Tra le ombre nere del centenario

Decenni di revisionismo storico hanno arato il terreno in cui ci troviamo oggi. Dal fascismo immaginario di Bruno Vespa alle narrazioni anti-antifasciste di Giampaolo Pansa, dalla mancata distinzione tra fascisti e antifascisti di Walter Veltroni e Luciano Violante fino a chi equipara le foibe all’Olocausto.

Trattare il passato come una pappa indifferenziata è stato il segreto del successo delle destre, di cui ora raccolgono i frutti Ignazio La Russa e Giorgia Meloni.

In questo centenario della Marcia su Roma, la battaglia culturale appare impari. Eppure qualcosa di non trascurabile si muove.

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In Abusi di memoria (Bruno Mondadori 2012), Valentina Pisanty dimostrava in maniera convincente come i dispositivi retorici che banalizzano, negano e sacralizzano la Shoah abbiano largamente interagito tra loro, con l’effetto di generare preoccupanti distorsioni nella memoria pubblica. La semiologa avrebbe raccolto i frutti di queste riflessioni nel più recente I guardiani della memoria (Bompiani 2020), il cui sottotitolo assai eloquente – e il ritorno delle destre xenofobe – dichiara fin dal paratesto l’eterogenesi dei fini che, secondo le tesi dell’autrice, avrebbe contraddistinto in particolare l’ultimo ventennio, inscritto nell’«era del testimone» e nel dilagare del calendario civile

I mostri cognitivi

Che c’entra questo con il fascismo e con il centenario che in questi giorni sovrasta ogni altro dibattito nell’industria culturale e non solo?

A mio modo di vedere suggerisce che queste interazioni, a qualunque «oggetto» si trovino a orbitare intorno, possono replicare ad libitum mostri cognitivi. E mi riferisco qui al perfetto combinato disposto di questi ultimi decenni in relazione alla memoria pubblica del fascismo storico: le sue crescenti mistificazioni, le sempre più imbarazzanti rimozioni e le rivendicazioni a spada tratta hanno contribuito infatti al clamoroso successo elettorale del partito che proviene da quella eredità.

E così, limitandoci alle questioni più macroscopiche, chi glorifica (presunte) bonifiche e opere previdenziali, chi tace o sminuisce la ferocia della violenza fascista e delle sue guerre praticamente senza soluzione di continuità tra il 1922 e il 1945 e chi rivendica un presunto granitico consenso e un’altrettanto presunta sfavillante modernizzazione giocano la stessa partita: più o meno consapevolmente favoriscono il montare di un clima «nostalgico», o quantomeno indulgente, ben oltre il «cerchio magico» della memoria nera e dei «ragazzi di Salò». Dal duce che non avrebbe «mai ammazzato nessuno» di berlusconiana memoria, si arriva così a spudorate e imbarazzanti prese di posizione più recenti. Ricordiamo che un paio d’anni fa Giorgia Meloni, incalzata sui temi del suo rapporto con il fascismo da un giornalista di El País, sbottò dicendo che in ogni caso fino al 1945 l’Italia era «tutta fascista» (sic; l’intervista la si trova sul suo sito personale), gettando alle ortiche tre quarti di secolo di dibattito storiografico. È il fascismo immaginario di Bruno Vespa che ha larga presa sull’opinione pubblica del nuovo millennio.

La mitologia del consenso

È difficile «valutare le opinioni sotto regimi che sopprimono l’espressione delle opinioni stesse», scrive lo storico Paul Corner nel recente Mussolini e il fascismo. Storia, memoria e amnesia (Viella 2022), sottolineando il fatto che bisogna indagare gli aspetti coercitivi del ventennio in parallelo al suo tentativo, in parte naturalmente riuscito, di costruzione del «consenso». A ridosso del centenario, tuttavia, come già era accaduto in altre fasi della storia repubblicana, si è ulteriormente calcata la mano su una mitologia del consenso, in maniera slegata dagli studi e avvinghiata al tempo presente. Come ho osservato nell’ultimo numero di Jacobin Italia questo è accaduto, infatti, mentre il dibattito sull’uso pubblico legittimo della storia si incancreniva sul prefisso eventuale – post-, neo-, filo-, para-, cripto-, ecc. –  da anteporre al lemma «fascismo» per riferirsi alla stretta attualità, prima alla Lega sovranista/nazionalista di Salvini, poi a Fratelli d’Italia di Meloni, partito indubitabilmente inscritto nella genealogia Rsi-Msi-An. 

È un’ovvietà, ma va ribadita: nell’avanzare del lungo centenario 2019-2022 era già evidente che entrambi i partiti, Lega e Fdi, intendevano capitalizzare il portato ingombrante di decenni di arrembante revisionismo storico, con un solido caposaldo, appunto, nel «consenso» intramontabile del fascismo. Alla destra italiana odierna conviene certamente che il fascismo sia visto come una «cosa buona». E il terreno è stato arato come si deve.  

L’anti-antifascismo

È una storia che viene da lontano: la critica mossa negli anni Ottanta alla cosiddetta «vulgata resistenziale» si è trasformata all’inizio dei Novanta in una pressione costante sulle istituzioni e sul senso comune perché venisse elaborata una nuova memoria collettiva anti-antifascista che non si discostava troppo, consapevolmente o meno, da un’integrale riabilitazione del fascismo. Oggi, a titolo di esempio, sono circa 600 i nomi di vie e monumenti, censiti dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che commemorano esplicitamente il ventennio e i suoi «vinti»: tra gli altri spiccano il bergamasco Antonio Locatelli, «una delle anime più pure ed intrepide del fascismo» secondo lo stesso Mussolini, e il criminale di guerra Rodolfo Graziani, cui è dedicato un mausoleo ad Affile e un parco giochi nella natale Filettino con una lugubre insegna che rievoca l’«Arbeit Macht Frei»nazionalsocialista. Le proteste cadono, di norma, nel vuoto.

Non dissimile è la situazione nella vicina capitale, al centro di vischiose polemiche sui molti segni di pietra che la tengono in ostaggio, senza alcun intento risemantizzante/risignificante all’orizzonte. Se la Germania ha «fatto i conti» tardivamente e parzialmente, per lo meno sul piano istituzionale, con il nazismo, resta pur vero che oggi Berlino è un museo a cielo aperto, la capitale della Germania riunificata è davvero diventata il «tessuto su cui [si è ricostruito] un confronto radicale e responsabile verso il passato», fulcro della nascita dell’odierna «cultura della memoria (Erinnerungskultur)» – come ha scritto Tommaso Speccher ne La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo (Laterza 2022) –, che interroga con serietà i dodici anni di nazionalsocialismo. Al contrario a chiunque passeggi per Roma – che, ricordiamolo, di recente (dal 2008 e 2013) ha avuto un sindaco neofascista, Gianni Alemanno, genero dell’ex segretario dell’Msi Pino Rauti – appare evidente che il fascismo, o almeno l’immagine monumentale che questo volle lasciare di sé, è ancora ben presente. La «città eterna» ha infatti oltre 140 odonimi che celebrano il colonialismo italiano, e quest’anno un importante hub della città viene ribattezzato «We GIL» (letteralmente: «Noi Gioventù italiana del littorio»); al suo interno campeggia un’enorme mappa dell’Africa Orientale Italiana sovrastata dalla scritta «Noi tireremo diritto», celebre motto mussoliniano che annunciava il proseguimento della feroce impresa coloniale. Queste due anomalie sono state rese pubbliche a giugno del 2022, all’attenzione del sindaco di Roma Capitale e del presidente della Regione Lazio; tre mesi dopo sembra che qualcosa si stia muovendo; per i giornali di destra si tratta del Pd che fa «la guerra» (sic) alle  «strade colonialiste» (rigorosamente tra virgolette), mentre la stampa presunta progressista latita. Ci sarebbe da riflettere sull’egemonia dell’estrema destra nel dettare temi e linee interpretative – anche – della battaglia per la memoria. 

La sfida storiografica e narrativa

In linea con la proposta interpretativa di Pisanty, allargando lo sguardo al ventennio e più in generale alle mitologie nazionaliste di lunga durata, l’energica reazione degli storici di questi anni, tolte sporadiche fiammate, non pare aver sortito effetti degni di nota: valgano su tutti i due esempi più fortunati sul piano editoriale: Italiani, brava gente? Un mito duro a morire di Angelo Del Boca (Neri Pozza 2005) circola da molti anni ma i miti inossidabili che confuta paiono scalfiti solo in superficie; stessa sorte per – ça va sans direMussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo(Bollati Boringhieri 2019) di Francesco Filippi, dal quale ora è stato tratto anche un documentario. In questa cornice culturale, che comprende anche la serie Laterza Fact Checking a cura mia, si inscrive anche l’ultimo lavoro di Corner (uscito nella collana  l’antidoto) a certificare il montante bisogno degli storici di intervenire nel discorso pubblico, rivendicando l’importanza della funzione di un sapere scientifico documentato. 

Solo una lettura sul medio periodo ci dirà se questo modo di intendere la sfida storiografica e narrativa si rivelerà vincente sulle «narrazioni tossiche» o se – come ipotizza convintamente Wu Ming 1 nel suo La Q di Qomplotto (Alegre 2021) – sia destinato ad avere un effetto solamente marginale e di fatto irrilevante. Secondo Wu Ming 1, infatti, «l’attacco frontale del debunker al suo avversario» fin dalle sue prime manifestazioni «produceva scintille, faceva spettacolo, ma anziché convincere generava rigetto e risentimento»: lo scrittore individua un bias cognitivo che definisce «ratiosuprematismo» (in estrema sintesi: eccessiva fiducia nella logica e nelle asserzioni fondate), il quale genera a suo avviso la «Sindrome del foratore di palloncini». La pars construens della sua critica prevede di «mostrare la sutura», vale a dire svelare i «trucchi» del mestiere in maniera il più possibile collettiva; senza calare dall’alto, in sostanza, il sapere storico – o scientifico – in un approccio esasperatamente filologico che rischia di generare solo chiusure e rigetti. È evidente che, come segnala la psicologia cognitiva, rendere «il più chiaro possibile» il processo correttivo può rendere il livello qualitativo del debunker efficace, mentre un approccio respingente rischia di generare la più classica delle eterogenesi dei fini da cui siamo partiti. Difficile dare una lettura che non sia impressionistica del livello quantitativo, nella morsa tra l’area grigia e quella nera il panorama non è consolante: le vette di centinaia di migliaia di lettori, pur raggiunte da Del Boca e Filippi, nella maggior parte dei casi sono una chimera. 

Tornando ai contenuti, le conclusioni a cui giunge Corner sono le medesime di quelle del saggio di Filippi, ed è una convergenza che può essere letta, con cautela, come un segnale confortante: se da un lato – ed è forse l’aspetto più sconcertante – è «la stessa autorappresentazione del fascismo che costituisce l’essenza del [suo] mito», dall’altro «un’illusione sul passato offre conforto nel presente e speranza per il futuro». Come lo storico scrive fin dalla sua introduzione è necessario tornare a un’immagine di Mussolini e del fascismo capaci di affrancarsi «dal mito auto-generato», di colmare questo «divario tra mito e realtà». Perché «fare storia» è innanzitutto una questione di metodo: significa ragionare costantemente sulle tracce che ci consentono di ricostruirla e di narrarla, sul «come» ce la raccontiamo e su chi ci legge; in estrema sintesi, sulla sua «utilità» in una democrazia fragile, in un tempo incerto, nel momento in cui questi cento anni paiono trascorsi invano. 

Viene da ipotizzare, però, una notevole discontinuità in questa straordinaria vague. Considerando infatti autori come Del Boca, Filippi e Franzinelli (ma anche David Bidussa, che fu precursore nel 1994 con Il mito del bravo italiano, e ora è in libreria con una sontuosa curatela di scritti e discorsi di Mussolini edita da Feltrinelli o, sempre all’interno della serie Fact Checking, Eric Gobetti o Chiara Colombini), va rilevato come questi saggi fossero in precedenza firmati quasi esclusivamente da non accademici. Il debunking storico in Italia, ormai pluridecennale, nella notevole impennata recente vede sul terreno una parte dell’accademia, come il libro di Corner sta a certificare e come già Filippo Focardi e altri (penso a Mauro Canali e a diversi volumi collettanei) avevano preconizzato. Lo stesso n. 16 di Jacobin Italia, dedicato al centenario del fascismo, rinsalda questa proficua alleanza in un approccio che mette in dialogo il fascismo immaginario con il fascismo storico, che per le nuove destre è un formidabile «archivio di pratiche discorsive e di politiche discriminanti e violente cui attingere alla bisogna» –, come si legge nell’editoriale di apertura –, con buona pace di chi lo ritiene «consegnato» alla storia, qualunque cosa questo voglia dire. 

Il revisionismo di Giorgia Meloni

«Non indietreggeremo, non getteremo la spugna, non tradiremo»: nel suo discorso fiume del 25 ottobre alla Camera, infatti, Meloni è ricorsa alla solita e scaltra perifrasi per «condannare» vagamente il fascismo (esplicitando solo la normativa antisemita) nel minestrone totalitario e, fatto assai rilevante, ha inaugurato l’offensiva istituzionale all’italiana – in scia a quella trumpiana – contro «l’antifascismo militante», nominato in questi termini: 

I totalitarismi del Novecento hanno dilaniato l’intera Europa, non solo l’Italia, per più di mezzo secolo, in una successione di orrori che ha investito gran parte degli Stati europei e l’orrore e i crimini, da chiunque vengano compiuti, non meritano giustificazioni di sorta e non si compensano con altri orrori e altri crimini; nell’abisso non si pareggiano mai i conti: si precipita e basta. Ho conosciuto giovanissima il profumo della libertà, l’ansia per la verità storica e il rigetto per qualsiasi forma di sopruso o discriminazione proprio militando nella destra democratica italiana, una comunità di uomini e donne che ha sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane, anche negli anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando, nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese. Quella lunga stagione di lutti ha perpetuato l’odio della guerra civile, allontanato una pacificazione nazionale che proprio la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica. 

Sic:  le uniche mani sporche di sangue del cuore del Novecento italiano, nel paese che ha inventato il fascismo, risultano essere quelle che impugnavano una chiave inglese. Mentre lei, autoincoronatasi erede di Giorgio Almirante e ora presidente del Consiglio, viene «da una storia politica che è stata spesso relegata ai margini nella storia repubblicana». Magari. 

Giunti ormai al termine di questo lungo e inquietante centenario, in quello che potrebbe venir ricordato dagli storici del futuro come l’apice del dilagare in Italia di un revisionismo di chiara matrice [prefisso-]fascista, la battaglia culturale appare ancora impari e desolante. Eppure, forse, qualcosa di non trascurabile si muove. 

Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). Tra le sue più recenti pubblicazioni, 25 aprile 1945 (Laterza 2018), La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria 2021). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.

27/10/2022 https://jacobinitalia.it

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