Una periferia asfittica, che inghiotte la «meglio gioventù»

L’ultima lettera di Michele (trentenne, grafico, stanco di respirare aria fritta e alimentarsi di false speranze) da quando è stata pubblicata dal Messaggero Veneto ha guadagnato attenzioni, riflessioni, discussioni e inevitabili dubbi, retropensieri, sospetti. Tuttavia il «caso» si è imposto con una forza paradigmatica in grado di eccedere i confini locali e per di più capace di cristallizzare un contesto.

LA «MEGLIO GIOVENTÙ» spalle al muro, inghiottita dal baratro. Un dramma familiare, e non solo: la corrispondenza si moltiplica nei social. E la «notizia» originale tracima ben oltre il giornalismo ai tempi di Internet. Soprattutto perché, di fatto, squaderna la stessa lacrima degli irreversibili tramonti a Nord Est.
Comunque, questo è il suicidio del quadrante che – fra Vicenza e Trieste, Venezia e Trento, Treviso e Udine – si era immaginato «regione europea», «modello di sviluppo 3.0» o perfino «variabile indipendente» da Roma Ladrona, precipitando invece dentro la Grande Crisi che ha desertificato – insieme ai capannoni all’ombra di ogni campanile – anche l’ideologia dell’intrapresa formato individuale.

La verità incontrovertibile a Nord Est combacia con un labirinto senza uscita. Non funziona più, da decenni, la mediazione sociale prima ancora che politica di «mamma Dc». È andato in tilt anche il project financing a senso unico dell’ologramma di Berlusconi & Galan. Nemmeno il lighismo ha retto, perché la lotta secessionista è virata nel governo dell’orticello. Restano, forse, la rabbia cieca e l’orgoglio tradito che alimentano i voti al M5S.

Lo conferma perfino Ilvo Diamanti nel Rapporto della Fondazione Nordest 2017 aggiungendo un trattino: «Il Nord Est è tornato a essere Nord-Est. A Nord di Roma e a Est di Milano e Torino. In altri termini: una periferia».

SIMULACRO in cartongesso. Con i centri commerciali come nuove zone industriali, gli studi professionali irretiti dalle cosche, le piazze rianimate solo dallo spritz, gli orizzonti ristretti da asfalto e cemento, «città metropolitane» e borghi che invecchiano non solo anagraficamente.

Spicchio d’Italia inacidito. Aveva le banche, ma sono state divorate in Borsa o hanno spolpato il territorio di valori e fiducia. C’erano le zone industriali stile Petrolkimico o Ferriera, mentre oggi dominano la manifattura commerciale e i servizi a bassa intensità. Nutriva le ambizioni di Università, ospedali, laboratori culturali e produzioni immateriali, ma il «sistema integrato» è sempre minato da gelosie.
Così Nord-Est, già periferia d’Europa, esce anche dall’occhio di bue dell’Italia. Deve arrangiarsi nel buco nero che brucia capitali e lavori; inventarsi le Scarl usa e getta al posto delle holding; giocarsi il tutto per tutto con il business dei migranti o con l’aspide delle mafie; inginocchiarsi alla «sussidiarietà nazionale» per l’ultima briciola di finanziamenti Ue.

È DAVVERO ARDUO sopravvivere in questo gioco a somma zero. Tranne che per gli «eletti», sempre bravi a incassare le perdite altrui. Chi paga per l’inquinamento da Pfas (sostanze perfluoro alchiliche) nell’acqua bevuta da 250 mila veneti?

Quando mai è affiorato oltre le Dolomiti lo scandalo di Südtiroler Elektrizitätsaktiengesellschaft in Alto Adige? Perché lo statuto speciale del Friuli sembra mettere al riparo anche dalla Commissione Antimafia?
Forse, il suicidio di Michele rappresenta l’altra faccia della medaglia del harakiri politico-istituzionale. A Nord-Est si «governa» nei salotti riservati, fra lobby consolidate, sulla testa dei cittadini, perfino in barba alla magistratura, con la compiacenza mediatica.

Eppure, questa simbolica lettera d’addio ha costretto tutti a guardarsi allo specchio. Senza più archiviare l’urgenza di reagire. Lungo la tratta del virtuale «corridoio 5» infarcito di catastrofici binari morti.
Magari con le parole di Wu Ming 1 come antidoto: «L’attuale forma di capitalismo italiano sa immaginare soltanto il consumo di suolo, la cementificazione, far girare le betoniere, il movimento terra, eccetera. Non c’è nessun’altra strada che venga percorsa tranne questa, che è la più facile. Le Grandi Opere sono il perno del modello di capitalismo italiano di questi anni».

Ernesto Milanesi

11/2/2017 https://ilmanifesto.it

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