Tra salario minimo e contrattazione

Il sindacato è uno strumento e se si rivela insufficiente occorre avere il coraggio di ripensarlo, a partire dal rapporto tra salario minimo per legge e contratti nazionali di lavoro. Lo mostra ad esempio il caso del Ccnl della vigilanza privata

Sul tema del salario e più in generale della retribuzione, si discute in modo animato da anni e si accumulano proposte di  legge in Parlamento e sceneggiate mediatiche di vario tipo e a vario titolo. I punti di incontro/scontro tra le forze politiche e i corpi intermedi sono vari e mutevoli: si converge (a volte) su una proposta di salario minimo legale ma agganciato ai contratti collettivi nazionali, altre volte scompare la questione dei Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) e rimane il salario fissato per legge oppure, al  contrario, si punta a ridurre i Ccnl tramite una stretta sulla rappresentanza sindacale nella speranza (alquanto vana) di  produrre aumenti di paga considerevoli.

Naturalmente sono i settori più poveri a risentire della tragica situazione dei salari in generale e, più nello specifico, i settori merceologici dei servizi, pulizie, accoglienza, vigilanza, ristorazione e accoglienza rappresentano un vero e proprio girone infernale dove si lavora come matti soltanto per rimanere a galla. 

I sindacati confederali, sul tema del salario minimo hanno posizioni diverse. La Cgil, dopo anni di grande freddezza, ha  aperto un dibattito sul tema ma rimane tuttavia una diffidenza di fondo che ha due ragioni: una nobile, l’altra meno. La ragione più nobile, per così dire, la si potrebbe riassumere nell’affermazione «Il contratto non è soltanto la paga ma molto altro, focalizzarsi soltanto sul salario rischia di fare perdere altri diritti». La seconda argomentazione riguarda, in un certo senso, il ruolo stesso del sindacato confederale: «Ma se il salario lo fissa il Parlamento, a noi cosa rimane da contrattare di importante?». 

Rispetto ai due approcci è lecito avere opinioni diverse. Chi scrive ritiene che pensare a «diritti altri» rispetto al salario ha un senso se riesci a vivere dignitosamente: vivere con 7 euro l’ora assorbe tutti gli altri problemi, perché alzarsi ogni  giorno e prestare il proprio tempo e la propria vita per qualcosa che non ti permette neanche di andare a mangiare una pizza o fare una settimana di ferie è una lenta sofferenza quotidiana, una pena che ha i contorni della tortura. 

Il caso del Ccnl della vigilanza privata

Tuttavia, a guardare bene nella periferia di quel mondo chiamato «mercato del lavoro» si possono scorgere sprazzi di futuro. La questione riguarda il rinnovo del Ccnl della Vigilanza Privata e dei Servizi Fiduciari. I fatti in breve: 

Il Contratto in questione è scaduto da quasi 8 anni, ovvero da anni le lavoratrici e i lavoratori interessati (quasi 70 mila) non vedono aumentata la paga oraria. Il Contratto si divide in 2 parti: Le Gpg (7,14 euro l’ora con una anzianità media) ovvero le guardie armate, e gli operatori dei servizi fiduciari, ovvero chi fa portierato semplice senz’arma. Questo secondo gruppo è stato inserito nel contratto della Vigilanza Privata, nel 2008, per sanare una situazione caotica dove molti lavoratori di quel settore venivano contrattualizzati con forme precarie e paghe che potevano arrivare anche a 3 euro l’ora. Le parti (sindacali e datoriali) si erano impegnate però ad alzare progressivamente la paga oraria dei lavoratori dei servizi fiduciari che, come salario d’ingresso (livello F) guadagnano meno di 5 euro l’ora. Naturalmente non è avvenuto niente di quanto pattuito e sia la parte dei servizi fiduciari che quella delle Gpg (che a quel punto sono un unico contratto) è rimasta senza rinnovo fino a oggi.  

Ci sarebbero quindi da raccontare questi 8 anni di scioperi e lotte, e della vita di persone che lavorando 180-190 ore al mese guadagnando meno di 1.300 euro (Gpg) o addirittura 1.000 euro nel caso dei servizi fiduciari e di quante sentenze di diversi tribunali (Torino, Milano) hanno certificato che la parte salariale dei servizi fiduciari non rispetta l’art. 36 della  Costituzione: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»

Non serve un sindacato «istituzionale»

Verrebbe da chiedersi perché dovrebbe esistere una relazione tra il salario minimo e la vicenda legata a  un rinnovo contrattuale, di un settore certamente non centrale nel mercato del lavoro. E pure una relazione esiste. Nelle ultime settimane infatti, Filcams-Cgil e Fisascat-Cisl hanno avviato una class action contro le aziende del  settore, sulla parte salariale che riguarda i servizi fiduciari, dentro il Ccnl Vigilanza Privata sottoscritto proprio da  Filcams e Fisascat. In buona sostanza, le categorie sindacali firmatarie di un Ccnl chiedono a un giudice di dichiarare «illegale» una parte di quello stesso Ccnl. Più nello specifico si decide di disapplicare la parte sulle tabelle salariali. La questione è rilevante per diverse ragioni ma due di queste sovrastano le altre: 

– Intanto le organizzazioni sindacali non hanno ritenuto di procedere al ritiro della firma dal Ccnl in questione e si sono orientate per la strada giudiziaria. Politicamente è una decisione poco comprensibile, considerato che il ritiro della firma avrebbe un effetto immediato rispetto all’attesa di una sentenza. 

– Il secondo elemento è figlio di questa scelta. È infatti comprensibile che, il ritiro della firma, rappresenti un gesto  estremo, l’ultima spiaggia e allo stesso tempo una totale ammissione di debolezza rispetto alla contrattazione dei salari. 

In estrema sintesi, le organizzazioni sindacali, hanno deciso in modo razionale di ammettere una sostanziale  responsabilità nel mancato rinnovo contrattuale, ma non hanno accettato di trarne le conseguenze fino in fondo. La class action infatti si presenta come uno strumento di lotta molto de-responsabilizzante per le categorie sindacali che la promuovono, proprio perché chiama in causa i giudici a risolvere un problema creato, in parte, dalle organizzazioni  sindacali in questione. Per altro, a guardarla fino in fondo, appare chiaro che il punto essenziale riguarda la possibilità di  tornare indietro rispetto alla firma di un Ccnl se questo non produce aumenti contrattuali soddisfacenti. Per una categoria  come la Filcams-Cgil, firmataria di una ventina di Ccnl (che si rinnovano sempre con grande difficoltà e grande ritardo) affermare il principio del «ritiro della firma» potrebbe avere impatti devastanti su tutta la contrattazione, sui rapporti con le controparti e con gli altri sindacati firmatari dei contratti. 

Ma allargando la questione sul piano generale, il ritiro della firma da un Ccnl come strumento estremo per risolvere la  questione salariale interroga l’intero sindacato anche sul ruolo del salario minimo all’interno della contrattazione collettiva nazionale. Perché sarebbe anche l’ora di dire che esistono settori (quelli industriali/manifatturieri ad esempio) dove si produce valore aggiunto e dove, ragionevolmente, è possibile, tramite le lotte sindacali, redistribuire un pezzo di quel valore e di quella ricchezza tra i lavoratori e le lavoratrici. Esistono poi settori, detti labour intensive, dove non esiste valore da estrarre e dove la logica del massimo ribasso tipica degli appalti incide negativamente sulla capacità di contrattare salari migliori. In buona sostanza, la contrattazione per come la conosciamo produce risultati scarsi per i settori «ricchi» e risultati nulli o negativi per i settori «poveri».  

Occorre dunque rompere gli indugi e procedere speditamente con il ritiro della firma dal Ccnl Vigilanza Privata da parte della Filcams-Cgil perché la questione salariale la si fa esplodere, all’interno del dibattito pubblico, anche con gesti forti. Le obiezioni a un’azione di questo tipo sono varie e alcune anche valide, ma occorre dire con estrema franchezza che il sindacato inteso come soggetto «istituzionale», che svolge un ruolo a tratti burocratico e che sostanzialmente non sa ripensarsi in termini di mobilitazione e di lotta, rischia di non essere più utile a certe battaglie. Certo, ritirare la firma da un Ccnl creerebbe un precedente forte, un elemento dirompente all’interno degli standard classici della contrattazione, ma se serve va fatto. La contrattazione, i Ccnl, il confronto fra le parti e persino il sindacato stesso sono strumenti, e se gli strumenti sono insufficienti occorre avere il coraggio di ripensarli per ripensarsi. 

Comunque la si pensi, una discussione vera, anche dura, serve e serve adesso. Altrimenti rimarremo intrappolati nell’attualità senza mai mettere i piedi nella realtà.

Giuseppe Martelli funzionario politico, attivista e militante della Filcams-Cgil Firenze. Si occupa di appalti pubblici, vigilanza privata e musei pubblici e statali.

7/4/2023 https://jacobinitalia.it

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