Un’economia sostenibile per evitare il collasso

In molti si chiedono se la recessione economica provocata dalla pandemia di Covid-19 ci trascinerà in un nuovo periodo di crisi di intensità pari o peggiore a quella successiva alla Grande Recessione del 2007-8. Tuttavia, a nostro parere, la vera domanda che dovremmo porci è: saremo in grado di sfruttare questa drammatica occasione per cambiare rotta e modificare il nostro modello di produzione e di sviluppo?

L’alternativa non può essere quella tra salute e lavoro, tra Natura ed Economia: dovremmo pensare e muoverci, piuttosto, in direzione di uno sviluppo simbiotico tra loro. Come sottolineato all’interno dell’appello di Sbilanciamoci! “In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo”, è necessaria una transizione verso un modello economico e sociale sostenibile, ossia in grado di ridurre al minimo lo sfruttamento delle risorse naturali, del territorio e dell’energia, rispettando il clima e la Natura.

Un primo passo concreto è rappresentato dalla prospettiva di un Green New Deal, oggetto di dibattito anche all’interno della Commissione Europea, in grado di stimolare investimenti pubblici green, incentrato dunque su fonti di energia rinnovabili e non esclusivamente orientato alla crescita quantitativa del prodotto – anche perché è ormai un ricordo la relazione tra Pil ed occupazione che aveva caratterizzato lo sviluppo economico moderno – ma anche e soprattutto su un modello di produzione di qualità ed eco-sostenibile.

Potremmo aspettare, ancora una volta, che il sistema si autocorregga, spinto dalle “forze del mercato” e dalla loro libera iniziativa. Tuttavia, non sappiamo quanto sia vicino il “punto di carico” che precede il collasso. Se è vero – come teme la comunità scientifica – che l’orizzonte sia di pochi anni, occorre agire subito. Inoltre, se il mercato continua a perseguire la massimizzazione dei profitti a prescindere – dalla salute e dalla Natura – perché dovremmo attenderci che si auto-corregga?

Dobbiamo quindi dare una spinta al cambiamento: un cambiamento – ripetiamo – non più rinviabile. Come? Innanzitutto, attraverso l’eliminazione dei circa 20 miliardi di sussidi pubblici alle attività che danneggiano l’ambiente. In secondo luogo, orientando le politiche fiscali e impositive – le cosiddette tasse verdi, circa 15 miliardiin modo da influenzare, sul lato dell’offerta, l’adozione di processi produttivi a minor impatto ambientale (riciclo, economia circolare) e la produzione di beni e servizi green e, sul lato della domanda, lo stimolo ad abitudini di consumo maggiormente sostenibili.

La Natura e l’ambiente devono diventare il contenitore dell’economia. Il criterio della “sostenibilità” deve essere la bussola che orienta le scelte economiche – individuali e collettive – e i modelli di sviluppo (e non della sola crescita, che non può essere sostenibile senza violare la seconda legge della termodinamica) del domani.

Il pensiero neoliberista, nella sua forma più estrema, rivolta al ritorno di un “naturalismo liberale”[1] (il “laissez faire”), caldeggia una semplice raccomandazione di politica economica: lasciar agire le forze del mercato in modo che siano le imprese private a creare ricchezza e lasciare che lo Stato intervenga esclusivamente per occuparsi dei più fragili – come scriveva Marshall, di “vedove e orfani” – e per gestire recessioni e crisi – ossia, quando il mercato non funziona – provocate dall’intervento di elementi esterni non controllabili piuttosto che dalla dinamica (endogena) intrinseca al funzionamento del capitalismo.

Dal punto di vista teorico, uno dei risultati fondamentali dell’economia neoclassica “mainstream” è il raggiungimento, da parte del sistema economico, di un equilibrio caratterizzato da piena occupazione del lavoro e pieno utilizzo del “capitale” – senza alcun intervento esterno, come potrebbe essere quello dello Stato – a partire da pochi assiomi e assunti inverosimili. Questo è stato il fondamento teorico attorno a cui sono state implementate le politiche economiche neoliberiste sopra descritte, incentrate soprattutto in Europa sulla flessibilità del mercato del lavoro e sulla “austerità espansiva”.

Queste politiche hanno di fatto indebolito progressivamente la rete di protezione e sicurezza dei lavoratori – in particolare precari e working poor – all’interno di società caratterizzate da crescenti disuguaglianze di reddito e ricchezza, e hanno penalizzato i sistemi di sanità pubblica a favore del privato.

Questo paradigma economico-politico, almeno fino alla crisi del 2008, aveva contribuito a stimolare una crescita sì esponenziale, ma fondamentalmente fragile, che continua inesorabilmente a danneggiare la Natura e, in definitiva, noi stessi. Comunque prosegua o finisca la disputa teorica tra scuole di pensiero nella scienza economica, un risultato è certo: i sistemi economici non possono consumare tutto il capitale naturale. Se la Natura e le sue risorse dovessero esaurirsi, l’uomo, le economie e le società scomparirebbero, non è vero il contrario. L’economia si è cacciata in una “trappola evolutiva”, alla ricerca del profitto di breve periodo e mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza.

Giorgio Lunghini ha scritto che il neoliberismo è riuscito laddove persino le scienze fisiche hanno fallito: presentare le proprie “leggi” come verità inconfutabili, come se il rigore analitico fosse l’unico elemento rilevante e gli effetti pratici non contassero affatto, perché nulla è la loro applicabilità. Nonostante questo, alcuni economisti pretendono di suggerire ai politici ricette per crescere di più, e non per aumentare il nostro benessere, facendo coincidere quest’ultimo con la quantità di beni e servizi a disposizione del consumatore e senza alcun riguardo per la Natura e la Società.

Piuttosto che inseguire solo una crescita quantitativamente più sostenuta, è ormai giunto il tempo di chiedersi “per chi” e contro “cosa”. Ormai la quasi totalità degli scienziati ci ammonisce asserendo che la permanenza su un sentiero di crescita di questo tipo ci porterà al collasso ambientale. L’unica via percorribile, dunque, prevede necessariamente una transizione verso un modello di sviluppo alternativo a quello attuale, un modello di sviluppo sostenibile. La politica deve guidare il cambiamento da un’economia rapace all’economia del bene comune.

Durante la Grande Depressione del 1929 le autorità di politica economica si trovarono sprovviste di un indicatore che li aiutasse a valutare la contingenza economica, l’andamento dell’occupazione e dell’inflazione. Fu per questo che negli Stati Uniti il Governo si rivolse all’economista Simon Kuznets per elaborare uno schema di misurazione dell’economia e, dall’altra parte dell’Atlantico, John M. Keynes e i suoi collaboratori lavorarono alla costruzione di una misura macroeconomica del prodotto interno – il Pil – che è sostanzialmente quella che ancora oggi conosciamo e utilizziamo.

Il successo del Pil come metrica è stato enorme e favorito, soprattutto, dalla sua facile applicabilità a livello internazionale. Tuttavia, si tratta di un indicatore sintetico che non ha alcuna relazione col benessere e con lo sfruttamento delle risorse naturali. Se si produce inquinando, il Pil non ne tiene conto poiché misura esclusivamente le quantità che passano attraverso il mercato e a cui lo stesso attribuisce un prezzo. Il problema del riscaldamento globale, e più in generale dell’inquinamento, ci impongono oggi di integrare questo tipo di informazione e di tenerne conto al fine di impostare un modello di produzione e di sviluppo alternativi, a livello globale.

Esistono ormai da molti anni degli indicatori che cercano di andare oltre il Pil. In Italia, ad esempio, l’Istat e il Cnel hanno prodotto il BES (Benessere Equo e Sostenibile), e anche l’Ocse ha un indice chiamato Better Life: tutti utilizzano un cruscotto di indicatori economici, sociali e ambientali. Questo tipo di informazioni è fondamentale per garantire una bussola non esclusivamente “mercatista” lungo traiettorie di crescita e sviluppo realmente sostenibili per le nostre economie e le nostre società.

Abbiamo bisogno di cambiare le traiettorie dello sviluppo, di indicatori per monitorarlo e di un diverso modo di pensare all’Economia, alla Natura e alla Società.

Note

[1] Per una discussione su neoliberismo anglosassone e ordoliberismo di matrice tedesca, si veda P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi 2013.

Lucrezia Fanti, Mauro Gallegati

25/5/2020 https://sbilanciamoci.info

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