Una nuova umanità contro il capitalismo

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Carlo Giuliani, ragazzo. Così una mano ha scritto sulla targa di piazza Alimonda a Genova. A taluni l’indicazione è parsa generica, poco qualificante: si poteva scrivere compagno, per segnare la sua appartenenza. Invece no, ragazzo. Questa definizione non esclude l’essere compagno, anzi. Carlo – assassinato nella sua città per essersi ribellato alla globalizzazione neoliberista, al G8, alla repressione – ci viene consegnato nella sua piena umanità, nella sua appartenenza al genere umano che lotta per la liberazione proprio da quella definizione che ci parla del movimento altermondialista in quanto tale: “Voi G8 e noi 6.000.000.000”. L’umanità che lotta contro la globalizzazione neoliberista e i suoi rappresentanti, per realizzare l’altro mondo possibile e necessario: questa è la vera cifra del movimento di Genova. L’internazionale “futura umanità” diceva Pottier. L’internazionale, “un’altra umanità” ha riscritto Fortini. L’umanità qui ed ora, ha detto il movimento di Genova. Un movimento che ha posto i popoli della terra come punto fondativo dell’anticapitalismo, della rivoluzione.
Un movimento che ha denunciato il carattere distruttivo del capitalismo su scala mondiale e la contraddizione di fondo, non risolvibile, tra la logica del profitto e gli umani. Il movimento di Genova – di Porto Alegre, di Seattle, di Cochabamba, di Firenze, dei Social Forum – ha attualizzato la possibilità della rivoluzione riproponendola – come sempre nei periodi rivoluzionari – non come rivendicazione di parte ma come necessità generale di tutte e tutti. Questo significa “voi G8 e noi 6 miliardi”. Questo significa “ragazzo”.

La forza del movimento e il ruolo di Rifondazione

Questo movimento globale ha avuto il suo tratto costitutivo nella lotta al liberismo. Il punto di coagulo è stata la lotta a un capitalismo disumano, patriarcale e devastatore delle comunità e dell’ambiente. A partire da questo elemento unificante si determinò un punto di convergenza tra diversi: dai comunisti agli anarchici, dagli ambientalisti alle femministe, dal sindacato di classe ai cattolici, dai contadini agli studenti. Di quella convergenza, di quella coalizione, Rifondazione Comunista seppe essere protagonista scrivendo la più bella pagina della nostra storia di partito.
Lo facemmo partecipando alla mobilitazione di Seattle quando ancora il movimento “no global” non era conosciuto e incontrammo i portuali comunisti della West Coast come i Community Organizer di Chicago. Lo facemmo partecipando come delegati e non come invitati alla Conferenza di Puerto Alegre. Lo facemmo, da pari a pari nella costruzione del Genoa Social Forum e decidendo, con gli altri, che dopo l’assassinio di Carlo Giuliani bisognava rispondere con la lotta e quindi che la manifestazione del giorno dopo andava confermata. Partecipammo al movimento senza fare le mosche cocchiere e contrastando chi, dentro e fuori il partito, contrapponeva la partecipazione al movimento dei movimenti alla lotta operaia. Sapevamo che la lotta anticapitalista quando è dispiegata ed egemone va sempre oltre alla lotta di classe in senso stretto e produce l’incontro tra soggetti diversi: a Genova nel 2001 come in Russia nel ‘17 o in tutto il mondo nel ‘69. Praticammo una diversa idea di politica superando la concezione liberale che confina la politica nelle istituzioni e cancellammo il confine tra rappresentanza e conflitto sociale. Socializzammo la politica e politicizzammo il sociale convinti che un processo di trasformazione è in primo luogo un processo di costruzione e autocostruzione del soggetto della trasformazione. Un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente diceva Marx. Quel movimento fu una grandiosa coalizione tra antiliberisti rispettosi delle differenze. Nella coalizione si valorizzarono i tratti in comune senza appiattire le differenze: dalle suore ai centri sociali, dai comitati ai partiti come rifondazione.

Quattro parole parlano della forza e dell’intelligenza di quella coalizione antiliberista, di quella grande domanda di cambiamento che ancora necessita di una risposta.
Una coalizione fondata sulla democrazia, per la precisione sulla pratica del consenso, sulla democrazia partecipata tra coloro che si riconoscono nell’opposizione al mercato, alla concorrenza, alla guerra. La democrazia come prassi costituente.
La politica come conoscenza: alla politica come arte di governo o di mediazione è stata contrapposta l’appropriazione collettiva del sapere per decostruire le narrazioni dominanti e produrre una nuova narrazione: un altro mondo è possibile.
La messa in discussione dello sviluppo come valore e come destino. Gli zapatisti hanno insegnato al movimento a livello mondiale che l’alternativa non riguarda solo la quantità di merci o i soldi ma riguarda la qualità della vita in generale. Non necessariamente bisogna estrarre il petrolio: il petrolio può anche essere lasciato sotto terra e non essere bruciato.
Il movimento è stato globale ed ha messo radicalmente in discussione l’Eurocentrismo. Un movimento mondiale non solo in senso geografico, ma politico e culturale: ha cambiato il punto di vista, altrimenti “naturalmente” bianco, maschio e occidentale.

La crisi del movimento

La repressione – dall’assassinio di Carlo Giuliani all’assalto ai cortei alla macelleria messicana della Diaz – non ha sconfitto il movimento. Il movimento non si è diviso ed ha dato luogo a una magnifica risposta di massa, di allargamento dei propri confini. Pensiamo – per guardare all’Italia – all’esplosione dei Social Forum dopo le giornate di Genova fino al Social Forum europeo di Firenze e alle gigantesche manifestazioni contro la guerra del golfo. La risposta alla violenza delle istituzioni è stata radicalmente pacifica, ed è stata vincente.
Col passare degli anni, il movimento ha avuto però esiti assai variegati nelle diverse aree del mondo. In linea di massima si può dire che il movimento ha vinto in America latina e ha perso in Europa.

Per non fare discorsi troppo generici mi riferisco all’Italia. Mi pare che il problema fondamentale è stata la nostra incapacità di costruire uno sbocco politico coerente con gli elementi costitutivi del movimento stesso e della sua forza.

Sul piano istituzionale, lo sbocco proposto da Rifondazione – ed in larghissima parte accolto positivamente – fu quello di costruire il programma comune con il centro sinistra in vista di una alleanza di governo. Questo elemento determinò un cambio del baricentro dal protagonismo sociale alla contrattazione in Parlamento. Pensavamo che si potesse determinare un circolo virtuoso, e invece si determinò un riflusso del movimento e una limitata capacità contrattuale sul piano politico. Si può discutere a lungo dei singoli errori tattici, ma a me pare che il problema stesse nel manico, e cioè nell’aver pensato di poter far vivere l’alternativa dentro l’alternanza. È stato un errore drammatico e a vincere è stato il bipolarismo e il liberismo.

Parallelamente si deteriorò progressivamente il rapporto tra organizzazioni sociali, culturali e politiche. Dopo una prima fase positiva e fluida, l’incapacità ad trovare una forma stabile e condivisa alle coalizioni, anche innovando decisamente le forme dell’agire politico, ci riportò alla classica divisione di compiti tra soggetti diversi. Il regresso che ne seguì lo possiamo misurare fino in fondo nel settarismo dilagante – ai limiti dell’autismo – che caratterizza la situazione odierna sul piano sociale, culturale e politico. La novità del movimento non riuscì a dar vita a nuove forme stabili attraverso cui esprimersi.

I successi in America Latina

Non credo sia un caso che proprio sul terreno della socializzazione della politica e della politicizzazione del sociale, ha fatto significativi passi in avanti l’esperienza latino americana.

Pensiamo alla Bolivia, dove proprio all’inizio del millennio, a partire dalle grandi lotte sull’acqua pubblica, si venne formando il Movimiento al Socialismo – Instrumento Politico por la Soberania de los Pueblos, guidato da Evo Morales. Il MAS – IPSP prese forma a partire dalle associazioni sociali che nei fatti dettero vita all’organizzazione politica – definita non a caso strumento politico – mantenendo però una propria autonomia conflittuale. Assistiamo qui all’invenzione di nuove forme di costruzione politica che vanno oltre le forme classiche di costruzione dei partiti rivoluzionari del ‘900.

Questa prima innovazione si salda all’intuizione della necessità di costruire una alternativa politica complessiva ai poli politici preesistenti: contro i liberisti di centro, destra e sinistra, le esperienze del “cambio” latinoamericano hanno visto la costruzione di schieramenti popolari, che scardinavano la vecchia dialettica tra destra e sinistra largamente interne alle élite dominanti. Questi processi hanno legami politici e morali con la storia della sinistra guerrigliera, ma nello stesso tempo vedono una radicale svolta strategica nel rapporto con il popolo. In Europa l’innovazione è stata usata per piegare la sinistra al liberismo; in America latina per allargare le basi popolari dell’antiliberismo e della sinistra.
Uno dei tratti fondamentali di questa esperienza è stata l’assunzione strategica della soggettività delle popolazioni indigene e del tema della comunità. I movimenti latinoamericani sono stati in grado di portare dentro la politica – all’attività, al protagonismo politico e al potere – le fasce sociali più escluse e deprivate. Come il movimento socialista in Europa, all’inizio del ‘900, anche il movimento altermondialista latinoamericano ha dato vita a organizzazioni politiche radicali e innovative nel loro carattere di massa, e ha prodotto una irruzione degli strati popolari dentro la politica.
Il movimento è diventato così un processo costituente che è riuscito in molte situazioni ad aggregare un blocco sociale maggioritario ed alternativo alle oligarchie liberiste. La costruzione politica dell’alternativa al liberismo è stata quindi anche un processo costituente di nuove forme di partecipazione politica delle classi subalterne. Non dobbiamo dimenticarci questa caratteristica fondamentale che ha segnato la differenza tra la situazione latinoamericana e quella europea.

In quale situazione siamo oggi?

Nel 2001 il G8 cantava i fasti della globalizzazione neoliberista di cui oggi paghiamo i danni. Le stesse élite che hanno guidato il processo, come tanti apprendisti stregoni, lo mettono in discussione. Vediamo meglio.
Innanzitutto oggi la situazione è radicalmente peggiorata rispetto all’inizio del millennio. La sconfitta del movimento e la vittoria del neoliberismo hanno prodotto un disastro per l’umanità: dal piano ambientale a quello sociale fino al concreto rischio della terza guerra mondiale. L’aumento della ricchezza globale è andato di pari passo all’aumento delle diseguaglianze, dello sfruttamento del lavoro come dello sfruttamento della natura. Dopo la seconda guerra mondiale è diventata pensabile la fine dell’umanità a causa di una guerra nucleare. Dopo il neoliberismo è probabile la fine dell’umanità come frutto del “normale sviluppo economico”.. Il Covid non è stato un incidente di percorso ma rappresenta l’autobiografia del liberismo e del suo carattere distruttivo.
In secondo luogo lo sviluppo economico su scala mondiale ha aperto enormi contraddizioni nelle classi dominanti: La distruzione della natura e il consumo bulimico di materie prime determina una condizione di scarsità delle risorse naturali. Chi avrà diritto ad avere l’acqua potabile, le terre coltivabili, le terre rare per gli apparati elettronici? Questo dilemma si intreccia col fatto che lo sviluppo economico su larga scala mette in discussione la posizione di rendita di cui godono gli Stati Uniti a livello mondiale – basti pensare ai vantaggi del dollaro come valuta di riserva internazionale – e quindi il fatto che gli USA possano vivere largamente al sopra dei loro mezzi. Questo per le classi dirigenti USA è intollerabile.

Abbiamo quindi la crisi della globalizzazione neoliberista a causa del suo stesso funzionamento, come esito del suo “successo”. L’assolutizzazione della concorrenza ha portato ad uno scontro geopolitico pesantissimo che vede nel conflitto degli USA contro la Cina e nel rischio concreto di guerra, il punto fondamentale. L’esaltazione della concorrenza sfrenata sta portando al razzismo e alla guerra presentate come forme di “difesa” dalla concorrenza “sleale”.

Questo è il punto fondamentale della barbarie capitalista: la sua crisi, gli effetti devastanti delle sue realizzazioni, pongono le condizioni per un’ulteriore regressione. Gli interessi del grande capitale sono oggi direttamente contrapposti non solo alla classe lavoratrice ma all’umanità in quanto tale. Ovviamente qualche centinaio di milioni di privilegiati potrà sopravvivere nei “castelli”, privando di risorse gli altri miliardi di persone. Ma questa prospettiva mette in discussione l’idea stessa di umanità: è la prosecuzione del nazismo in altre forme, è una prospettiva disumana. La scelta che si pone concretamente è tra l’umanità in quanto tale e il capitalismo.

In questo contesto, in cui il mondo sta andando a vele spiegate verso la catastrofe, è evidente che sarebbe necessario un nuovo movimento altermondialista in grado di ribellarsi e lottare per l’alternativa. I percorsi, i tempi e i contenuti di costruzione di questo movimento non possono essere definiti a tavolino. Mi pare però possibile individuare alcune urgenze politiche e un paio di filoni di riflessione che forse ci possono servire.

Una nuova stagione di lotta contro gli oppressori

In primo luogo è necessaria una lotta frontale e generalizzata contro l’ideologia dominante che tutto mistifica: occorre smascherare l’indottrinamento del regime capitalista.
Nel neoliberismo le scelte economiche vengono presentate come se vi fosse una scarsità economica e una disponibilità infinita della natura. Brutalizzando, da un lato ci dicono che non ci sono i soldi per la sanità pubblica e dall’altra ci impongono la prosecuzione dell’estrazione di petrolio nell’Adriatico, la TAV e di tutte le opere inutili e dannose. Questa ideologia è una bugia destituita di ogni fondamento. L’umanità non è mai stata così ricca e la produttività del lavoro non è mai stata così alta. Non c’è nessuna scarsità economica, soffriamo di sovrapproduzione, non di penuria. La fase attuale è caratterizzata da una grande ricchezza molto mal distribuita, non da scarsità. Il tema della scarsità è la pietra angolare dell’ideologia liberista e con lo slogan “non ce n’è per tutti”, giustifica la massima concorrenza, il razzismo, la guerra. Tutte le varianti del liberismo, da quelle liberal a quelle naziste, sono imperniate sulla divinità della scarsità che giustifica ogni nefandezza. I 200 miliardi che Draghi sta spendendo – di cui un la maggioranza regalati alle imprese – sono la miglior dimostrazione che i soldi ci sono.
La prima urgenza politica è quindi la decolonizzazione dei cervelli: Se la maggioranza dei proletari pensa che vi sia scarsità, cercherà di difendersi praticando la guerra tra i poveri e rischia di appoggiare politiche razziste. La lotta può nascere solo dalla consapevolezza che esiste una soluzione positiva che si può raggiungere attraverso l’unità popolare contro i ricchi, le banche, le multinazionali.
In secondo luogo occorre quindi individuare l’avversario e costruire il conflitto. “Voi G8 e noi 6 miliardi” restringe un po’ troppo gli avversari. Sono di più. Propongo di adottare uno schema di massima: i nostri avversari sono il 10% più ricco della popolazione di ogni paese e i super nemici sono l’1% dei più ricchi a livello mondiale. Chi sono i nostri? Il 60% più povero di ogni paese occidentale e il 90% più povero della popolazione mondiale: la lotta di classe è globale come nazionale. Senza redistribuire le risorse, senza colpire i privilegi dei ricchi non è possibile costruire alcuna alternativa. A partire dall’individuazione dell’avversario si apre il tema dell’unità, della lotta, del mutualismo, della coalizione. Chiunque è in grado di capire che le rozze categorie “populiste” che ho appena proposto corrispondono abbastanza fedelmente alla divisione in classi della società e alle linee di frattura fondamentali da un punto di vista marxista, su cui organizzare la lotta e il nostro blocco sociale. Da queste linee di frattura sociale possiamo – cum grano salis – individuare interlocutori e avversari anche sul piano politico: tutti i poli politici oggi presenti in Parlamento non sono disponibili a mettere in discussione i privilegi del 10% più ricco, sono cioè espressione dell’avversario. I fumosi discorsi contro le multinazionali non cambiano il fatto che stanno dall’altra parte della barricata.

La terza urgenza è la costruzione di una coalizione larga, plurale, democratica, multicolore, tra tutte e tutti quanti vogliono costruire l’alternativa. Trovare i nessi per costruire un largo schieramento popolare che metta al primo posto la difesa dei diritti sociali, civili, ambientali. Abbiamo detto che tutti i poli politici presenti in parlamento sono schierati dall’altra parte: dobbiamo quindi costruire un polo politico popolare di alternativa, interloquendo anche con quella domanda di cambiamento nel passato intercettata dai 5 stelle e oggi radicalmente delusa. La possibilità di coalizzare le forze e le soggettività che si riconoscono in questa prospettiva, è praticabile, in primo luogo, se è chiara la prospettiva di alternativa. In secondo luogo, proprio a partire dalla lezione di Genova, dobbiamo nuovamente cancellare la linea di confine tra sociale e politica, tra lotta e rappresentanza: Questa è la vera scommessa che abbiamo dinnanzi quando indichiamo nella coalizione l’obiettivo. Decolonizzare i cervelli, individuare gli avversari e costruire coalizione, praticare confederalità sociale, conflitto e mutualismo come aspetti diversi di uno stesso processo. Confidiamo nell’autunno – proprio a partire da Genova – per cominciare a fare qualche passo in avanti.

Due nodi su cui riflettere

Andare oltre il progressismo. Il movimento altermondialista venti anni fa ha preso le distanze dall’idea di sviluppo. Oggi si tratta di andare oltre il progressismo che ha caratterizzato il pensiero occidentale e larga parte della storia del movimento operaio. L’idea di progresso, che il tempo lavori per noi, che il “futuro” sarà sicuramente migliore del presente, è stata un’idea forza in tutto il movimento operaio. “Noi oggi t’accusiamo dinnanzi all’avvenir” cantano gli anarchici “scacciati senza colpa” nella splendida canzone “Addio Lugano bella”. Questa idea che il tempo renda giustizia, che la trasformazione sociale sia affidata al trascorrere del tempo, fino al sorgere del “sol dell’avvenir”, è stata una idea potente ma non ha più alcuna corrispondenza con la situazione attuale. In un mondo in cui lo sviluppo della scienza e della tecnica sono utilizzate per rendere possibili barbarie prima inimmaginabili – dai forni crematori alle bombe atomiche alla devastazione della natura – la coscienza progressista non ci è di alcun aiuto. In un mondo in cui le giovani generazioni stanno peggio degli anziani, il progressismo è privo di significato. Il progressismo oggi è pura religione capitalistica che ci spaccia in modo consolatorio il lieto fine di Hollywood per la realtà. La speranza del cambiamento non può essere affidata al trascorrere del tempo ma piuttosto allo stravolgere il corso della storia, alla ribellione che interrompe il corso del tempo e apre la strada al cambiamento. Marx scriveva nelle “lotte di classe in Francia” che la rivoluzione è la “locomotiva della storia”. Comprendo benissimo il senso dell’affermazione ma non posso che dare ragione a Walter Benjamin che – da marxista – sosteneva che la rivoluzione è in realtà “il freno d’emergenza”: la brusca interruzione della corsa per evitare il disastro. Noi oggi il tempo non lo dobbiamo accelerare ma lo dobbiamo fermare per poter cambiare direzione. Non per tornare indietro ma per evitare di cadere nel burrone. Non è tempo di progresso ma di cura, rivolte, rivoluzioni, trasformazioni.

Umanità, Classe, individui, comunità. Il movimento operaio nasce dall’intreccio tra classe e umanità. L’idea di fondo è che attraverso la lotta di classe – contrapposta al nazionalismo – sia possibile far emergere una nuova umanità. La lotta di classe realizza i “destini” dell’umanità”. Sul tema della classe si è innestato il tema del partito e – dopo i disastri dello stalinismo – abbiamo capito come il partito debba essere uno strumento e non un fine sovraordinato alla classe o alla libertà degli individui. Libertà dell’individuo sociale è diventata un altro concetto del nostro vocabolario. Umanità, classe, individui, che per conquistare la libertà e la giustizia si organizzano, liberamente, in vari modi. Oggi, nella difficoltà ad agire il conflitto di classe, in una situazione in cui misuriamo la solitudine e la disperazione degli individui atomizzati che tanto piace al capitalismo, dobbiamo ricominciare ad usare la parola “comunità”. Parola ambigua e terribile se assolutizzata, come nel caso della comunità organica. Spazio di incontro e di crescita se posta in relazione con gli altri termini: classe, umanità, individuo. Un tempo la struttura popolare era comunitaria: il villaggio, la barriera operaia, la cascina contadina. Negli anni ‘70 la fabbrica era comunità antagonista e il tessuto dei delegati operai una impressionante struttura di tessitura sociale, culturale e politica. Oggi a farla da padrone è la solitudine impotente che ingenera disperazione e rabbia. Bisogna uscirne, bisogna affrontare il problema. Demistificare l’ideologia dominante, riprendere la lotta, valorizzare quegli elementi relazionali che abbiamo dato come presupposti e che oggi non lo sono più: relazioni di cura, relazioni con la natura, relazioni tra gli umani nel loro essere individui sociali. Dobbiamo costruire comunità, punto di incontro tra liberi ed eguali, luoghi in cui si mettano in discussione i tradizionali ruoli di genere che la famiglia riproduce, spazi solidali di fuoriuscita dalla disperazione della solitudine. L’organizzazione del conflitto contro il capitale, la costruzione delle organizzazioni finalizzate a massimizzare la nostra forza, deve intrecciarsi con la cura delle relazioni tra gli umani. L’altra umanità è una costruzione conflittuale ma anche un riconoscimento. L’uomo nuovo è un divenire ma anche un riconoscere. Perché vogliamo diventare umani ma anche restare umani.

Paolo Ferrero

Editoriale del numero di luglio del bimestrale SU LA TESTA

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