrica che produce denaro a mezzo di denaro, passando o non passando per la produzione di beni e servizi, ovvero per lo sfruttamento di forza-lavoro. Il moltiplicatore dei depositi e i rischi sempre più elevati, nella competizione per accaparrarsi risparmi e investimenti, sono la fonte primaria dell’instabilità finanziaria.  

Nell’instabilità cronica, nei «cigni neri» che si affollano, in verità, c’è il capitale come «contraddizione vivente», «in movimento». È in questo movimento, infernale, che la turbolenza si fa recessione, la recessione depressione, la depressione guerra mondiale: non è una linea retta, ma, come per il tempo, si tratta di zig zag, contrazioni ed esplosioni, avanzamenti e arretramenti, accelerazioni e paralisi. A che punto siamo? Sul bordo dell’abisso, è chiaro.

Fin qui la congettura è ardita, ma ancora fondata. Meno evidente è la connessione tra la guerra, la crisi bancaria e Meloni sul palco di Landini, la rivolta in Francia. Marco Revelli ha sottolineato che Landini, leader sindacale che dallo scontro con Marchionne alla sua elezione a Segretario della CGIL aveva suscitato l’entusiasmo di tante e tanti, ha concesso a Meloni più di quanto abbia effettivamente portato a casa. Vero, ma non del tutto. Meloni infatti ha dichiarato che: allo Stato spettano le regole, mentre il salario spetta alla contrattazione collettiva; il lavoro, secondo un’indicazione al contempo liberale e corporativa, lo creano le imprese con i lavoratori (mansueti). Traduciamo: niente salario minimo, perché ci pensano i CCNL che la CGIL sigla con Confindustria; semmai si tratta di sfoltire la giungla di contratti pirata con una legge sulla rappresentanza sindacale che faccia fuori, oltre ai contratti pirata, i sindacati di base e conflittuali; capitale che funziona (manifattura) e lavoro sindacalizzato uniti nella lotta della «ri-globalizzazione selettiva», e gli altri (servizi a basso valore aggiunto, tessile, agricoltura, ecc.) si arrangino. Siamo così certi che la linea di Meloni, che è poi quella di Bonomi, sia così distante dalla linea dei confederali, CGIL inclusa? Ancora: industria delle armi e keynesismo di guerra hanno poco a che fare con la scelta confederale (e di Landini) di non alzare i toni contro il governo di «destra-destra»?

Seppur offuscata dai media, la straordinaria mobilitazione francese che va avanti da settimane ci indica che il futuro non è mai già scritto. Di più: la paura di un altro contagio, quello delle lotte sociali sul salario e il welfare, spaventa i banchieri centrali europei al punto da fargli alzare i tassi, nonostante i conclamati rischi di nuova recessione. Ci troviamo dunque di fronte a una biforcazione: guerra e crisi bancaria sollecitano, quanto meno in Europa, due risposte sindacali tra loro alternative e conflittuali, adattamento liberal-corporativo o rilancio dello sciopero e della lotta contro il lusso, la disuguaglianza, il lavoro sotto padrone, il disastro climatico – tutti temi che, con forza, stanno emergendo nelle mobilitazioni d’oltralpe. La strada italica sembra ormai rigidamente segnata, anche se il contagio è sempre aleatorio, indeterminabile. Non servono però, questo è certo, attese messianiche: serve una politica di movimento che faccia i conti con l’assenza – salvo l’eccezione transfemminista, maltrattata da stampa e CGIL – di movimenti sociali e facile disponibilità al conflitto, con la mutazione antropologica e la «gabbia d’acciaio» liberal-corporativa del Bel Paese.

D’altronde è solo sul bordo dell’abisso che i cambiamenti radicali, inaspettati, diventano possibili. Nonostante tutto.  

Francesco Raparelli

24/3/2023 https://www.dinamopress.it

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