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«In Rojava usano armi chimiche e l’esercito turco non risparmia gli ospedali»

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Non è la prima volta che visita il Kurdistan: a marzo, infatti, era stata per più di due settimane con Uiki, l’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia, nei territori del Kurdistan turco, il Bakur, insieme a un gruppo di osservatori internazionali per verificare che, durante le elezioni amministrative in cui si candidava il partito filo-curdo Hdp, non ci fossero irregolarità.

È stata evacuata da Qamishlo venerdì sera 11 ottobre, poche ore dopo l’inizio dell’aggressione turca, mercoledì 9 ottobre, ed è rientrata a Firenze il 16 ottobre. L’ho incontrata giovedì 17 – poche ore prima della “tregua” (si legge “richiesta di resa”) turca – al polo universitario di Novoli, a Firenze, a margine di un’iniziativa dello Spazio Autogestito – vendita di kebab a prezzi popolari per raccogliere fondi per la Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia.

Cosa ti ha spinto ad andare in Rojava?
Principalmente gli ideali. Sono voluta partire per essere partecipe e avere la possibilità di osservare con i miei occhi, imparare qualcosa in prima persona di quel modello che ho sempre considerato incredibile. Volevo andare e condividere questa esperienza sul campo. E volevo, sì, entrare all’interno di questo territorio da attivista, ma – avendo io una formazione di tipo sanitario – anche facendo qualcosa di effettivo, nel mio ambito.

Cos’hai trovato là?
Sono arrivata proprio nel primo momento di pace dopo otto anni di guerra, quindi in una fase di forte ricostruzione: delle strutture cittadine, delle infrastrutture, dei trasporti, di miglioramento delle strutture ospedaliere. Finalmente si poteva risparmiare dal punto di vista di spese e sforzi investiti nella difesa militare.
Sul piano sanitario e umanitario, invece, ancora prima dell’aggressione turca la situazione era già critica, perché parliamo della presenza di campi profughi che vanno dalle 10mila alle 70mila persone, con difficoltà ulteriori – per il fatto che non sono riconosciuti – per quanto riguarda i rifornimenti e il supporto internazionale. Tuttavia era davvero un momento di crescita e ripartenza, che è stato completamente minato da questo attacco.

Che impressione ti ha fatto il confederalismo democratico messo in pratica, con la sua rivoluzione femminista, ecologista, anti-capitalista?
Le cose ovviamente hanno bisogno del loro tempo per passare dalla teoria alla pratica in maniera completa e condivisa, con la partecipazione attiva di tutti. Ma in Rojava ogni cosa tende verso il modello del confederalismo democratico, con un grande lavoro per implementarlo dove ancora non c’è, mobilitandosi subito su alcuni punti fondamentali. Come ad esempio la difesa della donna, con l’apertura immediata dei centri femminili e la prevenzione ginecologica. I consigli cittadini, poi, sono ovunque, sono capillari. Ogni cosa che viene fatta rientra all’interno della visione del confederalismo. Ad esempio, quando hanno dovuto creare la rete di trasporti pubblici, hanno usato solo veicoli elettrici, per quanto questo fosse molto più difficile, molto più costoso.

Di cosa ti occupavi come volontaria?
Quando sono arrivata, all’inizio, lavoravo direttamente in un ospedale da campo, all’interno del campo profughi di Al-Hawl. Dopo poco ho iniziato a lavorare come coordinatrice sanitaria, quindi ero responsabile di sei strutture e lì mi occupavo del rifornimento farmaci, di gestire il personale, organizzare queste cliniche sotto l’aspetto logistico. E poi della parte di comunicazione, raccogliendo informazioni dagli ospedali, quindi della scrittura di report sulla situazione delle malattie nelle varie zone. Comunque anche in ambito sanitario sono parecchio avanti in Rojava.

In che modo?
Da un lato il progetto è avanzatissimo perché ha veramente l’obiettivo della capilarizzazione più totale, partendo dalle visite domiciliari. E non nel senso che il paziente chiama il medico a casa, ma proprio si bussa porta per porta tramite gli operatori sanitari, per fare prevenzione e copertura. Dall’altro, però, attualmente anche la parte sanitaria è fortemente sotto attacco turco: le ambulanze e gli ospedali vengono bombardati e si devono fermare. Quindi rimangono poche strutture aperte e con una difficoltà di movimento delle ambulanze e del sistema emergenziale in generale enorme. Inoltre è stata presa l’autostrada che collega Qamishlo ad Aleppo e che era quella su cui viaggiavano anche i rifornimenti. E, ripeto, parliamo della presenza di campi profughi con 70mila persone che, con la partenza delle Ong, si ritrovano adesso ad affrontare una situazione di totale incertezza.

Chi rimane?
In questo momento solo Heyva Sor e tutto quello che è la sua componente locale dei comitati della salute.

La Turchia è accusata di aver utilizzato napalm e fosforo bianco durante i suoi attacchi. E le immagini, terribili, che arrivano dal Rojava sembrerebbero confermarlo.
Sì, ci sono stati, pare, attacchi con armi chimiche. C’è un po’ di ritardo nelle conferme perché per andare a dire al mondo che sono armi chimiche hai bisogno di fare una serie di test sui pazienti colpiti che, in questo momento, i medici giù non sono in grado di effettuare. Quindi hanno difficoltà a dichiararlo. Per ora c’è solo la prova visiva, perché sono armi abbastanza riconoscibili per quello che fanno sui corpi rispetto a una bomba normale. E ci sono testimonianze di dottori che ti dicono: “Io non te lo posso far vedere nel vetrino, ma ti sto dicendo che queste sono armi chimiche”.

Che racconti ti arrivano da chi è rimasto?
I compagni giù, nell’ambito sanitario, esprimono preoccupazione sul fatto che l’esercito turco e i gruppi jihadisti filo-turchi stanno avanzando ben oltre l’autostrada e oltre i 30km oltre il confine. E prendono di mira gli ospedali. Se si ferma l’ospedale di Tell Temer è un casino, perché quella è la struttura più vicina al fronte che in questo momento sta lavorando davvero a ritmi serrati.

Poi ci sono le voci che arrivano dai compagni combattenti, quelli che lottano sul fronte, e sono ancora peggio. Da Sere Kaniye in particolar modo, dove adesso il nemico sta puntando a circondarli. Stanno resistendo all’interno della città e ne hanno ripreso una parte in questi giorni, però è una situazione in bilico, perché gli altri attaccano da terra con i jihadisti e dal cielo con la copertura aerea. È arrivata anche una testimonianza dagli internazionalisti, dodici compagni che stanno combattendo lì, che suonava tanto come una lettera di addio. Tell Abyad, invece, è completamente caduta, però dentro ci sono dei compagni che fanno guerriglia. Le informazioni che arrivano da Tell Temer riguardano l’uso delle bombe a tappeto, come è avvenuto ad Afrin: le stesse modalità, con poche perdite dal punto di vista turco, perché vengono mandate avanti le bande jihadiste per fare gli attacchi.

Cosa possiamo fare noi da qua?
Un sacco di cose! Ci sono delle raccolte fondi attualmente in corso per rispondere direttamente all’emergenza. Ce n’è una della Mezzaluna Rossa di Livorno, e i soldi vanno interamente nelle casse di Heyva Sor.
Dal punto di vista politico, poi, dobbiamo fare pressione sul nostro governo e sull’Unione Europea per lo stop, anche retroattivo, alla vendita di armi alla Turchia, e per cancellare il suo processo di adesione alla Ue. I cittadini italiani, poi, dovrebbero puntare a un boicottaggio pieno della Turchia (prodotti, vacanze) e delle cosiddette banche armate.

Inoltre c’è stato un rafforzamento Nato all’interno della Turchia stessa, con un contingente italiano di 130 soldati e una batteria di missili terra-aria puntati per prevenire o rispondere a un attacco siriano in territorio turco. Bisogna chiedere di ritirarli. O di orientarli nella direzione opposta. Servirebbe infatti un contingente di tutti gli Stati europei che faccia da cuscinetto diplomatico e che blocchi gli attacchi, una forza di interposizione.
Insomma, possiamo fare un lavoro enorme all’interno dei nostri Stati, che è una cosa che i compagni da giù non possono fare. Loro, sul campo, resistono alla guerra combattendo, noi, da qui, possiamo prendere parte attiva nella resistenza facendo pressione sui governi.

Sara Ligutti

21/10/2019 https://left.it

MINISTRI, GENERALI E AMMIRAGLI ITALIANI ALLA CORTE DEL SULTANO ERDOGAN

Non sono solo gli elicotteri da guerra di Leonardo-Finmeccanica e le batterie anti-missile SAMP-T dell’Esercito schierate ai confini con la Siria a documentare la solidità della partnership strategico-militare tra l’Italia e la Turchia. Nonostante la svolta reazionaria del regime dopo il controverso golpe del luglio 2016 e la crescente escalation militare contro i Kurdi in Turchia e Siria, il Ministero della difesa italiano ha intensificato con Ankara il numero delle esercitazioni aeree, terrestri e navali, le visite ufficiali di ministri, sottosegretari e alti comandanti delle forze armate, le attività di formazione di personale turco nelle accademie di guerra e nei reparti d’elite di mezza Italia e, finanche, la “vendita” delle unità navali dismesse.

Dal 17 al 28 giugno scorso, mentre gli strateghi di Erdogan si preparavano a pianificare la massiccia offensiva anti-kurda in Siria, presso la grande base aerea di Konya i reparti di volo degli Stati Uniti d’America, Giordania, Pakistan, Qatar, Turchia e Italia davano vita ad una grande esercitazione aerea, l’Anatolian Eagle 2019, “una delle più complesse  in ambito internazionale” e “un’opportunità importante per lo sviluppo ed il consolidamento di tattiche ed addestramento delle Forze Armate partecipanti, messe alla prova in diversi scenari operativi”, così come riportato dal Ministero della difesa italiano. Ad Anatolian Eagle hanno partecipato i cacciabombardieri AMX del 51° Stormo dell’Aeronautica militare di Istrana (Treviso), “a conferma – aggiunge la Difesa – che l’esercitazione rientra nell’ambito degli appuntamenti addestrativi di rilievo, quale occasione per migliorare l’integrazione tra il proprio personale, e gli  equipaggi di volo di diverse nazioni nella conduzione delle missioni aeree complesse che caratterizzano gli attuali scenari di intervento del potere aereo”.

Nel settembre del 2017 era stata l’unità della Marina Anteo per il supporto alle operazioni subacquee (alle dipendenze del Raggruppamento Subacquei ed Incursori “Tesei Tesei”) a raggiungere il porto turco di Aksaz per partecipare all’esercitazione Dynamic Monarch, congiuntamente alle forze navali turche, spagnole, statunitensi, norvegesi, britanniche e francesi. “La Dynamich Monarch 2017 è un’esercitazione a cadenza triennale nell’ambito della Submarine Escape and Rescue (SMER), che permette di verificare le capacità a disposizione della NATO per la ricerca ed il soccorso al personale di un sommergibile sinistrato”, riferiva l’ufficio stampa della Marina militare italiana. “Lo scopo di questa complessa attività è la condivisione delle procedure di soccorso ed il miglioramento dell’interoperabilità tra le diverse Marine, allo scopo di ridurre i tempi di intervento ed aumentare le probabilità di sopravvivenza del personale posto all’interno di un sommergibile adagiato sul fondo”. Un anno dopo (luglio 2018), l’equipaggio della fregata missilistica e anti sommergibile Espero, impegnata di norma nell’Operazione Mare Sicuro, partecipava nelle acque del Mediterraneo Centrale all’esercitazione (Passex) con la fregata T.C.G. Gediz della Marina militare della Turchia. “Sono state condotte una serie di manovre cinematiche, simulazioni di approccio per rifornimento in mare e numerose attività tattiche-procedurali, nonché scambi di comunicazioni radio e dati tra le rispettive Centrali Operative di Combattimento”, riporta il sito del Ministero della difesa. “L’evento ha costituito sicuramente una preziosa occasione per entrambe le unità per migliorare le proprie capacità operative e incrementare il livello di addestramento degli equipaggi, rafforzando il grado di interoperabilità tra assetti di diversa nazionalità  appartenenti alla NATO”.

Di massimo rilievo le visite ufficiali in Turchia da parte degli uomini di governo e dei vertici delle forze armate nazionali. Va segnalato in particolare che il 2 maggio 2019 è stata l’allora ministra pentastellata alla Difesa, Elisabetta Trenta, a recarsi ad Istanbul per un vertice con l’omologo turco Hulusi Akar. “Si è trattato di un colloquio cordiale, durante il quale i due Ministri hanno condiviso l’auspicio di portare avanti e rafforzare la cooperazione bilaterale e l’interesse che entrambi i Paesi hanno nei confronti dell’area mediterranea”, riporta il comunicato ufficiale. Elisabetta Trenta ha poi raggiunto i saloni di Idef 2019, la Fiera Internazionale dell’Industria della Difesa che si tiene a Istanbul con cadenza biennale. Accompagnata dal Segretario generale della Difesa/DNA, generale Nicolò Falsaperna, la ministra ha avuto modo d’incontrare i manager e i rappresentanti delle principali industrie italiane produttrici di sistemi da guerra. “Bisogna puntare sulle eccellenze della nostra industria e sul made in Italy, garanzia di sviluppo e innovazione e bisogna farlo con un riferimento sempre molto chiaro verso il nostro Paese”, l’appello della ministra agli espositori connazionali.

Sempre quest’anno, a febbraio, erano stati il Presidente del Centro Alti Studi della Difesa, generale Massimiliano Del Casale e il ministro plenipotenziario Fabrizio Romano a giungere in Turchia per una visita ufficiale alla locale Defence University e al comando della forza di pronto intervento NATO (Rapid Deployable Corps Turkey – NRDC-T), entrambi dislocati ad Istanbul. “Nel corso della visita, il Presidente del CASD ha ribadito che è tempo che nasca una nuova stagione di collaborazione: la Turchia e l’Italia sono collocate in una delle aree più sensibili del pianeta in termini di sicurezza, e la formazione costituisce un punto di forza per ampliare i margini di collaborazione”, riporta l’ufficio stampa della Difesa. Nel 2017 c’era stata invece una missione di tre giorni in Turchia del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Danilo Errico, che aveva incontrato il suo corrispettivo turco, generale Salih Zeki Çolak e il Capo delle forze armate, generale Hulusi Akar. In occasione di quel viaggio, il generale Errico si recava pure a Kahramanmaraş, località dove è schierata dal luglio 2016 la task force italiana “Sagitta” dotata del sistema anti-missile SAMP-T, nell’ambito del programma NATO di difesa integrata aerea e missilistica della Turchia sud-orientale.

Graduati dell’esercito turco sono stati ricevuti invece dalla Scuola Sottufficiali dell’Esercito italiano di Viterbo (maggio 2018). “Accolti alla Caserma Soccorso Saloni, i visitatori hanno avuto l’opportunità di constatare il percorso didattico e addestrativo seguito dai futuri Comandanti di plotone”, annota il portavoce delle forze terrestri nazionali. “A suscitare particolare interesse, la consolidata collaborazione e sinergia fra la Scuola Sottufficiali dell’Esercito e l’Università degli Studi della Tuscia, giudicata innovativa ed efficace dai colleghi turchi. Il percorso universitario dei giovani Allievi Marescialli dell’Esercito offre infatti interessanti opportunità per conseguire una formazione solida e al passo coi tempi, essenziale per chi nel prossimo futuro sarà protagonista nei principali scenari di crisi internazionali. Particolare attenzione è stata mostrata per il Sistema di Simulazione VBS (Virtual Battle Space), finalizzato a un apprendimento più rapido ed efficace delle procedure tecnico-tattiche tipiche delle minori unità”.

Sempre nell’ambito della formazione-addestramento delle unità turche, va pure segnalato il progetto biennale di “rafforzamento della capacità istituzionale del Comando Generale della Gendarmeria turca in materia di gestione dell’ordine pubblico e controllo della folla”, conclusosi nel febbraio 2019 presso il CoESPU (il Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia di Stabilità dell’Arma dei Carabinieri) con sede presso la caserma “Chinotto” di Vicenza. Il progetto indirizzato alla famigerata polizia militare turca è stato finanziato dall’Unione europea: oltre 1.400 gendarmi sono stati addestrati in operazioni anti-sommossa dai Carabinieri sia in Italia che in Turchia, con particolare enfasi al “controllo in aree rurali manipolate da elementi terroristici”. Come segnalato dal quotidiano online Vicenzapiù.it, i militari turchi vengono ospitati nella caserma “Chinotto” anche da altre due agenzie di polizia militare internazionali, la Gendarmeria Europea (Eurogendfor) e il Centro di Eccellenza per la Polizia di Stabilità della NATO (di quest’ultima, il vicedirettore è il colonnello della Gendarmeria turca, Tamer Sert).

Presso i porti e le basi navali turche approdano periodicamente unità e navi scuola della Marina tricolore. E’ accaduto ad esempio nell’agosto 2017 con la Palinuro in sosta tecnica ad Izmir; l’anno successivo ancora la Palinuro nel lasciare il Mar Nero, ha attraversato lo stretto del Bosforo: “sulle sponde, i cittadini di Istanbul e tanti curiosi in mare che con le loro barche si avvicinavano per salutare la nave”, riporta il diario di bordo. “Grande anche la soddisfazione dell’equipaggio e degli allievi della Campagna d’istruzione, tutti impegnati nelle proprie mansioni per condurre la navigazione”. Infine l’approdo ad Istanbul e la libera uscita in città per gli allievi marescialli della Scuola Sottufficiali di Taranto.

Ancora nel settembre 2017 era il cacciatorpediniere Luigi Durand de la Penne a raggiungere il porto di Aksaz prima di concludere il ciclo addestrativo a favore degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno. “La base navale NATO di Aksaz è un punto ad alto valore strategico e operativo della Marina militare turca, distante circa 20 km dalla più rinomata città turistica di Marmaris”, riporta lo Stato maggiore della Marina italiana. “Nel primo giorno di sosta si sono tenute le consuete visite protocollari, in cui il Comandante ha incontrato le autorità civili e militari cittadine, consolidando il già forte legame con la Marina militare turca. Legame che si è concretizzato con una serie di esercitazioni congiunte fra l’Unità e la fregata turca TCG Gelibou, svoltesi nelle acque antistanti Aksaz”.

Intanto la Turchia, o meglio i suoi più rinomati cantieri, si sono trasformati nel cimitero (presunto) dove l’Italia inuma i suoi ex gioielli di guerra navale. Lo scorso mese di marzo il Ministero della difesa ha reso noto di aver venduto per 3.382.000 euro l’ex incrociatore Vittorio Veneto e l’ex fregata Granatiere, soggetti all’obbligo di demolizione e riciclaggio sicuro e compatibile con l’ambiente in conformità con le norme europee in materia (queste unità imbarcano amianto ed altri materiali pericolosi). Dopo il disarmo, le due unità sono state ospitate presso l’Arsenale Militare di Taranto e a seguito del bando di gara indetto dalla Difesa, sono state aggiudicate ad una delle quattro società partecipanti – tutte con sede in Turchia -, la Simsekler General Ship Chandlers & Ship Repair Inc. di Izmir, principale azienda di fornitura, riparazione e riciclaggio di navi del paese.

Nei cantieri navali di proprietà della Istanbul Shipyard ospitati ad Aliaga, provincia di Smirne, lo scorso anno sono finiti invece i due (ex) cacciatorpedinieri lanciamissili Audace e Ardito, ormeggiati a La Spezia dal 2006, anno del loro ritiro operativo. Anche in questo caso si è trattato di una cessione onerosa a cura dell’Agenzia Industrie Difesa (AID) in vista della loro demolizione o, meglio, dell’avvio al riciclaggio in Turchia.

Antonio Mazzeo

18/10/2019 https://antoniomazzeoblog.blogspot.com

NOI SIAMO LA SPERANZA. Siamo qualcosa che non potrai mai distruggere.

«La popolazione civile è stanchissima. Lo si legge nei loro occhi, stanchezza dopo otto anni di guerra e ora questo duro colpo. Si sentono usati, ma non sono sorpresi. Hanno un morale costantemente altissimo, volto alla possibilità di vittoria». Cecilia è una giovane volontaria italiana, nel Rojava per coordinare le attività di ricostruzione del sistema sanitario. Una ricostruzione non solo bloccata dall’operazione militare turca “Fonte di pace” lanciata il 9 ottobre contro il nord della Siria, ma anche annullata dai raid che colpiscono ospedali, cliniche, ambulanze. Colpiscono i civili, le carovane di sfollati, le comunità, le città che dal 2011 hanno fatto due cose: sconfitto lo Stato Islamico, macchina da guerra e di propaganda fascistoide, e costruito un nuovo modello di società e di sistema politico, il confederalismo democratico.

Non è un caso che tra le vittime ci sia Hevrin Khalaf, segretaria del partito Future Syria e attivista dei diritti delle donne, giustiziata alla periferia di Tal Abyad da un gruppo di uomini armati.

Uno sforzo di lotta armata e politica che non ha pari nel mondo contemporaneo. Ora è in pericolo: dal cielo i caccia turchi prendono di mira indiscriminatamente il Rojava, da terra avanzano – coperti dai raid e dall’artiglieria pesante – migliaia di miliziani islamisti, membri delle opposizioni al governo Assad da anni reclutati dalla Turchia per fare qualcosa di ben diverso dalla costruzione di una democrazia.

«Questa mobilitazione delle persone, con i civili che proteggono case e comunità, non differenziandosi dai militari (le unità di difesa curde maschili e femminili, Ypg e Ypj, ndr), è anche il motivo per cui ci sarà un massacro, se…

L’inchiesta di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 18 ottobre 2019

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18/10/2019 https://left.it

LA NATO DIETRO L’ATTACCO TURCO IN SIRIA

 

Germania, Francia, Italia e altri paesi, che in veste di membri della Ue condannano la Turchia per l’attacco in Siria, sono insieme alla Turchia membri della Nato, la quale, mentre era già in corso l’attacco,  ha ribadito il suo sostegno ad Ankara. Lo ha fatto ufficialmente il segretario generale della Nato Jean Stoltenberg, incontrando l’11 ottobre  in Turchia il presidente Erdoğan e il ministro degli esteri Çavuşoğlu.

«La Turchia è in prima linea in questa regione molto volatile, nessun altro Alleato ha subito più attacchi terroristici della Turchia, nessun altro è più esposto alla violenza e alla turbolenza  proveniente dal Medioriente», ha esordito Stoltenberg, riconoscendo che la Turchia ha «legittime preoccupazioni per la propria sicurezza».

Dopo averle diplomaticamente consigliato di «agire con moderazione», Stoltenberg ha sottolineato che la Turchia è «un forte Alleato Nato, importante per la nostra difesa collettiva», e che la Nato è «fortemente impegnata a difendere la sua sicurezza».

A tal fine – ha specificato – la Nato ha accresciuto la sua presenza aerea e navale in Turchia e vi ha investito oltre 5 miliardi di dollari in basi e infrastrutture militari. Oltre a queste, vi ha dislocato un importante comando (non ricordato da Stoltenberg): il LandCom, responsabile del coordinamento di tutte le forze terrestri dell’Alleanza

Stoltenberg ha evidenziato l’importanza dei «sistemi di difesa missilistica» dispiegati dalla Nato per «proteggere il confine meridionale della Turchia», forniti a rotazione dagli Alleati. A tale proposito il ministro degli esteri Çavuşoğlu ha ringraziato in particolare l’Italia. E’ dal giugno 2016 che l’Italia ha dispiegato nella provincia turca sudorientale di Kahramanmaraş  il «sistema di difesa aerea» Samp-T, coprodotto con la Francia.

Una unità Samp-T comprende un veicolo di comando e controllo e sei veicoli lanciatori armati ciascuno di otto missili. Situati a ridosso della Siria, essi possono abbattere qualsiasi velivolo all’interno dello spazio aereo siriano. La loro funzione, quindi, è tutt’altro che difensiva.

Lo scorso luglio la Camera e il Senato, in base a quanto deciso dalle commissioni estere congiunte, hanno deliberato di estendere fino al 31 dicembre la presenza dell’unità missilistica italiana in Turchia.

Stoltenberg ha inoltre informato che sono in corso colloqui tra Italia e Francia, coproduttrici del sistema missilistico Samp-T, e la Turchia che lo vuole acquistare.

A questo punto, in base al decreto annunciato dal ministro degli Esteri Di Maio di bloccare l’export di armamenti verso la Turchia, l’Italia dovrebbe ritirare immediatamente il sistema missilistico Samp-T dal territorio turco e impegnarsi a non venderlo alla Turchia.

Continua così il tragico teatrino della politica, mentre in Siria continua a scorrere sangue. Coloro che oggi inorridiscono di fronte alle nuove stragi e chiedono di bloccare l’export di armi alla Turchia, sono gli stessi che voltavano la testa dall’altra parte quando lo stesso New York Times pubblicava una dettagliata inchiesta sulla rete Cia attraverso cui arrivavano in Turchia, anche dalla Croazia, fiumi di armi per la guerra coperta in Siria (il manifesto, 27 marzo 2013).

Dopo aver demolito la , la Nato tentava la stessa operazione in Siria. La forza d’urto era costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi.

Essi affluivano nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia aveva aperto centri di formazione militare. Il comando delle operazioni era a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta.

Tutto questo viene cancellato e la Turchia viene presentata dal segretario generale della Nato come l’Alleato «più esposto alla violenza e alla turbolenza  proveniente dal Medioriente».

Manlio Dinucci

15/10/2019 www.rifondazione.it

fonte: il manifesto

Appello internazionale di solidarietà con il Rojava

(Carta internacional de solidaridad con el Rojava)

A fronte del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, stabilito dal presidente Donald Trump e dal suo omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, e di fronte all’invasione militare contro i popoli liberi del Rojava che questo accordo permette, consideriamo necessario e improrogabile dichiarare quanto segue:

1. La Comune del Rojava rappresenta in Medio Oriente il primo progetto politico anticapitalista basato sul Confederalismo Democratico, che promuove una visione alternativa dell’organizzazione della vita, fondata sull’autonomia non statale, sull’autodeterminazione, sulla democrazia diretta e sulla lotta al patriarcato. L’autonomia del Rojava è l’utopia di un mondo possibile, dove l’interculturalità, una differente e virtuosa relazione tra generi e il rispetto della madre terra vengono costruiti giorno dopo giorno. Il Rojava è la dimostrazione che non dobbiamo rassegnarci alla barbarie del presente.

2Il primo risultato della lotta per l’autonomia del Rojava è stato il contenimento dello stato islamico e del suo fondamentalismo. Adesso, questo accordo debilita gli sforzi delle milizie curde, attentando contro i rilevanti risultati che i reparti delle YPG e YPJ hanno ottenuto fino ad ora contro lo stato islamico in Siria. Le milizie curde saranno infatti costrette a spostarsi, per proteggere il confine nord del Rojava dall’invasione turca.

3. La guerra contro l’autonomia del Rojava, costruito sulle macerie dello stato siriano, continua sistematicamente da anni: attacchi e invasioni territoriali sono stati la normalità. Con il ritiro delle forze militari statunitensi dal confine turco siriano, la pericolosità della minaccia sale di livello, l’ostilità dello stato turco contro chi lotta per un mondo democratico, si trasforma nella possibilità concreta di uno sterminio etnico.

Per questi motivi, noi firmatari di questa carta – accademici, studenti, attivisti, organizzazioni sociali, collettivi, popoli organizzati e in resistenza – manifestiamo la nostra solidarietà con la lotta dei curdi e dei popoli della Siria del Nord, e gridiamo la nostra rabbia contro questa ennesima aggressione capitalista e patriarcale dello stato turco, che avviene nell’assordante e complice silenzio dell’Unione europea e degli organismi internazionali, e dimostra come i Diritti umani vengano tutelati solo quando obbediscono alle leggi del mercato.

Difendere il Rojava significa difendere chi resiste ogni giorno, in medio oriente e in ogni parte del mondo, contro la barbarie che avanza. Questa carta è un grido di rabbia, indignazione e solidarietà con i nostri fratelli e sorelle curde, che lottano e muoiono in nome della libertà e della democrazia.

Que viva la vida! Que muera la muerte!

Il Rojava non è solo!

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Primi firmatari:
John Holloway (Messico); Sergio Tischler (Messico); Jerome Baschet (Francia); Noam Chomsky (Usa); Sylvia Marcos (Messico); Jean Robert (Messico); David Harvey (Usa); Arjun Appadurai (Usa); Etienne Balibar (Francia); Teodor Shanin (Gran Bretagna); Barbara Duden (Germania); Michael Hardt (Usa); Marina Sitrin (Argentina); Carole Pateman (Usa); Donna Haraway (Usa); Raquel Gutierrez (Messico); Boaventura de Sousa Santos (Portogallo); Federica Giardini (Italia); Dora Maria Hernandez Holguin (Colombia); Francesca Gargallo (Messico); Massimo de Angelis (Gran Bretagna); Wu Ming (Italia); Toni Negri (Italia); Catalina Toro Perez (Colombia); David Graeber (Gran Bretagna), Raul Zibechi (Uruguay), Gustavo Esteva (Messico), Aldo Zanchetta (Italia), Mimmo Lucano (Italia).

Per nuove adesioni: rojava.ekairos@gmail.com

(diffuso, tra gli altri, da wumingfoundation.com e ilmanifesto)

Difendere la rivoluzione

La guerra che la Turchia ha lanciato in queste ore contro l’Amministrazione democratica della Siria del nord e dell’est deve incontrare tutta la nostra opposizione. Trovandoci lontani dallo scenario di guerra, la nostra reazione non può che tradursi in una mobilitazione attiva, a tutti i livelli, per la fine dell’aggressione e il ripristino di una condizione di pace, oltre che di sostegno alla necessaria resistenza partigiana delle Ypg e delle Ypj.

Coloro che sono abituati a schemi tradizionali non si troveranno a loro agio: un tempo sarebbe stata la «società civile» europea, soprattutto «di sinistra» a insistere per il rientro dei soldati statunitensi in patria (tanto più dal medio oriente!), mentre ora lo fa, isolato, il presidente sostenuto dall’alt right e dall’elettorato più xenofobo che gli Stati uniti abbiano conosciuto in tempi recenti. In teoria anche islamofobo, sebbene l’intesa sia avvenuta proprio con il rappresentante più popolare di un certo «Islam militante» e di massa, il suo omologo Erdogan. A insistere perché i militari a stelle e strisce svolgano un ruolo di interposizione con la Turchia è invece oggi una parte consistente dell’arcipelago della sinistra altermondialista, quella che ha nel suo albero genealogico l’opposizione alla guerra in Iraq e le manifestazioni contro il G8 a Genova, e che oggi può identificarsi in parte con i Fridays for Future (che non a caso hanno avuto luogo anche in Rojava, proprio nei luoghi che la Turchia bombarda).

Ci sono anche altre contraddizioni. La scelta di Trump è condivisa del suo elettorato ma non dalla nomenclatura repubblicana, neanche quella a lui fedelissima, ed è osteggiata dall’intero Congresso, dai dipartimenti di stato e difesa e soprattutto dal Pentagono. Quest’ultimo ha addirittura espulso, con un’iniziativa autonoma, la Turchia dalle piattaforme operative delle forze aree della coalizione il 7 ottobre, con una mossa che ha inibito per alcune ore l’intervento aereo. L’esercito degli Stati uniti, sebbene sia un’entità priva di collocazione politica esplicita, è molto ideologizzato. Ho conosciuto diversi ex marines che avevano lasciato quell’esercito per unirsi alle Ypg, sostenendo che le forze armate statunitensi erano inquinate «dalla politica» e nelle Ypg era per loro possibile combattere coerentemente per gli ideali della rivoluzione americana delle origini, che loro vedevano anche nelle conquiste sociali del Rojava: diritti civili, libertà di espressione, rispetto delle minoranze e delle donne.

La rivoluzione americana è un evento tanto remoto quanto complesso, ma sul piano soggettivo ciò che conta è che se gli ex marines che hanno scelto le Ypg sono sparute eccezioni in termini quantitativi, sono un sintomo più che significativo degli umori dell’esercito, ed anche tra i loro vertici; ne sono, anzi, un’indesiderata ma rivelatrice conseguenza. Chi segue la guerra siriana sa benissimo quanto la contraddizione tra Pentagono e Casa bianca abbia contato in tutta la vicenda. Obama e Hillary Clinton hanno gettato la Libia nel caos e da lì, nel 2012, hanno cominciato a imbarcare armi di Gheddafi alla volta della Turchia, perché i turchi le consegnassero ai siriani sunniti che intendevano sfidare il regime alawita di Bashar al-Assad. Sebbene l’amministrazione statunitense sia stata molto spaventata dalle Primavere arabe (soprattutto quella egiziana), Obama è intervenuto per trovare una curvatura degli eventi che fosse storicamente funzionale agli interessi statunitensi. Il caso libico è il più evidente, quello siriano il più ambiguo.

L’altro grande attore imperiale nel mondo musulmano post-2011 è infatti la Turchia. Il partito neo-ottomano di Erdogan è stretto alleato del movimento globale della Fratellanza musulmana, al potere in Qatar. Turchia e Qatar, il cui punto di vista è stato sapientemente diluito e servito sul piatto delle audience internazionali, in questi anni, dall’emittente qatariota Al-Jazeera, hanno fomentato con i soldi, le armi e la propaganda tutte le fazioni islamiste (che non vuol dire musulmane, ma conservatrici o fondamentaliste nell’ambito del più ampio spettro delle tendenze islamiche) all’opera dal Marocco alla Siria e all’Iraq, fin dentro l’Iran. Questa prospettiva è stata sostenuta dalla Casa bianca, i cui maggiori avversari geo-politici erano Libia, Siria e Iran. Questa linea è stata osteggiata fin da subito dal Pentagono. Si pensi che la Dia, il servizio segreto dei militari, intervenne nel 2012 per sabotare il trasferimento di armi dalla Libia ai «ribelli siriani» ad opera della Cia. La Dia prese contatto con ufficiali ostili ad Erdogan nell’esercito turco per sostituire le armi importate dalla Libia con ferrivecchi scassati che l’esercito di Ankara teneva in vecchi depositi.

La politica di Obama, pur ostacolata dalla Dia, riuscì addirittura a produrre, nel 2014, la nascita di un «califfato» esteso su gran parte della Siria e dell’Iraq: tanto si erano rafforzate le file jihadiste. Di questo i militari statunitensi ritengono l’amministrazione Obama responsabile. Fin dal 2012 l’attore principale nella guerra contro Assad era Jabhat al-Nusra, alias Al-Qaeda in Siria, nei cui ranghi si nascondeva anche Daesh, alias Al-Qaeda in Iraq. Gran parte dei soldi, degli uomini e delle armi fatti entrare dalla Turchia in Siria (con l’aiuto di Stati Uniti, Qatar, Francia, Gran Bretagna e Arabia Saudita) sono finiti nelle mani di Al-Nusra e, dopo che Daesh ha cercato di sottometterne i capi con una specie di complotto interno (2013), dei fautori stessi di un immediato «califfato» territoriale, divenuti famosi come «Isis» quando riuscirono, piuttosto facilmente, a porlo in essere. Si noti che anche l’insurrezione dei clan sunniti in Iraq contro il loro governo, che favorì l’alleanza tra le reti tribali e Daesh, fu attivamente sostenuta dalla Turchia. Non che i siriani o gli iracheni non abbiano la necessità e il diritto storico di insorgere: ma l’unico involucro politico organizzato di quelle insurrezioni è stato «di stato» e imperiale fin dall’inizio, e ciò non ha nulla a che fare con le scelte delle Ypg o del Pkk, che hanno subìto da subito questi processi, perdendo migliaia di donne e uomini per arginarli.

Sono questi gli scenari imperiali, incarnati da elite musulmane o cristiane, che hanno portato a decine di migliaia di perseguitati, di morti, di profughi e di fosse comuni. Questi sono gli scenari che hanno condotto all’esodo di massa di migliaia di persone dall’Iraq, dalla Siria e dal Kurdistan verso l’Europa dal 2015, e hanno portato l’Europa a ricoprirsi di muri e gli elettorati europei a spostarsi verso la destra sempre più estrema. Non è vero che la storia di questi anni è stata fatta esclusivamente dagli stati, quasi fosse un grande complotto, ma è vero che – se si esclude l’eccezione del movimento confederale fondato dalla sinistra curda – l’attivazione popolare ha trovato soltanto in attori statuali e forme imperiali un progetto concreto e una forma possibile di sostegno e avanguardia. Le sollevazioni del 2011 erano un fenomeno da contenere per Washington, da sobillare per Ankara e Doha. L’islam presunto «moderato» di Erdogan e quello mediatico-finanziario del Qatar erano il meno peggio secondo la Casa bianca democratica. Già allora i vertici dell’esercito non erano d’accordo: le fazioni islamiste delle primavere, secondo il Pentagono, avrebbero provocato pericoli alla sicurezza statunitense.

Persino i bombardamenti statunitensi contro Daesh nell’agosto 2014, mentre i miliziani inseguivano donne e bambini ezidi per le montagne dell’Iraq, erano stati annunciati da un presidente riluttante. Obama era talmente alieno dall’idea di intervenire militarmente (aveva ritirato il personale dall’Iraq nel 2010) da mantenere per mesi gli sporadici bombardamenti privi di una cornice militare definita, senza sancire l’inizio, il senso e gli scopi di quelle azioni come operazione militare coerente vera e propria: tecnicamente uno scandalo per i generali. Furono nuovamente i militari a insistere perché si formasse la coalizione internazionale Cjtf e si attivasse l’Operazione Inherent Resolve. L’esistenza del califfato non impedì alla Casa bianca di continuare a finanziare ed armare i gruppi jihadisti di Aleppo, Damasco e Idlib, nello stesso momento in cui il Pentagono avviava i contatti con le forze rivoluzionarie che avevano difeso Kobane e sanciva un’alleanza (anche per questo esclusivamente militare) con le Forze siriane democratiche.

L’incontro tra rivoluzione curda, già affiancata da movimenti arabi e assiri, e una coalizione espressione della reazione internazionale (in Siria) agli effetti del precedente intervento internazionale nel paese, è un paradosso e un ibrido fin dagli inizi. La cosa è talmente evidente che occorrerebbe fare un passo in avanti rispetto a continuare ad affermarla in modo tutto sommato imbelle. Interrogarsi sulle cause è invece utile. Soltanto una mentalità razzista e paternalista può pensare che il movimento curdo non ne fosse o non ne sia consapevole; e soltanto un posa stucchevole può indurre qualche benpensante o super-esperto a sostenere che non fosse un ibrido necessario, e che non sia necessaria mantenerlo, nelle forme in cui è possibile farlo, ancora oggi. Durante la difesa di Kobane né il regime né la Russia sono intervenuti ad aiutare chi le ha difese: è un fatto che siano intervenuti gli Stati uniti. Là dove la Russia ha proposto una collaborazione, come nella provincia di Aleppo e, fino al gennaio 2018, nel cantone di Afrin, le Ypg sono state più che disponibili a cooperare, pur nelle differenze. Il regime possiede una classe dirigente e un comando militare meno affidabili (ma non meno sanguinari e accaparratori) di quelli russi e statunitensi, e ciononostante sono note le collaborazioni delle Ypg con l’esercito siriano ad Aleppo e Hasakah, dove era necessario cacciare i gruppi jihadisti (non si può dire lo stesso del regime, naturalmente, che nulla ha fatto per difendere le città di Jarablus, Al-Rai, Al-Bab e Afrin, e parte della provincia di Idlib, occupate in questi anni dalla Turchia).

I militanti islamisti e i loro simpatizzanti europei (esistono anche quelli) hanno accusato le Ypg di essersi uniti allora alle operazioni brutali di Russia e regime. I sostenitori del fascismo baathista o del sovranismo autoritario del Cremlino si sono lamentati della collaborazione con gli Stati uniti. Se si combatteva contro Al-Qaeda ad Aleppo, si era complici dei bombardamenti russi. Se si combatteva contro Daesh a Raqqa, di quelli statunitensi. In un modo o nell’altro, c’è sempre la critica a chi combatte da parte di chi preferisce non farlo. Ognuno ha il suo stile e non c’è niente da fare su questo punto. Ho imparato anche che non serve a nulla rispondere che non si può avere il cuore di ergersi a strateghi da bar sport (o da bar del circolo comunista, o del centro sociale) se non si possiedono le stesse responsabilità verso famiglie e civili, e non si hanno gli stessi risultati rivoluzionari da difendere. Ma non serve a nulla perché se una persona fosse in grado di comprendere una simile osservazione, eviterebbe di assumere certi toni, o di cavalcare certe ambiguità, fin dall’inizio.

Le contraddizioni con gli Stati uniti avrebbero potuto assumere molte forme. Il Pentagono, ad esempio, stava da tempo complottando contro le Ypg in Siria (la sua collaborazione con i curdi non è mai stata dettata da puro amore), cercando di sostituirle con una milizia legata ai clan arabi nell’est del paese, creando una forza conservatrice ma non politicizzata e sotto il suo diretto controllo, non invisa alla Turchia seppur senza interferenza ideologica turca. Questo piano non è andato in porto perché il movimento rivoluzionario ha impedito che ve ne fossero le condizioni sociali e politiche. La rottura è avvenuta infine per l’irruzione dell’elettorato di Trump sulla scena. La classe operaia e media bianca delle zone di provincia o di crisi degli Stati Uniti ha votato Trump anche perché rovesciasse la politica estera di Obama, questo continuo supporto a «milizie straniere», questo continuo «coinvolgimento» nel mondo musulmano. È stato un argomento importante nella campagna elettorale di Trump. Che poi queste «milizie straniere» non siano composte da jihadisti in questo caso, ma le Ypg, per gli elettori del presidente non fa differenza. È il genere di problema che insorge con un elettorato che si crede ostile al «terrorismo» ma è semplicemente xenofobo.

Per arrivare a questo Trump ha dovuto tacere la decisione al Pentagono. Avere l’esercito più potente del mondo significa anche essere una democrazia rappresentativa sotto un’ingombrante protezione soldatesca. Sebbene Trump volesse da tempo ritirare i soldati dall’Afghanistan e dalla Siria, non ha potuto farlo perché il Pentagono si è messo di traverso. Ora il caso è diverso, perché Trump non ha dato il tempo al Pentagono di intervenire a correggere la sua rotta, che peraltro (come nel caso del voltafaccia russo ad Afrin) non prevede un completo ritiro. Se l’attacco turco è iniziato il 9 ottobre, e non già il 7 o l’8 ottobre, è perché la facilità con cui Trump si è lasciato convincere da Erdogan a diramare l’ordine ai soldati di lasciare Serekaniye ha sorpreso pure il presidente turco: l’esercito di Ankara non era pronto. I carri armati si sono spostati verso Tell Abyad la sera dell’8 ottobre. Non dimentichiamo che per tutta l’estate ci sono state trattative tra Stati Uniti, Turchia e Sdf, e in settembre si era arrivati a un accordo che escludeva l’invasione. L’attuale situazione è perciò il risultato effettivo dell’azione individuale del presidente, che sa di arrecare un dispiacere all’establishment, ma sa anche di compiacere chi non vuole che guerre «inutili», «tribali» e «ridicole» (come ha scritto nei suoi tweet) provochino costi ai contribuenti (dato che non si può neanche parlare di un numero alto di caduti americani).

Ci sono quindi motivi razionali tanto per questa scelta quanto per le contraddizioni che essa ha fatto sorgere nel campo statunitense. Sarebbe tuttavia fuorviante sopravvalutare l’impatto di queste pur necessarie considerazioni geo-politiche sulle nostre scelte e sulle nostre prese di posizione. Un conto è conoscere lo scenario, un corso è lasciarsi guidare da esso. Noi abbiamo un’altra agenda. Noi ragioniamo in altri termini e rispondiamo ad altri interessi. Gli interessi di chi? Di chi non ha fonti di lucro geo-politiche da difendere, e può soltanto perdere dall’aumento della violenza nel mondo e dall’inanellamento di nuovi successi da parte dei difensori della famiglia tradizionale, delle gerarchie naturali, della parola di Dio, dei simboli religiosi sbandierati come strumenti politici, della sottomissione della fede o dell’identità culturale a interessi di appropriazione, devastazione ambientale e dominio; a logiche liberali imparentate con il fascismo, a logiche sovraniste in cui sovrana è una minoranza, a logiche divine in cui costi e guadagni sono ripartiti secondo logiche troppo umane. L’appoggio alle amiche e agli amici che versano il loro sangue oggi a Serekaniye non si colloca nella scelta di uno o più di questi fronti, ma nel sostegno all’alternativa ad essi, visti come un problema nel loro complesso. L’unica alternativa, in questo secolo, portata avanti con coerenza vera: quella che ottiene dei risultati.

Davide Grasso

Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno della Federazione democratica della Siria del Nord e nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere l’Isis. È autore di New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela (Stilo Editrice, 2013), Hevalen. Perchè sono andato a combattere l’Isis in Siria (Alegre, 2017) e di Il fiore del deserto (Agenzia X, 2018).

10/10/2019 https://jacobinitalia.it

«State con noi o con i jihadisti?». La comandante Ypj Dalbr Jomma Issa a Montecitorio

 

 

La fiducia nella propria forza rimane. È quella che ha permesso ai combattenti curdi e alle combattenti curde dello Ypg e Ypj di resistere all’avanzata dell’Isis nel nord della Siria ed è quella che, ancora, riunisce i popoli dell’area nel tentativo di costruire una nuova società.

«Crediamo nel coraggio e nella forza delle nostre unità e siamo convinti di poter contrastare sul terreno gli attacchi della Turchia», dice la comandante delle Ypg Dalbr Jomma Issa durante la conferenza stampa che si è tenuta a Montecitorio stamattina a cui hanno partecipato anche il membro del consiglio esecutivo della federazione della Siria del nord Ahmad Yousef e il presidente della regione dell’Eufrate ed ex-sindaco di Kobane Anwar Muslem. «Ma il problema sono gli attacchi aerei, non abbiamo mezzi per fermarli. E, fino a ora, l’offensiva del regime di Erdogan si sta concentrando appunto sui bombardamenti delle città al confine settentrionale».

Dopo le dichiarazioni del “Sultano” alle Nazioni Unite e l’approvazione da parte del parlamento turco (con il solo voto contrario dell’Hdp), ma soprattutto in seguito al “beneplacito” di Trump che ha ritirato le proprie truppe dal nord della Siria, è iniziata ieri pomeriggio l’operazione “Sorgente di Pace”. Un nome (che fa eco al “Ramoscello d’ulivo” del 2018) dai riferimenti tutt’altro che bellicosi, ma sotto al quale sono evidenti le intenzioni di completa destabilizzazione dell’area.

«Stanno colpendo anche la popolazione civile», prosegue la comandante mostrando alla sala delle prove fotografiche. «La situazione diventa ancora più esplosiva se pensiamo che sono presenti sul territorio circa 12.000 prigionieri di Daesh, che non sappiamo quanto possiamo tenere sotto controllo se l’offensiva dovesse continuare. Alcuni di loro sono foreign fighter, sulla cui sorte chiediamo da tempo che si esprimano gli organismi internazionali. Se dovessero tornare in libertà, potrebbero facilmente muoversi fra i vari confini arrivando magari in Europa. Non è un problema solo nostro: rappresentano una minaccia per tutto il mondo».

E il tema, almeno dalla prospettiva di questo appello da parte delle combattenti curde di fronte alla politica e alla stampa italiana, è appunto quale sia la responsabilità e quale dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale nella “crisi” che si è aperta in Rojava.

Senza che nessuno si fosse fatto illusioni, gli Stati Uniti di Trump hanno dimostrato pochi scrupoli nell’abbandonare i curdi al proprio destino. «L’esercito degli Usa si è ritirato dalle basi poste sul confine per lasciare spazio di manovra alla Turchia», spiega sempre la comandante Ypj. «Quando, con le Forze Democratiche Siriane, abbiamo formato una coalizione per combattere l’Isis avevamo un accordo: dovevamo difendere insieme le postazioni e i territori liberati. Invece Trump si è ritirato e l’unica azione che ha dichiarato di voler intraprendere è quella di ritorsioni economiche nei confronti della Turchia. È qualcosa che magari può anche funzionare nel lungo periodo, ma per noi è necessario fermare questo attacco ora e subito. Ripeto: il nostro principale problema è che siamo sprovvisti di contraerea e l’esercito di Erdogan sta bombardando i nostri territori. Gli Stati Uniti potrebbero magari fornirci gli strumenti per contrastare queste operazioni, ma significherebbe implicitamente condannare le azioni di Erdogan. Non credo dunque che lo faranno».

Nel complicato scacchiere siriano sembra dunque difficile per i curdi capire di chi potersi fidare in questo momento. Sebbene pare ci siano state aperture da parte di Damasco verso una possibile alleanza contro l’offensiva di Erdogan, la comandante non lascia molto spazio a una tale prospettiva:

«È chiaro che siamo in contatto con il regime siriano. Ma loro vogliono ritornare alla situazione di undici anni fa, mentre per noi è fondamentale invece che si vada verso uno stato siriano democratico e federale. Altrimenti, vorrebbe dire affossare il progetto che abbiamo portato avanti fino a questo punto».

Ciò che sta accadendo in Rojava non riguarda solo i popoli che abitano e combattono in quell’area, dai curdi agli arabi, ai circassi. Daesh e il fondamentalismo islamico hanno colpito e continuano a colpire dovunque, mettendo in pericolo non solo la vita di molte persone ma anche gli stessi principi per una convivenza democratica e per uno sviluppo sociale e politico tanto in Medio Oriente quanto in Europa (la quale, ricordiamo, se da una parte condanna timidamente le azioni di Erdogan, dall’altra continua a stringere accordi con lui per “bloccare” i profughi siriani sul suo territorio).

Ypg e Ypj sono state le uniche forze capaci di combattere il fondamentalismo. E lo hanno fatto sia sul piano militare che su quello delle idee: il progetto del confederalismo democratico parla infatti a tutti, rappresenta la concreta utopia di un nuovo mondo possibile, diverso e più inclusivo.

«Non abbiamo idea di quanto durerà l’attacco di Erdogan», conclude la comandante delle Ypj Dalbr Jomma Issa, «ma sappiamo che così c’è il rischio di un “secondo Califfato”. La comunità internazionale potrebbe istituire una No Fly Zone nel nord della Siria oppure portare le proprie forze di interposizione nei territori che ora sono sotto i bombardamenti. Il Presidente turco vuole portare sotto il proprio controllo l’intera area del nord della Siria e per farlo sta uccidendo indiscriminatamente militari e civili. In più, non è un segreto che si serva anche delle cellule dormienti di Daesh presenti nella zona. Mi chiedo come sia possibile che venga concesso a un membro della Nato di agire in questa maniera. Chiediamo che la comunità internazionale, i governi dei vari paesi e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intervengano subito. State con noi o con i jihadisti?».

A noi la risposta.

Francesco Brusa

10/10/2019 www.dinamopress.it

A difesa del Rojava, contro l’aggressione turca. A fianco della prima rivoluzione del XXI secolo

 

1) Fin da subito dobbiamo mettere in campo ogni iniziativa possibile contro l’aggressione turca alla comunità democratica del Rojava. La straordinaria società rivoluzionaria che si sta costruendo nel nord della Siria ha purtroppo poco da sperare dall’ONU e dalle potenze grandi e piccole che hanno fatto del Vicino Oriente la polveriera del mondo. Sulla carta la disparità di forze appare gigantesca, ma i combattenti kurdi lo hanno detto con chiarezza: resisteranno. Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane dovranno ancora una volta affidarsi al proprio coraggio e alla propria determinazione, poiché la comunità internazionale non sembra intenzionata ad andare oltre i comunicati e le parole di condanna.

Il punto è che sotto attacco non sono i kurdi in quanto tali, ma proprio il processo politico e sociale del confederalismo democratico che essi stanno creando assieme a tutti i popoli della regione. Quell’esempio può essere davvero contagioso poiché declina, in strettissimo intreccio, il valore fondamentale della pace e la cooperazione paritaria sul piano internazionale, la pratica dell’uguaglianza reale tra le persone e la equità sociale a fondamento delle relazioni economiche, la democrazia partecipata sul piano delle dinamiche istituzionali e la salvaguardia assoluta dell’ambiente, il recupero critico delle culture e la piena libertà di orientamento di vita per tutte e tutti. Dà speranza, insomma, non solo a chi vive in quell’area del mondo, ma a tutti gli esseri umani che abitano il nostro pianeta. Il Rojava e la battaglia pluridecennale dei kurdi ci parlano con l’evidenza dei fatti della reale possibilità di arrivare alla libertà di ciascuno, all’uguaglianza fra gli esseri umani e alle relazioni di fratellanza tra le persone. Si tratta di una rivoluzione, per l’appunto. Ed è soprattutto questo che fa paura a chi – in quel contesto geopolitico, ma non solo – difende il mondo così com’è, coi suoi squilibri, il suo degrado, la sua barbarie.

L’aggressione che si sta avviando, oltre a rappresentare un ulteriore episodio, particolarmente grave, della “quarta guerra mondiale a pezzi” che da due decenni sta insanguinando il nostro pianeta col concorso attivo di tutte le potenze, tende perciò a configurarsi soprattutto come una brutale operazione di repressione internazionale delle prospettive di trasformazione pienamente democratica del mondo. Il regime similfascista della Turchia farebbe il “lavoro sporco” che molti altri governi, amici e nemici della Turchia, vorrebbero fosse fatto.

2) Ma se stavolta l’attacco non è solo a un popolo ma a una rivoluzione, alla prima grande rivoluzione del XXI secolo, ad essere chiamati immediatamente in causa siamo tutti noi; tutti coloro, cioè, che non si rassegnano agli attuali assetti sociali e vorrebbero, invece, una società umana costituita da persone libere e cooperative tra loro, che si lasci storicamente alle spalle la logica perversa della disuguaglianza, della sopraffazione, dell’imbarbarimento delle regole di convivenza e della distruzione degli habitat naturali. La mobilitazione che dovremo avviare dovrà esplicitare, nel modo opportuno, questo aspetto decisivo.

Dentro le bandiere della pace, nella richiesta alla comunità internazionale di bloccare l’aggressione turca, nella pressione di piazza che qui in Italia dovremo costruire per la immediata rottura delle relazioni diplomatiche tra il nostro Paese e Ankara e per la contestuale sospensione di tutti gli accordi economici in corso; dentro, cioè, una azione che rivendichi con forza il diritto all’esistenza del popolo kurdo e delle istituzioni che liberamente si è dato, dovremo immettere, senza contrapposizioni astratte o addirittura controproducenti, anche elementi di conoscenza di ciò che concretamente si sta realizzando in quella parte del mondo.

In poche parole, dovremo essere attivi promotori di comitati e iniziative ampie, che coinvolgano persone e soggettività organizzate anzitutto sull’obiettivo immediato della pace e per il riconoscimento internazionale della comunità confederale e democratica del Rojava. E dobbiamo farlo con parole d’ordine che non siano sterili steccati ideologici. Parallelamente, però, dobbiamo far conoscere i concreti contenuti sociali e politici di quella rivoluzione: proprio perché il Rojava e il confederalismo democratico parlano del tempo che tutti viviamo.

3) Va sottolineata la straordinaria storia, pratica e teoretica, del confederalismo democratico, sostenuto dai popoli martoriati del Kurdistan ed impostosi alfine in Rojava, nel fuoco di sanguinosi combattimenti incrociati contro le potenze militari dell’area, soprattutto la Turchia, e contro il fascismo dell’ISIS, variamente sostenuto ed alimentato per anni da alcune delle maggiori potenze occidentali. L’aspetto che più va messo in evidenza è che il confederalismo democratico non è semplicemente “la rivoluzione dei curdi”, ma è una rivoluzione di valore generale. In uno dei contesti più drammatici della storia contemporanea è germogliato l’ideale realistico della convivenza umana incentrata sulla prospettiva della orizzontalità della politica e sulla equità dei rapporti sociali, così come teorizzato da Abdullah Ocalan nella prigione di Imrali, dove è crudelmente detenuto da vent’anni. I voluminosi saggi che con tanta difficoltà egli ha scritto nel suo isolamento assoluto, e che con altrettanta difficoltà sono usciti dal carcere e pubblicati in tutto il mondo, costituiscono il punto di riferimento esplicito di questa modernissima rivoluzione.

Nel Convegno internazionale su “Democratic confederalism, municipalism and Global Democracy”, tenutosi proprio in Italia il 4, 5 e 6 ottobre scorsi, il valore universale dell’esperienza delle comunità curde è risultato fin troppo evidente a chiunque si sia anche soltanto affacciato al Teatro Palladium di Roma. Le oltre seicento persone che stabilmente hanno riempito la sala erano ovviamente in gran parte italiani, ma tanti sono venuti dai quattro angoli del mondo: dalla Turchia al Sudafrica, dal Chiapas alle Filippine, dalla Colombia alla Gran Bretagna, dall’India alla Spagna, dagli USA al Brasile…

E poi ben 40 relazioni che hanno toccato i tutti gli argomenti di fondo su cosa possa davvero significare “un altro mondo possibile” all’insegna del recupero ambientale e delle pratiche cooperative, e all’insegna soprattutto della partecipazione e dell’autogoverno. All’insegna anche di un messaggio di pace, senza vinti né vincitori, lanciato in particolare per lo scenario devastato del Vicino Oriente, ma che vale a tutte le latitudini del nostro pianeta.

In effetti, il Convegno internazionale di Roma ci ha plasticamente consegnato un’idea complessa di trasformazione, sorretta concretamente dalle tre principali spinte storiche del nostro tempo: a) il nuovo protagonismo dei popoli del Sud del mondo, con la difficile ricerca di una via che coniughi lo sviluppo economico e l’umanizzazione dei rapporti sociali, e con la lettura positiva, nell’ambito di più eque relazioni internazionali, delle stesse dinamiche di migrazione e integrazione che segneranno per decenni il nostro pianeta; b) il movimento delle donne, che non solo rivendicano diritti formalmente uguali per “l’altra metà del cielo” (diritti che pure è necessario rivendicare perché in molte aree del mondo neppure sono rispettati), ma propone soprattutto una nuova e più piena autocostruzione della dimensione umana in quanto tale, che valga per tutti, maschi e femmine; c) il movimento ambientale, che nell’impegno contro i cambiamenti climatici e contro le pratiche di produzione devastatrici, generate in modo accelerato dal capitalismo degli ultimi decenni, allude ad una modifica generalizzata degli stili di vita, in direzione di una maggiore moralità e sobrietà d’esistenza.

4) Popoli che costruiscono comunità partecipative; donne che indicano all’intera umanità un altro modo di essere; gioventù in marcia per difendere, assieme al pianeta, la stessa vita umana: tutto ciò trova oggi, nell’esperienza del Rojava, il punto più alto di concretizzazione pratica. Può sembrare paradossale, ma non lo è. In una zona completamente devastata dalla guerra, ripartire con pratiche di amicizia con la natura e nuove relazioni paritarie cooperative tra i sessi e tra gli esseri umani in genere, è forse più possibile che altrove. Diventa possibile soprattutto se tali pratiche si collegano a una coscienza storicamente matura della rivoluzione, che si incentra sull’autogoverno e sulla dismissione della “politica verticale”. Che si collega esplicitamente alla critica del capitalismo e recupera con contenuti innovativi tutto il meglio della tradizione comunista, socialista e libertaria che ha caratterizzato il Novecento. È una idea di rivoluzione che utilizza a ragion veduta un pensatore imprescindibile come Marx, tenendolo come necessario punto fermo. Senza però farne un “santino”.

D’altronde, la rivoluzione del confederalismo democratico ha dentro di sé il pensiero forte di Ocalan, che insiste particolarmente proprio sull’andare oltre la politica come “parola del leader”. C’è, in questo modo di pensare, una assonanza straordinaria sia con l’esperienza degli zapatisti, i quali col passamontagna criticavano esattamente l’idea dell’individuo-guida, e sia col movimento dei movimenti, che scandivano con forza “non in mio nome”. L’ideale, cioè, è quello della partecipazione orizzontale, in prima persona, col primato delle agorà sulle strutture. Non a caso la scelta dei due portavoce, un uomo e una donna, nei punti apicali delle municipalità. Così come c’è obiettiva assonanza con i più innovativi passaggi delle pratiche rivoluzionarie in Occidente, segnatamente con la temperie del Sessantotto e la sua messa in discussione degli stili di vita e la proposta della “rivoluzione del vivere quotidiano”. Chi legge Ocalan, non può che registrare la obiettiva affinità delle cose che propone con quanto hanno scritto taluni grandi pensatori marxisti, come Ernst Bloch e Agnes Heller, proprio negli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo.

Ovviamente la figura di Ocalan resta un riferimento fondamentale. Ma il fatto che egli rimanga icona attiva per la pratica rivoluzionaria del confederalismo democratico non contraddice affatto l’attenzione di questa rivoluzione a criticare le forme della politica tradizionale, e dunque anche il separatismo delle pratiche operative, concettuali e linguistiche che essa porta con sé.

5) Dentro la solidarietà con la resistenza kurda, occorre far vivere – come in parte si è fatto in questi anni, ma con più costanza e intensità – la questione della liberazione di Ocalan. Abdullah Ocalan è una figura per molti versi simile a quella di Nelson Mandela. Come non poteva esserci pacificazione nella vicenda sudafricana senza la soluzione del caso Mandela, analogamente nel Vicino Oriente non sarà possibile nessuna soluzione se il regime turco non si decide a liberare il prigioniero più prigioniero del nostro tempo. Lo ha detto bene nel convegno di Roma Sonny Maipala, il segretario del Partito Comunista del Sudafrica, proponendo un parallelo tra queste due grandi figure storiche: è impensabile una uscita positiva dai molti disastri del Vicino Oriente senza la presenza attiva del presidente riconosciuto dei kurdi, un popolo di quasi 40 milioni di persone.

La campagna internazionale per la liberazione di Ocalan è in corso anche nel nostro paese e ha visto già alcuni passaggi significativi, con la cittadinanza onoraria ad Abdullah Ocalan da parte di diverse città grandi e piccole. Ma è ancora poco. Simon Dubbins, che a Roma è intervenuto a nome dell’UNITE, il più rilevante sindacato inglese, che conta milioni di iscritti, ha chiesto giustamente perché in altri paesi d’Europa non si fa quello che stanno facendo in Inghilterra. Le Unions, infatti, hanno posto la liberazione di Ocalan tra i punti più significativi della loro posizione sulle vicende internazionali, con ordini del giorno specificamente approvati dai loro congressi e con un continuo lavoro di informazione e mobilitazione dell’opinione pubblica. D’altronde, la liberazione di Ocalan è un obiettivo che accomuna tutti i movimenti progressisti e rivoluzionari, come hanno rimarcato nello stesso convegno di Roma gli oratori venuti dalla Colombia, dal Chiapas, dall’India, dalle Filippine…

E tuttavia Ocalan non è soltanto, e neppure principalmente, “il caso Ocalan”, e cioè la vicenda di un prigioniero in regime di isolamento assoluto, sempre più al centro di centinaia di appelli di giuristi, associazioni e cittadini in tutto il mondo. Egli si sta rivelando, invece, come un autore fondamentale, straordinariamente innovativo della tradizione del marxismo teoretico. I suoi libri sono ormai numerosi, anche se tradotti non sempre felicemente nelle lingue occidentali. Basta sfogliarli per rendersi conto della densità teoretica che contengono. In Italia abbiamo l’esperienza di Gramsci e dei suoi “Quaderni dal carcere” e sappiamo cosa hanno significato, non solo per lo sviluppo del pensiero marxista, ma proprio per la cultura in genere. Qualcosa di analogo sta avvenendo oggi con Ocalan, con le sue vaste riflessioni nate nel chiuso di quella cella.

Dunque, quando difenderemo il Rojava nelle piazze, dobbiamo essere consapevoli che stiamo difendendo anche una grande idea di rivoluzione. La prima rivoluzione del XXI secolo.

Rino Malinconico

9/10/2019 www.rifondazione.it