Taglio dei parlamentari: a chi conviene

Sono nato il giorno e l’anno della Dichiarazione universale dei diritti umani e, chissà per quali strani motivi o, piuttosto, semplici coincidenze, ho avuto la fortuna di essere   stato testimone oculare di molti tra fatti che fanno ormai parte della storia del XX secolo!

Infatti, frastornato dall’alternarsi di momenti di grande eccitazione ad altri di altrettanta preoccupazione – tra mia madre che ci raccomandava di seguire il consiglio del direttore (di non mettere piede fuori dal nostro albergo, in Korvin Otto) e mio padre che fremeva dalla voglia di scendere in strada per verificare di persona cosa stesse succedendo – il mio primo viaggio all’estero, con conseguente (vero) “battesimo del fuoco”, avvenne, all’età di otto anni, nel novembre del 1956, tra le strade di Budapest.

Così come, ormai ventenne e pienamente consapevole del dramma che si stava consumando intorno a me, ero presente quando, nell’agosto del 1968, la forza bruta dell’ex URSS e di alcuni paesi “satelliti” soffocava l’anelito di democrazia dei giovani (e non solo) praghesi.

Credo, quindi, di poter essere considerato teste sufficientemente attendibile se affermo che, comunque, in tutti i numerosi paesi che ho avuto il piacere di visitare – da quelli d’oltre Atlantico[1] a quelli di là della vecchia “Cortina di ferro”, prima e dopo il 1989 -ho sempre respirato, in quanto italiano, aria di fraterna amicizia e sostanziale rispetto. Sebbene in presenza, in particolare nei paesi dell’Europa centrale, dei classici stereotipi che hanno sempre accompagnato i nostri connazionali: pizza, spaghetti e mandolino!

Finanche durante il quasi ventennio berlusconiano, nonostante uno stravagante ed imprevedibile Premier, che andava in giro per il mondo raccontando barzellette, facendo le corna a un vertice dei Ministri degli Esteri europei e vantandosi di aver “rispolverato” le sue antiche tecniche da latin lover per corteggiare la Premier finlandese, rilevavo che non era mai venuto meno quel sentimento di simpatica accondiscendenza nei confronti dei nostri connazionali.

È stato, invece, con preoccupata attenzione e senza alcun entusiasmo, che ho avuto la ventura di assistere (anche) alla difficile nascita, alla breve sopravvivenza e alla repentina agonia del governo fascio/leghista/pentastellato.

Un Esecutivo che, in poco più di un anno, è riuscito a disgregare il nostro paese e distruggere la sua credibilità internazionale.

Lo ha fatto attraverso un Ministro dell’Interno accusato di operare, in sostanza, crimini contro l’umanità, un vicepremier rivelatosi ben presto un complice silente e un Premier meritevole di essere, addirittura, etichettato – in ambito europeo – quale “burattino tra le mani di Salvini e Di Maio”.

Una situazione, dunque, capace solo di realizzare provvedimenti legislativi rivolti a soddisfare, da un lato, le più recondite tendenze populistiche e, dall’altro, a generare insicurezza e sdoganare sentimenti xenofobi e razzisti.

Una conferma, in questo senso, è stata rappresentata dalla solerte approvazione di alcuni provvedimenti che avevano costituito un vero e proprio” pacchetto”; fortemente sostenuto, nel corso della campagna elettorale, dall’intero gruppo dirigente della Lega.

Alludo, in particolare, alla modifica delle norme relative al possesso di armi e munizioni che si possono regolarmente detenere[2], alla riforma della c.d. “legittima difesa[3]” e, soprattutto, ai due decreti “sicurezza[4]/[5]”.

Un insieme di provvedimenti attraverso i quali la Lega – grazie alla silente complicità del M5S – ha esasperato i problemi relativi all’esodo degli extracomunitari e criminalizzato l’opera delle Ong in loro favore.

Tutto ciò, nonostante il concreto rischio – già ampiamente e tragicamente documentato dalle cronache degli ultimi mesi – di mettere in pericolo la vita di migliaia di richiedenti assistenza e/o asilo.

Naturalmente, il governo fascio/leghista/pentastellato non ha perso l’occasione e, attraverso un secondo decreto sicurezza, ha previsto specifiche “misure urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, che rappresentano, a parere di molti, un palese tentativo per “narcotizzare il dissenso”.

Infatti, ad esempio, considerato che già il primo decreto reintroduceva il reato di blocco stradale – che pare essere finalizzato a punire con l’arresto chi si riunisce per strada per manifestare, o “picchetta” fuori una fabbrica, una scuola o un’istituzione – oggi il nuovo decreto prevede circostanze aggravanti per numerosi reati; in particolare, nei casi di minaccia o resistenza a pubblico ufficiale.

In definitiva, c’è un aumento della pena solo per il fatto che il reato viene commesso nel corso di una manifestazione pubblica; trattasi di un evidente e stridente “giro di vite”, rispetto a possibili manifestazioni di piazza.

C’è, però, un’altra questione, di non secondaria importanza, che era a monte dei propositi del M5S e che, probabilmente, resterà – per qualsiasi altra compagine governativa dovesse sostituire il duo Salvini/Di Maio – in testa all’agenda politica dei prossimi mesi.

Mi riferisco alla riduzione del numero dei parlamentari.

Allo stato, la riforma – che riveste un carattere costituzionale – ha già ottenuto tre dei quattro voti parlamentari necessari, ma richiederà ancora, comunque, tempi abbastanza lunghi.

Ciò nonostante, non è peregrina l’idea di approfondirne le conseguenze; in particolare rispetto agli effetti sul voto dei nostri connazionali residenti all’estero.

In sostanza, la proposta dei pentastellati prevede di tagliare complessivamente, tra Camera e Senato, ben 345 seggi; di conseguenza, i deputati scenderebbero a 400 ed i senatori a 200.

L’effetto più immediato – che è quello dichiaratamente perseguito dal M5S – sarebbe rappresentato dal calo dei costi della politica.

Questo, però, in verità, appare un aspetto di carattere propagandistico perché, a mio parere, al fine di ridurre gli attuali costi, già limitarsi ad adeguare i compensi dei nostri parlamentari a quelli dei loro omologhi europei, rappresenterebbe un notevole passo in avanti.

A tale riguardo, se è di certo vero che, purtroppo, ancora oggi, la miriade di “voci” che compongono le diverse indennità dei parlamentari (siano essi italiani o stranieri), rende alquanto difficile un confronto omogeneo; è altrettanto vero che un’operazione del genere sarebbe opportuna e, di certo, ben accolta dagli elettori.

Basti pensare che, dai dati prodotti dalla Commissione Giovannini[6], l’organismo guidato dal presidente dell’Istat, si evince che i nostri parlamentari godono di un’indennità mensile lorda più alta che in ogni altro paese europeo; invece, ad esempio, prendendo in esame la voce relativa al compenso per i “portaborse”, si rileva che in Francia e in Germania i parlamentari locali ricevono un’indennità maggiore.

Intanto, si apprende che i deputati e i senatori italiani percepiscono, rispettivamente, 11.283 e 11.550 euro mensili lordi, ai quali vanno aggiunte altre voci quali: la diaria, le spese di viaggio e trasporto, quelle di segreteria e rappresentanza, per assistenza sanitaria, per l’assegno vitalizio e di fine mandato. Di contro, i parlamentari spagnoli percepiscono un contributo mensile pari a 2.813 euro, quelli dei Paesi Bassi euro 8.503, mentre i francesi ed i tedeschi stanno tra i 7.100 e i 7.668 euro mensili; cifre decisamente, molto più contenute. Ci sono poi le spese relative alla c.d. “indennità di residenza”, rispetto alla quale i parlamentari tedeschi percepiscono di più degli italiani; 3.984 euro contro 3.503, mentre gli spagnoli, per pagarsi la permanenza a Madrid, ricevono appena 1.800 euro mensili. Al riguardo, però, non è indifferente evidenziare che la suddetta indennità viene corrisposta anche ai parlamentari italiani che vivono e risiedono già a Roma. Un caso a parte è quello rappresentato dal compenso previsto per i c.d. “portaborse”. Se è vero che i parlamentari italiani ricevono, a questo fine, meno di quanto ricevano i colleghi francesi e tedeschi, è anche vero che i nostri, a  differenza degli altri,  non sono obbligati a rendicontare dette spese né dimostrare di avere realmente stipendiato un collaboratore. Potrebbero, in teoria – se non in massima e diffusa pratica – tenersi tutto per sé. A tutto questo, a uso esclusivo dei parlamentari italiani, va aggiunta una numerosa serie di benefit che, messi insieme, concorrono a far lievitare le loro indennità. È evidente, quindi, che, portare a sintesi tutte le svariate “voci” che concorrono a determinare i lauti compensi dei nostri deputati e senatori e renderli omogeni a quelli dei loro colleghi europei rappresenterebbe un’operazione di equità molto importante ed anche abbastanza rilevante, dal punto di vista economico.

Aggiungo che, tra l’altro, una riforma del genere non è così semplice e priva di conseguenze come, invece, lasciano intendere i responsabili del M5S.

Innanzi tutto, è importante rilevare che, così come previsto da alcuni esperti, se quest’ipotesi di riduzione dei parlamentari diventasse legge, ogni deputato eletto in Italia rappresenterebbe circa 150 mila abitanti, uno eletto all’estero 700 mila iscritti Aire; un senatore eletto in Italia poco più di 300 mila connazionali, uno eletto all’estero oltre 1 milione e 400 mila iscritti all’anagrafe.

In Europa, a parte la Spagna, che presenta un parlamentare ogni 133 mila abitanti, il rapporto è di poco superiore a uno ogni 100/110 mila; così è sia in Francia che in Germania.

Non solo questo: coloro che sostengono la drastica riduzione del numero dei parlamentari italiani, spesso lo fanno paragonando i nostri 945 seggi ai 535 del Congresso Usa; il che, considerato il numero degli abitanti, sembrerebbe, effettivamente, sproporzionato.

Si tratta, però, come brillantemente espresso da Marco Cucchini[7], di una considerazione fuorviante. Infatti, non bisogna dimenticare che, ai 535 membri del Congresso di Washington vanno aggiunti quelli dei singoli Stati dell’Unione.

Per intenderci, ad esempio, mentre il Consiglio Regionale della regione Abruzzo, con una popolazione pari a 1.300.000 abitanti, conta 30 consiglieri, il parlamento del New Hampshire (con 1.316.000 abitanti) ne ha, addirittura, 424.

In realtà, quindi, più che rispetto alla dimensione numerica del Parlamento, il tema più importante dovrebbe essere relativo alle (eventuali) diverse funzioni da affidare a Camera e Senato.

Senza contare che, un rapporto – tra eletti ed elettori – ancora più elevato di quello attuale, aumenterebbe, tra i cittadini, la sensazione di avere istituzioni dello Stato ancora più “distanti”; dai territori e dalle loro esigenze.

Le maggiori conseguenze, però, si avrebbero rispetto alla rappresentanza politica.

Innanzi tutto, rispetto al numero di parlamentari eletti dagli italiani residenti all’estero, si passerebbe dagli attuali 12 deputati a 8 e da 6 senatori a 4. Un taglio pari al 33 per cento!

Tra l’altro, secondo un accurato studio di Federico Fornaro, un parlamentare di Leu, “Il mix di maggioritario e proporzionale – presente nell’attuale sistema elettorale – e il minor numero di seggi a disposizione, finirebbe con il favorire i partiti più grandi a danno dei minori; specie al Senato”. Inoltre, nelle diverse regioni cambierebbero le attuali “soglie” per l’accesso delle liste al Senato – in Piemonte e Veneto, ad esempio, la stessa passerebbe dall’attuale 3 per cento all’11 per cento – e, in alcuni casi, un’intera regione finirebbe per essere rappresentata da un solo partito. In pratica, secondo l’autorevole parere di Fornaro, “l’intero sistema elettorale prenderebbe una svolta fortemente maggioritaria”.

Il semplice taglio dei parlamentari, infine, senza una contestuale riforma dell’attuale legge elettorale, avrebbe anche conseguenze (forse non volute e nemmeno considerate) sulle attuali modalità di elezione del Capo dello Stato.

In questo senso, Alfonso Celotto, docente di Diritto costituzionale, ha evidenziato che, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, la riduzione del numero dei parlamentari finirebbe con il determinare un vantaggio a favore dei delegati delle regioni; aumentandone il “peso”.

Un ultimo, interessante, particolare, è rappresentato dal disco verde arrivato, a favore del taglio, da parte di Adriano Cario, del Movimento degli italiani all’estero; mentre    numerose perplessità erano già state espresse dal Consiglio Generale degli Italiani all’Estero in Commissione Affari costituzionali.

In definitiva, rispetto a quest’idea di riforma, così come prospettata dal M5S, è comprensibile la pessimistica previsione della senatrice Francesca Alderisi, eletta in Nord e Centro America, secondo la quale:” I 12 rappresentanti degli italiani nel mondo sono un contentino consolatorio; sono il preludio alla cancellazione della Circoscrizione Estero”.

Difende la proposta, invece, il leghista Simone Billi, residente a Zurigo, pur riconoscendo che “andrebbero studiate forme di compensazione per i residenti all’estero”.

[1] Ero ospite di uno zio materno, residente a San Francisco, quando, nella notte dell’11 giugno 1962, i fratelli Anglin evasero, insieme a Morris, dal carcere di massima sicurezza di Alcatraz

[2]  Decreto Legislativo 10 agosto 2018, nr. 104

[3]  Legge 26 aprile 2019, nr. 36

[4]  Legge 1° dicembre 2018, nr. 132

[5]  Legge 8 agosto 2019, nr. 77

[6] Commissione insediata dal governo Berlusconi e confermata da Monti per conoscere esattamente i conti del nostro Parlamento e confrontare gli stessi con quelli di altri sei paesi europei: Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Austria e Belgio

[7]  fonte:”Parlamentari: ridurli si, ma con criterio”, da “lavoce.info”, del 27 agosto 2019

Renato Fioretti

Esperto Diritti del lavoro

Collaboratore redazione del periodico cartaceo Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

30/8/2019

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