TRANQUILLI, IL LAVORO UCCIDE COME AL SOLITO!

morti bianche

L’Osservatorio Vega Engineering di Mestre, con un lavoro molto apprezzabile, da anni diffonde mensilmente i dati sulle morti che avvengono nei luoghi di lavoro; l’Osservatorio indipendente di Bologna fa un lavoro encomiabile con il monitoraggio degli incidenti mortali sul lavoro, in tempo reale. Sono due esempi di rilevazione sulla strage quotidiana nei luoghi di lavoro, che dovrebbero far sobbalzare dalla sedia ogni volta che se ne leggono i dati. E invece, troppo spesso, si attende la fine dell’anno per stracciarsi le vesti perché c’è stato un X% di morti in più sul lavoro. Come se nel 2014 l’Italia potesse considerarsi un Paese che conosce la civiltà del lavoro perché ci sono stati “solo” 1107 lavoratori morti e non 1172, come nel 2015.

Sia chiaro: ogni volta che si registrano morti in più siamo di fronte ad una tragedia che si aggrava. Ma c’è da chiedersi: oltre 1.000 lavoratori ammazzati dal lavoro a causa di incidenti, sono accettabili? No, certo. E allora, di grazia, perché non ci si è allarmati per i 1.107 morti del 2014, per i 1.215 del 2013, per i 1.347 del 2012, per i 1.387 del 2011…? Perché negli ultimi anni i morti sul lavoro erano in calo ed ora sono tornati ad aumentare, si dirà. Ma ne siamo sicuri? A leggere i dati, non sembra ci fosse una tendenza alla riduzione di infortuni e morti sul lavoro così sostanziosa da far pensare che si fosse sulla strada giusta.

Ha senso considerare i numeri assoluti? Ovviamente, no. Dire che un chilo di pasta è una quantità eccessiva da mangiare, non ha senso senza dire in quanti pasti viene consumato o da quante persone. Lo stesso vale nel caso di infortuni e morti sul lavoro. Il rapporto minimo da considerare è quello tra numero di infortuni e incidenti mortali rispetto al numero dei lavoratori. Se consideriamo i dati INAIL, allora occorre rapportarli con il numero degli assicurati all’ente, che sono circa il 70% degli occupati rilevati dall’ISTAT. Un rapporto del genere mostra davvero un calo di infortuni in generale e di quelli mortali: dal 2011 al 2015, si è registrato un infortunio in meno ogni 100 lavoratori e un morto in meno ogni 100.000 lavoratori. Positivo, certo, ma tanto da restare praticamente indifferenti in questi anni di fronte a quei numeri? E questi dati ancora non raccontano la realtà in maniera esaustiva. Un dato più corretto è quello che mette in rapporto gli infortuni con le ore lavorate. Perché è chiaro che, a parità di pericolo al quale è soggetto, un lavoratore avrà tanta più probabilità di infortunarsi o ammalarsi quanto più tempo è esposto al rischio, cioè quante più ore di lavoro svolge.

L’Istat fa sapere che, mediamente, le ore settimanali effettivamente lavorate pro-capite sono state 37 nel 2011, e 36 dal 2012 al 2014. Con questi dati possiamo calcolare che ogni 10.000 ore lavorate si verificavano 14 infortuni nel 2011 e 12 nel 2014; allo stesso modo, ogni 10 milioni di ore lavorate, sono morti: 23 lavoratori nel 2011, 24 nel 2012, 22 nel 2013 e 20 nel 2014. Quest’ultimo dato è uguale a quello del 2015 (ipotizzando 36 ore lavorate pro-capite). Perché i 20 lavoratori morti nel 2015 allarmano più dei 20 del 2014? Dovrebbe destare allarme il fatto che sistematicamente la maggioranza delle denunce di infortunio mortale riguarda i lavoratori più anziani (la metà sia nel 2014 che nel 2015); e invece sistematicamente si alza l’età pensionabile. Dovrebbero impressionare le oltre 60.000 denunce di infortunio l’anno che riguardano lavoratori meno che quattordicenni, che qualche volta, poco più che bambini, muoiono sul lavoro (5 casi solo nel 2014), e invece il ministro Poletti parla di ridurre le vacanze, così che i “nostri giovani fanno un’esperienza formativa nel mondo del lavoro”.

E perché non ci si allarma per altre morti provocate dal lavoro, quali sono quelle che avvengono per malattia professionale? Eppure nel 2014 sono decedute quasi 1.000 persone per aver contratto una malattia a causa del lavoro. Ogni milione di ore lavorate, dal 2011 al 2014 l’INAIL ha riconosciuto la malattia professionale a 30 lavoratori, e di questi, due hanno contratto una malattia che li ha lentamente uccisi.

Eppure questi numeri, che nascondono la tragedia di vite spezzate da un lavoro insicuro, dovrebbero fare notizia, sempre. Perché raccontano di un modo di lavorare, spesso così rischioso da essere mortale. Sicuramente più rischioso di una “missione di pace”, visto che negli stessi anni (2011-2014) sono morti in quelle missioni 21 militari a fronte di oltre 5.000 lavoratori nelle fabbriche, nei cantieri, nelle strade. Tutti quei morti parlano di lavoratori esposti a rischi per la propria salute, la propria integrità fisica e la propria vita. Ed esposti ad un ricatto sempre maggiore, sempre più ossessivo, che impone sempre maggiori sacrifici che, ci dicono, sono necessari per far ripartire la crescita. Quella crescita misurata con Pil da zero-virgola, di cui Renzi ed il suo governo si rallegrano ma che è prodotto, evidentemente, molto spesso con lavoro di bassa qualità, scarsa specializzazione, che compete solo sul costo del lavoro che viene ridotto anche sottraendo le spese per garantire condizioni di lavoro sicuro.

La riforma Fornero del lavoro, quella sulle pensioni, il Jobs Act, la destrutturazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, gli accordi che sacrificano diritti sull’altare della produttività, sono presupposti esattamente opposti a ciò che sarebbe necessario per contrastare la strage quotidiana sui luoghi di lavoro. Gli appelli per ridurre infortuni e morti sul lavoro, come le chiacchiere, stanno a zero. Alla loro riduzione servono controlli ed processi più rapidi; ma soprattutto, il lavoro che uccide va contrastato con la riduzione delle forme di precarietà, ricatto, sfruttamento dei lavoratori e con un’estensione dei diritti e della democrazia nei luoghi di lavoro.

Carmine Tomeo

19/2/2016 www.lacittafutura.it

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