Telelavoro, un’altra porta aperta al lavoro precario?

La logica del capitale rimane intatta

In questi tempi di pandemia del COVID19 è stato promosso a sazietà quello che si denomina “telelavoro” come un’opzione che permette di continuare a contribuire con dedizione alla produttività delle imprese (non lo dico io, prendo le parole delle associazioni imprenditoriali e dei portavoce del governo, molto sensibile a questa realtà). Per ora, sono pochi i dati disponibili che consentono di condividere un’analisi dei settori nei quali si sta implementando o la quantità di persone che lo stanno praticando, ma ritengo opportuno proporre una problematizzazione di questa questione, allo scopo di contribuire ad un dibattito necessario che dobbiamo svolgere noi lavoratori e lavoratrici di fronte a questa “nuova realtà”, a partire dai nostri interessi di classe. Quindi, porto in discussione cinque elementi / problemi: “Telelavoro” come destino manifesto e simbolo di prestigio, l’esternalizzazione dei costi, l’organizzazione del lavoro in relazione con il tempo di riposo, le condizioni di lavoro sicure e salubri e, per finire, le organizzazioni sindacali, le contrattazioni collettive e la legislazione sulle modalità di lavoro.

Lo faccio con il proposito di contribuire alla discussione che è appena iniziata.

Una piccola storia per cominciare

Dicono che vi sono case nelle quali si lavora da molto tempo.

Mi raccontano che nei cerros (baraccopoli in collina, N.d.T.) di Caracas vi sono famiglie che, una volta alla settimana, vanno alle fabbriche tessili ubicate a sud della città e cercano i “tagli”, che poi portano alle loro case e cuciono, con le loro macchine installate in una stanza o sul balcone. Dicono che la madre, il padre, il figlio, la figlia e persino la nonna lavorano, per il miserabile salario di una sola persona (mi vine in mente uno di quelli che chiamerebbe questo “lavoro collaborativo”). Mi raccontano altro. Mi raccontano che non c’è orario, ci sono obbiettivi ed il loro raggiungimento dipende dalla tua volontà, vale a dire dalla tua voglia di “prosperare” (io dico dalla tua voglia di mangiare durante la settimana). Continuano a raccontarmi che, poi, tornano alle fabbriche con gli abiti pronti ad essere esposti nelle vetrine dei centri commerciali di moda, ad un prezzo che chi li confeziona non potrà mai pagare. Mi dicono che tutto questo non accade solo qui, che succede anche in America Centrale e in Asia.

Aggiungono al racconto che queste persone non sono sindacalizzate, poiché l’importante è competere e che queste persone non sono considerate lavoratori ma appaltatori indipendenti che, in società con l’impresa appaltante, hanno fini comuni ma tassi di profitto assai differenziati.

Di queste persone, il cui lavoro si esprime nella vita quotidiana di ciascuno, si parla poco; su queste relazioni di lavoro si scrive, si analizza e si legifera poco. È uno spazio di lavoro reso invisibile.

Ora sì, cominciamo

Innanzitutto rispondiamo a due domande chiave: cosa riguarda il telelavoro? Possiamo dire che è una caratteristica / condizione (temporanea o permanente) della relazione di lavoro (che deve essere definita regolarmente ed espressamente nel contratto di lavoro), nella quale le attività per le quali sono stati ingaggiati il lavoratore o la lavoratrice si realizzano in edifici distinti da quelli dell’impresa appaltante, in questo caso nel loro luogo di residenza; sicuramente la denominazione “telelavoro” andrebbe rivista, posto che non riflette, a mio parere, la natura reale di ciò che si vuole definire.

La seconda domanda è: tutte le attività possono sviluppare questa modalità? Per definizione, no; molte possono farlo senza grandi limiti, mentre per altre si possono sviluppare metodi creativi (per svilupparle totalmente o parzialmente), ma per alcune non sarà mai possibile come, ad esempio, la pulizia di piazze e giardini, il trasporto di persone, tra le altre.
Avendo chiare le risposte di cui sopra, problematizziamo.

“Telelavoro” come destino manifesto e simbolo di prestigio

Il telelavoro è un’opzione che ci viene presentata come moderna, all’avanguardia, un ulteriore passo avanti nell’evoluzione del lavoro, per di più adeguata alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il marketing del telelavoro ai tempi della pandemia è fenomenale, ecco perché i guru ci dicono che stiamo arrivando forzosamente al futuro. Sicché, arriviamo ad un porto predestinato.

L’estetica con la quale è presentato il telelavoro è accattivante, giacché si mostrano le persone felici che lavorano in casa loro, da un computer e con il loro cellulare come assistente; non si mostra alcun problema rispetto questa nuova “sfida lavorativa” alle quale in molti siamo chiamati; nella prospettiva del filosofo Byung-Chul Han si presenta come “puoi farlo”.

Tutta questa montatura propagandistica ha un fine: la legittimazione del telelavoro come opzione necessaria, affinché i lavoratori e le lavoratrici lo accettino in maniera acritica e volontaria.

Di fronte a tutto ciò, innanzitutto bisogna dire che ciò che si è deciso di chiamare “telelavoro” non è una novità (come possiamo osservare nella storia che fa da introduzione a queste righe); fa parte dei meccanismi utilizzati nei Paesi in via di sviluppo come forma di flessibilizzazione delle relazioni sindacali e dei diritti e che nello scenario della pandemia di COVID-19 lo si spaccia alla classe lavoratrice globale come un’opzione di prestigio lavorativo.

Ricordiamo ciò che ora si chiama gig economy, economia a chiamata o economia condivisa, alla quale partecipa un crescente numero di lavoratori e lavoratrici e nella quale si lavora in un ambiente di flessibilizzazione acuta dei diritti. Un reportage su questa questione (Fedyushin, 2019) indica: “Dunque, nella lista delle cinquecento compagnie più ricche del mondo si trovano sempre più imprese che sfruttano il lavoro di ‘impiegati indipendenti’, secondo quanto risulta da uno studio pubblicato da Morgan Stanley. Un lavoratore statunitense su quattro opera nella gig economy e per il 10,1% di questi si tratta della fonte principale di guadagno, secondo i calcoli del progetto scientifico collaborativo ‘Gig Economy Data Hub’.

Invece, questa caratteristica della relazione lavorativa, come qualsiasi altro cambiamento, di problemi ne presenta e questi possono essere nocivi per i lavoratori e le lavoratrici. Il fatto di non mostrare i problemi non li elimina, al contrario, rimanda le misure per implementare soluzioni.

Le parole di Byung-Chul Han sul telelavoro sono ancora una volta convalidate: “Ora uno sfrutta sé stesso immaginando di realizzarsi”.

Il telelavoro come meccanismo di esternalizzazione dei costi

Carlos Martínez García, in un articolo intitolato “Della distruzione del lavoro, del telelavoro e della disoccupazione di massa”, ci racconta quanto segue:
Un mio compagno di lavoro, con molta più anzianità di lotta di me nel combattivo settore metallurgico degli anni Settanta, diceva che l’ambizione del padrone non era solo che l’operaio lavorasse, ma che ci mettesse gli strumenti suoi, ossia, aveva scoperto il telelavoro imposto in massa grazie al Coronavirus, oggetto di tante lodi. Il sogno del padrone e dello sfruttamento è ormai al culmine; la lavoratrice o il lavoratore forniscono i loro strumenti ma non solo: trasformano la loro sala da pranzo in centro di lavoro e, en passant, le donne conciliano gratis per le imprese lavoro e cure domestiche, tutti e tutte ci mettono il loro computer, pagano le bollette per Internet, per la luce, per il telefono, ci mettono il loro smartphone e, per di più, lavorano più ore; ci sono persino tizi che si definiscono progressisti e sono contenti di tutto questo”.

Lavorare in un luogo diverso dall’azienda è, implicitamente, una forma di esternalizzazione dei costi; l’impresa può fornire parte dei mezzi necessari alla realizzazione delle attività per le quali si assume il lavoratore o la lavoratrice, il resto fa parte del patrimonio del lavoratore o della lavoratrice, come esposto in maniera disincantata il saggio e vecchio amico Martínez García.

Di fronte a questo, recentemente la Unión General de Trabajadores en España, chiede un dibattito e vuole che “l’impresa affitti lo spazio utilizzato dai lavoratori e che paghi una tariffa mensile fissa o proporzionata in funzione dello spazio per il suo uso, connessione, energia elettrica, riscaldamento, pulizie e altre spese di mantenimento”. Ora mi chiedo: è sufficiente? Quali misure sono realmente necessarie? Si risolve tutto monetizzando i mezzi messi a disposizione dal lavoratore o dalla lavoratrice?

L’organizzazione del lavoro e il tempo di riposo (e la privacy)

Nelle relazioni di lavoro classiche, c’è una chiara differenza tra tempo produttivo e tempo riproduttivo, dato che il luogo dove questi si sviluppano è chiaramente differenziato; con la modalità del telelavoro , questa frontiera si fa sfumata, poiché mentre si sviluppa l’attività lavorativa, in uno stesso luogo, preferibilmente l’abitazione, sorge spontanea la domanda: dove termina l’uno e dove inizia l’altro?

Il tempo produttivo, detto in termini classici, si esprime nell’orario, che è una caratteristica dell’organizzazione del lavoro e che in questa modalità del telelavoro non è chiara, come invece altre, come il fatto che la direzione dell’impresa ha obbiettivi, compiti e parametri di esecuzione che ha stabilito e prescrive.

Associato a questa frontiera sfumata, troviamo un aspetto chiave: la disponibilità del lavoratore e i parametri di disconnessione dal momento produttivo; a questo proposito conviene indicare che l’ubiquità, vale a dire la possibilità che i compiti si possano eseguire in qualsiasi luogo e l’iperconnettività, pongono il lavoratore o la lavoratrice in una condizione di vulnerabilità, poiché possono essere contattati dalla direzione dell’impresa in qualsiasi momento per essere messi al lavoro.

Carolina Martínez Elebi espone che “Secondo un rapporto di Randstad Workmonitor dell’ultimo trimestre 2019, il 49% degli Argentini affermava che il datore di lavoro chiedeva loro di restare disponibili durante le ferie e il 59% dichiarava di ricevere richieste di rispondere a consultazioni al di fuori dall’orario di lavoro” e aggiunge: “Ora, con i lavoratori nelle loro case, questa tendenza già presente in precedenza, ha subito una brusca accelerazione; i messaggi e i tempi di lavoro sono andati fuori controllo e irrompono in una cena in famiglia o nel pomeriggio della domenica, in pieno riposo e il lavoro e la vita famigliare divengono inseparabili”.

Su questo aspetto è imminente lo sviluppo di legislazioni e, secondo Martínez Elebi, solo la Francia, al momento, ha una legislazione che si occupa della questione; in Argentina si sta già iniziando a deliberare in Parlamento e, a questo proposito, un senatore afferma: “Si vede che, nella misura in cui le cose stanno mutando, il lavoratore e la lavoratrice hanno bisogno di protezione; per questo abbiamo bisogno di una regolazione. Nel progetto, affermiamo che il lavoratore ha diritto alla disconnessione digitale al di fuori della sua giornata di lavoro e durante le licenze, senza che questo comporti una sanzione e senza che sia premiato chi dovesse rinunciare a questo diritto”.

Affrontare questa questione è fondamentale, poiché in qualsiasi scenario dobbiamo assicurare il godimento del tempo libero o di riposo da parte del lavoratore o della lavoratrice e, al di là di questo, il godimento pieno della vita.

Infine, un aspetto che mi pare importante considerare e che può essere associato a quanto affrontato in questo punto, è l’intimità o la privacy del lavoratore o della lavoratrice. Sappiamo chiaramente che viviamo in un mondo nel quale queste due parole hanno uno scarso valore per le corporation che ci forniscono “servizi gratuiti”, ma ora che la vita lavorativa e quella personale si sviluppano preferibilmente in un solo luogo, come si comportano? E aggiungo complessità: quali sono le misure necessarie a controllare i mezzi forniti dal datore di lavoro per farci lavorare a casa? Come evitare che siano un cavallo di Troia?

La salute e la sicurezza nel “telelavoro”

È inevitabile interpellarci subito su questo aspetto. Il padrone, come controlla i processi pericolosi ai quali sono esposti lavoratori e lavoratrici nelle loro case? Già è complesso controllare i processi pericolosi in un luogo di lavoro che ha una realtà dinamica; quanto più complesso è identificare e controllare i processi pericolosi che sorgono dalla casa di ciascun lavoratore?

Nella realtà, invece di un luogo di lavoro dove operano cinquanta lavoratori o lavoratrici, si passerebbe a cinquanta abitazioni dove si lavora; quali meccanismi si implementano per assicurare ambienti sicuri e salubri?

Mi preoccupa, per esempio, come garantire le condizioni sicure e salubri quanto all’ergonomia dei mezzi che deve utilizzare il lavoratore o la lavoratrice, alle “postazioni di lavoro” e agli ambienti dove queste si collocano all’interno delle abitazioni. Mi torna di nuovo in mente la frase “esternalizzazione dei costi”. Oltre agli aspetti fisici, sono da considerare le realtà dell’ambito psicosociale e per questo ritengo pertinente aggiungere ciò che Gloria Poyatos Matas espone in una nota intitolata “Telelavoro e violenza di genere: il ‘nuovo’ rischio lavorativo portato dal COVID-19”, vale a dire la sua preoccupazione per ciò che può significare questa modalità per le lavoratrici, solo per il fatto di essere donne e trovarsi in una società organizzata con un’impostazione patriarcale.

Nel caso venezuelano, la Costituzione Nazionale stabilisce: “Ogni datore o datrice di lavoro garantirà ai suoi lavoratori o alle sue lavoratrici condizioni di sicurezza, igiene e ambiente di lavoro adeguati” (Articolo 87). Come si rende effettiva questa responsabilità? In una prospettiva globale è necessario interrogarsi: come si applicano gli obblighi relativi alla salute e alla sicurezza sul lavoro esposti nelle diverse legislazioni nazionali?

E in caso di incidenti o malattie causate ai lavoratori e alle lavoratrici per essere stati esposti a condizioni non sicure e insalubri, come determinare che effettivamente si è trattato di incidenti sul lavoro o malattie professionali?

Un terreno rispetto al quale non c’è tempo da perdere.

Organizzazioni sindacali, contrattazioni collettive e legislazioni chiare prima di proseguire con il “telelavoro”

Il telelavoro come scenario lavorativo comporta nuove esigenze per le organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, in particolare per i nostri sindacati; una di queste è operare in contesti di atomizzazione del lavoro, contrariamente a quelli di concentrazione della massa di lavoratori in uno stesso luogo, come è sempre stato. In Europa, i lavoratori e le lavoratrici legati alla gig economy hanno fatto progressi nell’organizzazione e nella mobilitazione, ottenendo così il riconoscimento della relazione lavorativa invece di quella commerciale promossa dalle imprese.

È necessario che le nostre organizzazioni sindacali esistenti riescano a legarsi con le organizzazioni che sorgono in queste realtà lavorative e anche che riconoscano il loro ruolo in questi nuovi spazi, per aumentare le iscrizioni e rappresentare efficacemente gli interessi degli affiliati; bisogna evitare di restare meri spettatori di un mondo del lavoro che cambia.

Un compito fondamentale per le nostre organizzazioni sindacali è promuovere le regolamentazioni necessarie ad affrontare i cambiamenti nelle relazioni di lavoro, in particolare di quelle riguardanti il telelavoro; queste regolamentazioni possono darsi sul piano dei contratti collettivi di un’impresa o di un settore in particolare, oppure sul piano delle legislazioni nazionali, come meccanismi effettivi che consentano di assicurare il rispetto dei diritti. Inoltre, bisogna promuovere le deliberazioni in seno agli organismi multilaterali specializzati, come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, per generare una legislazione di base che affronti questa realtà lavorativa. La sfida deve essere portata avanti con la partecipazione effettiva dei lavoratori e delle lavoratrici che vivono queste nuove realtà.

Chiudo ricordando Bauman e la sua posizione sull’erosione delle certezze portataci dalla modernità mentre la logica del capitale rimane intatta e si è persino affinata; per questo non possiamo cedere e neppure rinunciare alle conquiste sindacali storiche; sono altri tempi ma, come classe lavoratrice, la nostra lotta organizzata continua ad essere il nostro strumento fondamentale.

Di  Jesús A. Rondón
Da https://www.nuevatribuna.es/
Traduzione per Lavoro e Salute a cura di Gorri

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