Un anno di Covid e il dramma della solitudine

di Alba Vastano

Un anno. Ci portiamo sulle spalle l’esperienza di qualcosa di imprevisto e di terribile che ha sconvolto le nostre vite e ci costringe a vivere la nostra esistenza come mai avremmo pensato. Un anno di pandemia. Un anno di rivoluzione dei nostri passi quotidiani, delle nostre relazioni, delle nostre abitudini. E già ci troviamo a dire a un amico, a un parente: “Ti ricordi quando…”. Quando si usciva al mattino e si tornava stanchi la sera. Quando lo smart working era roba per pochi eletti e la Dad era una modalità di didattica sconosciuta. Quando ci si trovava in classe con i nostri studenti e un raffreddore o un colpo di tosse passavano inosservati. Quando eravamo in 20 al ristorante seduti allo stesso tavolo, gomito a gomito e le risate le vedevamo, non le sentivamo solo. Quando non facevamo la fila per entrare in un negozio e ci si trovava in tanti al banco dei surgelati, senza che qualcuno ci invitasse bruscamente a mantenere le distanze. Quando non ci prendevano la temperatura ad ogni angolo, in ogni esercizio pubblico. Quando nessuno ci diceva “Metta la mascherina”. Quando non ci fermavano per controlli le forze dell’ordine, anche se non avevamo un cane al guinzaglio. E quando riempivamo casa di amici per una festa di compleanno.

Oppure quando sbuffanti eravamo accalcati sul bus, ma nessuno pensava che il vicino era un possibile untore da guardare con diffidenza. Quando si programmavano viaggi per le vacanze, senza pensare che lì no perché rosso, lì ni perché arancione, là sì perché è giallo, ma con cautela. Non c’era stop alcuno agli spostamenti e noi andavamo per il mondo certi che nessuno avrebbe mai fermato il nostro andare. Perché nella storia precedente alla pandemia era normalità che l’umanità scorresse velocissima sul pianeta in megaflussi inarrestabili. E poi… Te lo ricordi quando confidavamo a qualcuno ‘Oggi mi sento solo’. Ecco, oggi quel ‘mi sento solo’ si è enormemente dilatato di senso, pur non trovandone il senso. Non è un ossimoro, è la solitudine globo- pandemica che non abbiamo mai vissuto prima. Questa sconosciuta. Un nuovo status emozionale che stiamo vivendo tutti. La solitudine pandemica ci coinvolge, lasciandoci prostrati e incapaci di uscirne per un senso di impotenza e di frustrazione profonde. Perché se si vuole uscire dallo stato di solitudine fisica e incontrare un amico, bisogna corazzarsi come astronauti, evitare gli abbracci , perché il virus non si vede, ma c’è .

Al massimo ci si può guardare da 1 metro di distanza e parlare di qualsiasi cosa, soprattutto del virus e di quanto siamo tutti stanchi. Che poi è una conversazione mica tanto naturale e fluida. Perché capita, per abitudine alla solitudine o per l’eccessivo utilizzo della rete che ci si dimentichi di come si parla ad un amico. Allora capita di rinunciare a coltivare le relazioni abituali e di passare ancora più tempo nella rete a seguire webinar e a spulciare tutti i social possibili, commentando qualche post a caso, rifilando su whatsapp le vignette di Osho ai contatti e illudendoci che questa sia la normalità. E siamo ancora nella solitudine gestibile, senza drammi. Al massimo ci si chiude in casa e chi s’è visto s’è visto. Il dramma della solitudine, quello reale e devastante, avviene quando si vive negli ospedali a seguito di un ricovero. In fase pandemica un ricovero in ospedale è un fendente sul cuore del malato e della sua famiglia. Da inizio pandemia le cronache ci raccontano il dramma che hanno vissuto i malati Covid, ricoverati in ospedale, e le loro famiglie. Il malato con saturazione sotto 94 che scende a livelli minimi, a rischio sopravvivenza, vive il vero dramma. Non solo fisico nel pericolo di vedersi sfuggire la vita. Il dramma parallelo è la solitudine più devastante per un taglio netto all’affettività, alle persone più care della propria vita. E lì la solitudine è uno stato disumano di morte emotiva e di disperazione delle famiglie, appese al conforto della telefonata con il proprio caro, tramite l’infermiere benevolo di turno o del medico che non usa solo lo stetoscopio o il saturimetro, ma il cuore.

Riguardo la solitudine dei malati di Covid e il taglio alle comunicazioni con le loro famiglie, è interessante menzionare l’appello di un medico di Verbania (Piemonte). Ѐ il dottor Giorgio Tigano,  medico Responsabile Reparto CAVS Eremo di Miazzina. Il dottor Tigano ha lanciato un appello importante a tutto il mondo della Sanità e, in particolare , al Presidente dell’Ordine dei medici del Vco, al Tribunale dei Diritti del Malato del Vco, allaDirezione della Asl Vco,al Presidente della Conferenza Sindaci Asl Vco,al Sindaco di Verbania. Nella lettera aperta chiede che venga approvato “un codice etico per regolamentare i rapporti tra pazienti e familiari. Non si può lasciare questo compito importante e delicato alla buona volontà degli operatori”. Occorre un provvedimento d’urgenza che sollevi il personale sanitario, anche il più disponibile e generoso, e crei, rendendola immediatamente operativa, una figura professionale addetta alla comunicazione fra il malato ricoverato e la famiglia. “Come noto le norme di prevenzione prevedono all’atto di un ricovero l’isolamento del paziente all’interno dei reparti e il divieto di visita da parte dei familiari– si legge in uno stralcio dell’appello del dottor Tigano- Se queste norme sono comprensibilmente necessarie e vanno rispettate, non è peraltro eticamente accettabile una forma di emarginazione dei malati rispetto alla famiglia che spesso li fa  precipitare in una forma di prostrazione, senso di abbandono e depressione. Altrettanto penosa la sofferenza dei familiari che vivono con ansia, e spesso consenso di colpa, il distacco obbligato dai propri cari ed una incostante informazione sul loro stato di salute.Senza dimenticare  che questa sofferenza diviene poi insopportabile nei casi più gravi quando la malattia ha il sopravvento e può condurre alla morte”.

Appello del medico Giorgio Tigano: “Serve fare … – La Stampa www.lastampa.it › 2021/01/18 › news › appello-del-medi…

L’aspetto più cinico e insopportabile della solitudine da Covid si mostra in tutta la sua perfidia con il fine vita del malato. Impossibile dimenticare le immagini sui media da Bergamo dei carri che trasportavano le salme. Neanche allora alle famiglie è stata concessa la presenza per l’estremo saluto. Intollerabile e atroce aspetto di questo maledetto virus che si è abbattuto sul mondo e non vuole ancora mollare la presa, cercando implacabilmente i nostri respiri.

A latere di questo vero incomparabile dramma c’è la solitudine di tante persone che si sentono abbandonate dalle istituzioni, perché hanno perso il lavoro che già era precario a causa delle inique leggi che hanno smantellato lo Stato sociale, come il Jobs Act, cianuro del governo Renzi. La pandemia ha sbriciolato quel minimo di diritti dei lavoratori e la politica attuale, prona al neoliberismo predatorio, è incapace di intervenire per sostenere tempestivamente i bisogni d’emergenza di tante famiglie. Una solitudine anche questa drammatica che sta mietendo vittime e sta scatenando un’ulteriore rabbia sociale che non si può manifestare nelle piazze a causa dell’obbligo del distanziamento sociale.

E c’è la solitudine degli insegnanti costretti a ore di lavoro infinite in Dad, cercando di capire come poter assicurare ai loro studenti il meglio dell’istruzione. Cercando di smantellare ciò che aveva previsto Isaac Asimov negli anni 50 riguardo la scuola del futuro, senza fisicità, senza libri, senza presenze. Solo un tutor virtuale, scriveva Asimov, che impartiva loro pillole di istruzione digitale. Insegnanti che si sentono sole nell’esercizio della loro professione. Dagli altri scranni del potere dell’istruzione arrivano assicurazioni di aperture in sicurezza. Ma non è così, finora solo ridicoli banchetti delle giostre. Ad oggi molti insegnanti lavorano in modalità ubiquità, sia in Dad che in presenza, rischiando ogni giorno di restare contagiati, in quanto non sono garantite le protezioni , perché naturalmente in una scuola ove circolano molte persone il distanziamento è impossibile e il ricambio d’aria nei mesi più freddi è limitato. Un lavoro a rischio e usurante con ore senza sosta dietro un monitor a cercare di salvare quello che è rimasto della vera scuola in presenza. Spesso lasciati dalle istituzioni a cavarsela da soli per salvare il salvabile e nel dubbio quotidiano su come gestire le lezioni il giorno dopo.

La solitudine in cui siamo sprofondati da inizio pandemia è un virus anch’esso, che mina fortemente la dimensione psicofisica della società. Non a caso gli psicologi non hanno mai smesso, da inizio pandemia, di lavorare sodo. Ѐ una nuova forma di solitudine, a cui non eravamo avvezzi, che apre una nuova pagina di antropologia nella storia dell’umanità. Un virus parallelo che non salva nessuno. Colpisce i giovani, nativi digitali, che si sono visti sfilare sotto gli occhi e nelle loro vite le uniche possibilità di intermediazione che avevano a disposizione. Sparita la scuola in presenza, spariti i cinema, i teatri, le palestre, gli amici in piazza, i luoghi di cultura e le sezioni dove potersi formare politicamente. Non resta loro che il solito triste tuffo solitario nella rete, a cui peraltro erano avvezzi, misero concentrato di una vita reale che non c’è più.

E c’è la sofferenza degli artisti, messi all’angolo in una solitudine tragica per loro, perché il pubblico è la vita, l’ossigeno della professione. L’ispiratore della loro arte. E il pubblico è sparito. E la silenziosa solitudine di tutto il personale sanitario, tornato, a buon motivo, in pole position nell’elenco degli eroi del momento. Medici e infermieri soffocati h24 dalla vestizione necessaria ad evitare il pericolo di contagio, che rischiano ogni minuto la loro vita. Affranti quando un malato se ne va e per l’immane fatica psicofisica a cui sono sottoposti. Spesso lasciati a cavarsela da soli e a prendere decisioni d’emergenza, senza strumenti adeguati, se non il fai da te. E poi c’è la solitudine individuale, quella degli anziani nelle Rsa o soli in casa. E quella dei single, che non sanno che farsene della libertà di gestire tempi e spazi e stufi dei pasti d’asporto, costretti a girarsi i pollici sul divano di casa.

La pandemia, come tutte le pandemie che hanno attraversato la storia, finirà. Quando, non è dato di saperlo. Come torneremo alla normalità delle nostre frenetiche vite in anno domini 2019? Quali segni indelebili nella nostra vita personale ci avrà lasciato questo profondo senso di solitudine? La domanda nasce spontanea: come tornare normali? Forse sarà meglio iniziare ad allenarci da domani. Come? Iniziando a dare un senso agli eventi, a riempire di senso i motivi per cui siamo in cattività. Una cattività temporanea in cui nessuno ci ha relegato per il piacere di farlo. Forse dovremmo iniziare a dare affidamento alla scienza, che se pur mai esatta è sempre più affidabile di tutte le fake news che rischiamo di berci dai mainstream e dai social. Forse dobbiamo pazientare di più e capire che questo, al momento, ci è dato di vivere. E questa solitudine che viviamo nelle nostre case è un pranzo di gala, rispetto a chi è ricoverato in t.i., in apnea. Se collaboriamo con lucidità diventiamo protagonisti e responsabili della situazione e usciamo dallo stato di vittimismo e di solitudine…forse.

Dal regista Ferzan Ozpetek una saggia pillola per uscire dallo stato di solitudine e sconforto in cui siamo piombati: “Impariamo a capire che questa è una lotta contro le nostre abitudini e non contro un virus. Questa è un’occasione per trasformare un’emergenza in una gara di solidarietà. Cambiamo il modo di vedere e di pensare. Non sono più “io ho paura del contagio” oppure “io me ne frego del contagio”, ma sono io che preservo l’altro. Io mi preoccupo per te. Io mi tengo a distanza per te. Io mi lavo le mani per te. Io rinuncio a quel viaggio per te. Io non vado al concerto per te. Io non vado al centro commerciale per te. Per te. Per te che sei dentro una sala di terapia intensiva. Per te che sei anziano e fragile, ma la cui vita ha valore tanto quanto la mia. Per te che stai lottando con un cancro e non puoi lottare anche con questo. Vi prego, alziamo lo sguardo. Io spero che la solidarietà non si fermi. Tutto il resto non ha importanza”. Certo che ne usciremo e torneremo a riprenderci in mano le nostre vite, non più soli, se già da oggi riusciamo guardare oltre noi.

Alba Vastano

Alba Vastano - Giornalista - Ordine Nazionale Dei Giornalisti | LinkedIn

Giornalista. Collaboratrice redazione del mensile Lavoro e Salute

31/1/2021

Foto: Medcam / Heidinews

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