Tutto il marcio in fondo al tunnel

La festa e l’orgoglio, d’accordo: il tunnel del Monte Ceneri cambierà la mobilità in Ticino e contribuirà all’aumento del trasporto merci su rotaie. Oltre ai discorsi di circostanza e alle foto di rito, ci si sarebbe aspettati anche un po’ di autocritica. Già, perché quello che è successo in questi anni sotto il colle che da sempre divide il Cantone, ricorda molto quanto, nei secoli addietro, avveniva sopra: brigantaggio, taglieggiamenti e violenza.  

Quando il 20 di ottobre del 2009, Renzo Simoni, l’allora presidente di AlpTransit Gotthard Sa, firma il contratto per i lavori di costruzione del tunnel di base del Ceneri, sa esattamente chi si trova di fronte? All’epoca sulla reputazione della Società Condotte d’Acqua Spa – la società di Roma che ha guidato il consorzio aggiudicatosi le opere di scavo – girano voci poco raccomandabili: nel 2008, in piena gara d’appalto, il gruppo romano aveva perso il certificato antimafia italiano per una vicenda di subappalti sulla Salerno-Reggio Calabria. Un fatto che non sembra aver disturbato più di tanto la direzione di AlpTransit. D’altronde, l’offerta presentata da Condotte era troppo allettante: con il 7% in meno rispetto al principale consorzio concorrente, l’opera sarebbe costata 70 milioni di franchi in meno.


Vinto l’appalto, ci si mette al lavoro. E qui iniziano i problemi, quelli veri: incidenti, lacune nella sicurezza, turni infernali, soprusi, minacce e quei sospetti, mai del tutto levati, d’infiltrazioni criminali. Fatti più volte segnalati dai sindacati, ma che non hanno portato a reali miglioramenti. È in questo contesto che, il 21 settembre del 2010, ci scappa il morto.

Pietro Mirabelli, operaio d’origine calabrese, minatore figlio di minatore, lancista esperto assunto qualche mese prima, viene travolto da 400 chili di roccia staccatasi da un’altezza di 8 metri. La causa: l’impatto sulla parete del braccio della macchina di perforazione, il Jumbo, guidato da un operaio poco pratico. Un tragico destino quello di Pietro Mirabelli il quale si era sempre battuto a favore della sicurezza dei lavoratori e che, data la sua esperienza e il modo di fare schietto ma buono, si era guadagnato sul campo lo statuto di caposquadra.


La tragedia ha messo in luce le responsabilità di Condotte in termini di sicurezza. Ma non solo: quello che emerge è un clima di omertà e di paura. Quando la Procura arrivò sul posto qualcuno aveva già pulito la scena del crimine. L’inchiesta è così nata male e si è conclusa con un decreto d’abbandono, giustificato dal fatto che la Suva non avesse rilevato nulla di anomalo. Dopo una decisione del Tribunale del riesame, l’allora procuratore generale John Noseda ha riaperto l’incarto e rinviato a giudizio tre uomini. Nel 2017, due di loro sono condannati dalla Corte delle Assise correzionali di Lugano, la quale ha statuito che  «i lavori erano eseguiti in violazione delle più comuni norme di sicurezza». La Corte d’appello e il Tribunale federale hanno però ribaltato la decisione e gli imputati sono stati prosciolti.


Giustizia, insomma, non è stata fatta. Ma la sensazione che qualcosa sotto al Ceneri fosse marcio, quella, resta. Non a caso John Noseda ha dichiarato alla stampa che la mafia «ha messo le mani su AlpTransit». Il sospetto, mai provato, è quello che delle persone legate alla ’ndrangheta fossero assunte a Sigirino al fine di far tacere chi si opponeva alla “cultura d’impresa” imposta da Condotte. Quest’ultima, nel 2012, è stata implicata in un’operazione antimafia in Calabria che ha portato all’arresto di alcuni dirigenti locali, accusati di aver collaborato con aziende legate alle cosche. L’indagine era stata avviata a seguito del crollo di una galleria.

Ma i guai non finirono lì: nel 2018, il presidente di Condotte, Duccio Astaldi, è arrestato in Italia con l’accusa di corruzione. Di lì a poco la società finirà in amministrazione straordinaria e, nel 2019, uscirà dal consorzio attivo sul cantiere AlpTransit, mentre la sua controllata Cossi è passata nelle mani di un altro gruppo italiano, Salini Impregilo.


Chiuso il capitolo dello scavo, eccone un altro: quello della posa del materiale ferroviario. E chi pensava che il peggio sotto le montagne ticinesi fosse passato sarà rimasto deluso. L’appalto in questo caso è stato vinto da un consorzio di cui fa parte l’italiana Generale Costruzioni Ferroviarie (Gcf). Anche qui la concorrenza è stata sbaragliata con un’offerta (del 30%!) più vantaggiosa.

Questa delibera legata al minor prezzo ha poi generato tutti quegli abusi resi noti dall’emissione Falò e che oggi sono al vaglio del procuratore pubblico Andrea Gianini: turni infiniti, taglieggiamenti e violazioni delle norme di sicurezza. Senza dimenticare che, come nel caso di Condotte, anche per Gcf è planato il sospetto di legami con famiglie poco raccomandabili alle quali, in Italia e in Danimarca, sono stati attribuiti lavori di subappalto.

Le coraggiose testimonianze dei lavoratori, appoggiati da Unia, hanno portato all’apertura di un’inchiesta penale. Questa, però, sembra procedere con il consueto passo di lumaca. Una lentezza che potrebbe impedire che giustizia, questa volta, sia fatta.

«Quello che ho visto lì sotto mi ha fatto schifo»

«Sono contento di avere lavorato in questo tunnel: ho conosciuto dei buoni colleghi con i quali eravamo molto uniti. Ma quello che ho visto sotto questa montagna mi ha fatto schifo. Ho imparato cosa significa lavorare in un cantiere di questo tipo, dove vigeva un’omertà mafiosa e dove le più basilari norme di sicurezza sono state calpestate regolarmente». Pascal Annen non usa giri di parole: a suo dire il cantiere di AlpTransit del Monte Ceneri è stato una vergogna.


Dopo avere lavorato tra il 2002 e il 2007 sul cantiere AlpTransit di Faido, questo esperto elettricista cresciuto nel Canton Vaud viene assunto da Condotte, la società italiana che ha guidato il consorzio aggiudicatosi l’appalto per lo scavo del tunnel del Monte Ceneri. L’uomo, il solo svizzero attivo sul cantiere, è esperto di impianti elettrici sotterranei.

Subito si accorge della differenza di approccio, in termini di sicurezza, rispetto a quanto avveniva in Leventina: «A Faido, sin dal primo giorno, tutti gli operai dovevano seguire delle formazioni sulle norme di sicurezza. A Sigirino, dopo il primo morto, ci hanno fatto firmare un foglietto dove si attestava che abbiamo seguito una formazione, ma in realtà non si era fatto niente».


L’uomo sul cantiere è una sorta di referenza per tutto quello che riguarda la sicurezza in ambito elettrico: «Ne ho viste di tutti i colori, a partire ai profili delle persone che erano assunte per svolgere mansioni molto precise e difficili. Molti operai non avevano le qualifiche necessarie e, in Italia, svolgevano altre professioni. Inoltre, senza entrare nei dettagli tecnici, l’insicurezza in ambito elettrico delle installazioni in galleria era allucinante, tanto che si sono verificati alcuni incidenti, per fortuna non gravi (scosse e ustioni di secondo grado)».


Pascal Annen ha così segnalato questa situazione al sindacato Unia che, col suo consenso, ha girato la sua email all’Ispettorato federale degli impianti a corrente forte. Quest’ultimo ha trasmesso la segnalazione all’Ufficio federale dei trasporti. Ma la procedura, invece che migliorare le cose le ha soltanto peggiorate: «Il capocantiere mi ha sventolato sotto il naso la mia segnalazione, dicendomi che se il posto di lavoro non mi piaceva potevo andarmene. Poco dopo sono stato licenziato col pretesto di due assenze ingiustificate, che invece erano state preannunciate».

È così che Pascal Annen, ha dovuto lasciare il cantiere, lavorando per il quale si è anche ammalato gravemente ai polmoni. Il giorno dell’inaugurazione, l’ormai ex operaio era a Camorino a manifestare per chiedere giustizia e ricordare un proprio collega morto durante lo scavo, Pietro Mirabelli: «Mi ricordo molto bene di Pietro, era un amico con il quale chiacchieravo spesso in mensa. Era un collega con cui andavo molto d’accordo e che è morto, ucciso da un masso staccatosi dal fronte dello scavo a Sigirino il 22 settembre 2010. Per tutti noi la morte di Pietro è stata uno shock».

Una morte dovuta all’insicurezza che regnava sul cantiere: «Come ogni incidente si è trattato di una somma di circostanze e di una mancanza di professionalità, che hanno generato la morte di un amico, di un padre di famiglia. Questo dramma è stato gestito dalle autorità giudiziarie e di polizia in maniera molto leggera, oserei dire negligente. Tanto che a finire sul banco degli imputati non sono stati i veri responsabili, ossia la società Condotte che non ha fornito le condizioni necessarie per svolgere i lavori in sicurezza e che imponeva agli operai dei turni di lavoro infernali e che non permettevano un riposo sufficiente».


Oltre a Pietro Mirabelli, sui cantieri di Sigirino è morto anche un altro operaio, Giacomo Bettegacci: colpito da un macchinario a Sigirino il 12 ottobre del 2015. Per l’ex elettricista, vi sono delle responsabilità chiare:  «Questi fatti non sono frutti del caso, ma delle lacune colpevoli di AlpTransit e dell’amministrazione federale che non ha adempiuto al ruolo di tutela e ha reso possibile la perpetuazione delle infrazioni con un’impunità sconsolante. Il tutto in un contesto in cui, da quanto ho potuto vedere e sentire, sul cantiere vigeva quell’omertà che ricorda tanto la criminalità organizzata. Non è un caso se, in Italia, a Condotte era stato tolto il certificato antimafia. Ma la giustizia elvetica ha preferito non indagare sulle possibili infiltrazioni criminali: il cantiere non poteva subire ritardi e doveva finire in tempo. Quello che è successo dopo, con la posa del materiale ferroviario, non ha fatto che dimostrare queste mie convinzioni» conclude amareggiato Pascal Annen.  

Federico Franchini

10/9/2020 https://www.areaonline.ch/

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *