UN’ALTRA ITALIA: QUELLA DEI GHETTI

woman-896764_1280-768x1024

L’Italia ha un lato oscuro che si chiama sfruttamento. E’ la realtà di centinaia di migliaia di esseri umani, che si muovono in bilico in una società fortemente corrotta, una popolazione di invisibili che vive una situazione di iper-sfruttamento tenuta abilmente nascosta alla vista. E’ l’Italia dei braccianti e loro sono i nostri nuovi schiavi.

I Ghetti sono baraccopoli sorte attorno a gruppi di vecchie masserie, o in mezzo a campi che si perdono all’orizzonte, formati da costruzioni in lamiera, cartone e assi di legno. I ghetti d’Italia sono dislocati in Puglia, Campania, Calabria, Lazio, Basilicata, Sicilia. Chi non vive nei ghetti occupa strutture fatiscenti abbandonate, lontane anni luce da qualunque idea di benessere e vivibilità.

Sono “non luoghi”, favelas gestite dalle mafie dove le vite di braccianti, prostitute e caporali si intrecciano in un destino perverso, che lo Stato finge di non vedere. D’estate si animano di persone, ma i più indigenti si fermano qui tutto l’anno per preparare la terra e controllare i campi.

Gli abitanti sono quasi tutti stranieri provenienti dall’Africa sub-sahariana, da Pakistan, India, Marocco, Tunisia, Romania, Bulgaria. E poi ci sono gli italiani indigenti, anche donne, che vengono pagati qualcosa in più rispetto agli stranieri e che almeno hanno il conforto di poter tornare ogni sera in una casa vera.

I ghetti accolgono stranieri con documenti regolari che hanno perso il lavoro o non ne trovano uno migliore, vittime anche loro della crisi lavorativa che ha investito il paese. Ci sono studenti. E poi ci sono gli irregolari che vagano da nord a sud alla ricerca di un’opportunità, attraverso un passaparola tra migranti che ne convincono altri e altri ancora a venire.

I braccianti lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno con la schiena piegata a raccogliere pomodori, agrumi, angurie, patate, ortaggi. Guadagnano dai 2 ai 3 euro all’ora, oppure la paga viene conteggiata per ogni cassone riempito, a seconda del raccolto. Si comincia a lavorare alle 5 di mattina e bisogna andare veloci perché al caldo i prodotti della terra vanno raccolti subito, se no tutto marcisce.

E’ a seguito della rivolta del 2011 nel Ghetto di Nardò, capeggiata dal sindacalista Yvan Sagnet, che lo Stato italiano ha proclamato il caporalato reato penale. Ma cosa è cambiato?

Piani, proclami, appelli, denunce… eppure, nonostante tutto, i ghetti resistono e son passati 20 anni. Ogni tanto ci muore qualcuno, allora i sindacati rincarano la dose di proteste, i braccianti scendono in piazza, qualche titolo di giornale, le immagini in tv e poi tutto, come in una pellicola inceppata, torna a fermarsi. Il generale trambusto mediatico sull’immigrazione ci distrae da questa parte di umanità che lavora, e duro, senza diritti. Quella che fa lavorare i braccianti è un’organizzazione ben collaudata, dove nulla viene lasciato al caso.

TUTTO HA UN PREZZO.

Paradossalmente ogni ghetto è una miniera d’oro per chi lo dirige e l’isolamento in cui vengono tenuti i braccianti è fondamentale per poterli controllare. L’elettricità arriva attraverso generatori a benzina. Per ricaricare la batteria del cellulare si pagano 50 centesimi ai “bar” del ghetto. Ci sono due tipi di acqua: quella non potabile che arriva dall’acquedotto, utilizzata tramite dei rubinetti per lavare pentole e farsi la doccia fredda, e quella delle grosse cisterne portate nelle baraccopoli dalla Regione. Nel periodo estivo arrivano due o tre volte al giorno e sono insufficienti per tutte le necessità, mentre d’inverno l’alternativa è quella di riscaldare i bidoni con l’acqua non potabile. Si pagano 50 centesimi per un secchio d’acqua, che in realtà è la stessa (non potabile) con cui ci si fa la doccia.

Le baracche sono montate con cerchioni di automobili, oblò ricavati da copri water, pezzi di tende stracciate, porte di scarto, lastre in ferro, pezzi di lamiera arrugginita, cartoni, buste in plastica,  materiali che sotto al sole si trasformano in fornaci e che riportano alla memoria le squallide bidonville delle zone più desolate del nostro pianeta. Le latrine sono spesso bagni improvvisati, buche scavate nella terra, sormontate da bancali marci e pareti in legno. Nei grandi ghetti si può scorgere qualche bagno chimico. Chi gestisce la proprietà dei terreni intasca dai 30 ai 50 euro al mese per l’affitto del suolo, occupato da baracche che i braccianti devono costruirsi da soli, in ognuna delle quali vengono sistemate 5/6 persone.

In questi angoli sperduti di mondo il cibo viene portato dai caporali: ogni persona paga dai 4 ai 6 euro al giorno. La carne, il cui prezzo viene rincarato dal caporale per guadagnarci su, viene consegnata in interi pezzi macellati, di dubbia provenienza, che vengono appesi a testa in giù e contaminati da polvere e mosche, il resto viene conservato in semplici buste di plastica.

Quattro euro giornalieri è la tariffa che ogni bracciante deve versare al caporale per essere trasportato ai campi di lavoro, oltre al costo degli attrezzi come guanti e stivali.

Di tanto in tanto si espande nel cielo una densa coltre di fumo, è l’immondizia che viene bruciata nei campi perché nessuno la porta via: si nascondono le tracce dei rifiuti e non si paga alcuna tassa comunale per lo smaltimento.

Per un ricambio di abiti bisogna sperare nel buon cuore dei parroci e dei volontari che si arrischiano ad entrare nei ghetti.

IL TRAFFICO DI FARMACI.

Chi lavora 10-12 ore sotto al sole o dorme in luoghi malsani contrae ogni tipo di malanno: micosi e altre malattie della pelle; intossicazioni dovute all’acqua e al cibo scadente e mal conservato; problemi gastrointestinali; e poi la tosse, derivante dal contatto con pesticidi. Attorno al dolore di questi disperati si è creato un vero e proprio spaccio di oppiacei e antidolorifici, smerciati a caro prezzo, che consentano di sopportare i duri ritmi di lavoro anche quando si sta male.

Chi si ammala più gravemente, oltre a sorbirsi le bestemmie, deve sganciare al caporale 20 euro per essere portato in ospedale (ammesso che abbia i documenti in regola). Tolto alcuni volontari privati e il personale di Emergency, che portano assistenza medica dove e come possono, i braccianti dipendono in tutto e per tutto dai loro aguzzini.

LA TRUFFA DEI DOCUMENTI.

Quella dei documenti è una vicenda losca che spesso trae origine già in Libia e coinvolge i richiedenti asilo che arrivano in Italia con mezzi di fortuna. Mi sono chiesta come mai tutti giungono in Europa privi di documenti. Alcuni di loro hanno pianificato di lasciarli in patria, per poter mentire sul paese di provenienza, sperando di ottenere lo status di rifugiato anche se provengono da paesi dove non vi sono conflitti. Ma sono una minoranza. Alla maggior parte di loro i documenti vengono sequestrati in Libia per essere rivenduti alla mafia italiana, che li assegnerà a sua volta ai clandestini per creargli una nuova identità e tenerli sotto controllo. Attraverso questa manipolazione il bracciante non ha la possibilità di affrancarsi o scappare.

Il caso della Puglia è senz’altro enigmatico: il lavoro si ottiene attraverso l’iscrizione ad una lista di prenotazione, una specie di collocamento pubblico creato dalla Regione e istituito dopo una lunga battaglia sindacale. I caporali però, subito dopo l’iscrizione, sequestrano i documenti, in modo che nessuno possa andarsene senza preavviso. Non solo diventa impossibile liberarsi dal vincolo lavorativo, ma si subisce una forma di ricatto: se il lavoratore fa qualcosa che al caporale non piace, non potrà riavere più il passaporto, o permesso di soggiorno o carta d’identità, e verrà denunciato alla questura come clandestino. Non stupisca che le patrie galere pullulano di rifugiati, non che abbiano commesso chissà quali reati, ma semplicemente si sono ritrovati impigliati nelle maglie di questa truffa. Intanto i documenti sequestrati verranno rivenduti a qualche irregolare a caro prezzo (alcuni hanno sborsato 800-1000 euro) e ripagati con il lavoro nei campi.

Siamo di fronte ad un esercito di manodopera in nero sulla quale lucrano tutti gli anelli della catena agricola e sociale. Una catena che aggancia l’immigrato, gli si stringe alla caviglia e non lo lascia più.

Sono differenti invece i canali che consentono a Rumeni e bulgari di raggiungere l’Italia: discutibili agenzie di lavoro in patria organizzano pullman di disperati con tutta la famiglia al seguito, bambini compresi. Vivono separati dagli altri stranieri, in casolari abbandonati. Sono, insieme agli indiani, l’ultimo anello della catena, i più sfruttati e i meno pagati, i più ghettizzati.

LE DONNE.

Come tristemente accade in ogni società, anche all’interno di questo meccanismo mafioso la donna viene sfruttata e sottomessa dagli uomini. Rumene e africane, per lo più nigeriane, vengono avviate alla prostituzione per alleviare la solitudine dei braccianti nelle grandi città invisibili.

Mentre le rumene arrivano prevalentemente attraverso il canale sopra citato delle agenzie di somministrazione lavoro, e vengono impiegate anche nei campi, le nigeriane fanno parte di una rete che parte dalla Nigeria. E’ la mafia nigeriana che si occupa di pagare il viaggio alle ragazze per poi tenerle sotto controllo attraverso il ricatto di superstizioni locali, non lasciandole libere fino all’estinzione del debito.

Anche in questo sistema a cupola le donne quindi sono considerate inferiori, non solo perché non detengono alcun ruolo predominante, ma anche perchè nei campi vengono pagate meno degli uomini. Per tutte loro la paura dello stupro è sempre in agguato. Alcune sono tossicodipendenti, e sono i caporali stessi a fornire la droga a prezzo rincarato.

LA PIRAMIDE MAFIOSA.

Il bracciante segna su un blocchetto le ore lavorate – che puntualmente non coincidono con quelle pagate – il caporale sottrae le sue spese (cibo, alloggio, trasporto e altro) e paga il proprietario del terreno che percepisce i soldi dell’affitto e la merce arriva ai grossisti e ai compratori finali: questa la filiera.

I braccianti non vedono mai il capo italiano, perché quello prende i soldi, ma delega ai caporali il lavoro sporco. I caporali invece, suddivisi in gerarchie, sono sempre connazionali e controllano il flusso raccattando manodopera in giro per l’Italia. Il caporale esige una sorta di pizzo al migrante per avergli procurato il lavoro che si traduce in 50 euro. L’apporto di questi connazionali è fondamentale al fine di mantenere in vita il sistema di sfruttamento, perché chi è appena arrivato si fida del nero e non del bianco. Molti partono senza avere la minima idea di cosa li aspetta, reclutati sulla fiducia. E dove svanisce la fiducia, il resto lo fa la fame, che costringe ad accettare. I caporali che guadagnano più soldi si comprano un’auto o un furgoncino scassato per trasportare i braccianti e guadagnarci sul trasporto. Se un lavoratore chiede di essere trasferito ad un altro campo…altri 50 euro.

Sono le infiltrazioni mafiose italiane a mantenere i legami con le istituzioni e la politica corrotta del posto.

Un ruolo decisivo viene svolto dalla figura del commercialista, definito il colletto bianco dello sfruttamento: gestisce i contratti, controlla i documenti, seleziona i camionisti che trasporteranno le merci.

A capo di questa cupola ci sono Mafia, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita. E poi le grandi imprese agro-alimentari, che dettano le regole e decidono i prezzi del prodotto. In tutto questo traffico di esseri umani e interessi loschi l’Unione Europea, sempre avvezza ai suoi rigidi controlli, stranamente chiude un occhio, dimostrando una cecità che appare sospetta.

LA FILIERA.

Un’anguria in agosto viene venduta all’ingrosso a 20 centesimi al chilo. Conoscendo i prezzi correnti è facile immaginare anche i ricavi. Chi si arricchisce è colui che trasformerà il prodotto o lo rivenderà sui mercati, in particolare del nord Europa, soprattutto in Germania che rappresenta il maggior acquirente.

Riguardo al pomodoro Cirio, l’Uomo del Monte, Desantis, Doria, La Princes, Santa Rosa, Valfrutta, Arrigoni, Mutti…sono grosse multinazionali tutte dislocate nelle aree del sud non lontano dalle zone dei ghetti, che spesso non si preoccupano di fornire la tracciabilità del prodotto e dunque non si può sapere quali materie prime utilizzino, anche se è facile intuirlo. Anche i camionisti che si spostano incessantemente da nord a sud carichi di prodotto finito, dichiarano di venire sottoposti a orari massacranti e paghe misere.

CONCLUSIONI.

400.000 lavoratori sfruttati, sottopagati, agli ordini di caporali e mafie locali, persone che vedono calpestati diritti e dignità in nome del maggior profitto. Il caporalato ormai non è più prerogativa del sud, pare essersi insediato – seppur in misura minore – anche a nord, in regioni come il Piemonte e la Lombardia, passando per la Toscana, coinvolge il settore agro-alimentare e arruola prevalentemente lavoratori dai paesi dell’est. Non ha le tinte fosche dei ghetti, ma lo sfruttamento c’è.

L’Italia rischia di trasformarsi poco alla volta in un ghetto a cielo aperto catapultato nel degrado, il cui lavoro nero produce un utile da milioni di euro, e manda avanti l’economia a spese unicamente dei lavoratori della terra, degli stranieri e degli italiani parimenti sfruttati.

Ricostruendo le tappe di questo sfruttamento mi è parso chiaro che questo sia uno dei capitoli più dolorosi e vergognosi della nostra Italia. Sono lontani i tempi nei quali lavorare la terra era sinonimo di nobiltà. Un paese che si voglia definire civile non può nutrirsi al banchetto di un simile sistema schiavista, con la pretesa di insegnare ai poveri a porgere l’altra guancia per schiaffeggiarla meglio. I NOSTRI braccianti non sono né eroi né miti, sono solo lavoratori che meritano dignità e rispetto, e sostegno, proprio come tutti gli altri. Uscire da questo pantano non sarà semplice. Ma è urgente che le istituzioni si adoperino per vigilare, denunciare e punire, per impedire che accada di nuovo quel che la storia recente ci ha mostrato. Per scongiurare che non vi siano più altri omicidi. Non possiamo attendere il prossimo Soumaila Sacko, il sindacalista barbaramente ucciso e come lui altri prima. Non possiamo diventare un paese strozzino che tende la mano a questo assurdo apartheid, che si mantiene sulla sofferenza di alcuni, che pone il cappio al collo al suo cittadino, stringendo il nodo sempre più, giorno dopo giorno, fino a togliere il respiro.

*Questo articolo non avrebbe visto la luce senza l’apporto fondamentale di libri come Agromafie e Caporalato, Ghetto Italia, Uomini e Caporali.

Agatha Orrico

Collaboratrice di Lavoro e Salute

Inchiesta pubblicata sul numero di luglio del periodico cartaceo

Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *