Usciamo dal silenzio

Le donne, insieme ai giovani, sono le più colpite dalla crisi economica seguita alla pandemia da Covid-19. Moltissime hanno perso il lavoro perché impiegate nei servizi, nel turismo, e nei settori economici che più hanno risentito del lockdown. Ma non solo per questo. Chi invece durante la quarantena non ha mai smesso di lavorare, insieme allo smart work ha dovuto pulire casa e aiutare i figli con le lezioni online. In questi lunghi mesi, sui media – specie in tv – è stato tutto uno sperticarsi per lodare la capacità delle donne di essere multitasking, di sapersi occupare di tutto contemporaneamente, come se fosse una innata dote femminile e non un’immane fatica dettata dalla necessità; come se “la cultura della cura” fosse un fatto di natura, biologico, quasi un istinto e dunque destino naturale per le donne. Quasi che sensibilità, affetti, capacità di comprendere le esigenze degli altri, fossero estranee al maschile. Del resto la storia insegna. Per millenni le donne sono state negate e annullate. Con il predominio della razionalità maschile e delle religioni monoteiste sono state considerate solo in quanto mogli e madri. La pandemia non ha fatto che acuire e portare al pettine antichi nodi ancora in parte irrisolti insieme a vecchie disparità. Riportando drammaticamente alla luce anche la questione della violenza di genere fra le mura di casa che ha conosciuto un forte incremento. Rispetto a tutto questo è mancata una risposta politica e culturale. Invece di pensare a come affrontare questa drammatica situazione, invece di pensare a come poter creare lavoro c’è chi, come il leghista Salvini si preoccupa delle culle vuote. Il capitano (armato di rosario che cita la Thatcher) profetizza un Paese senza futuro perché le italiane non fanno più figli mettendo così a rischio la stirpe. Ma se le destre vorrebbero riportare le donne sotto il giogo di “Dio, patria e famiglia” il centrosinistra non brilla nel sostenere le scelte delle donne. I provvedimenti del governo, a questo riguardo, si fermano a una visione cattolica e assistenzialista. Dal Family act al fiume di soldi regalati alle paritarie, purtroppo, siamo ancora lì. Quanti più figli fai, più soldi riceverai dallo Stato, assicura la cattolicissima ministra Elena Bonetti di Italia Viva. Lo avevamo denunciato ai tempi del governo Renzi che varò il “dipartimento mamme”, lo abbiamo gridato ai tempi del governo giallonero e dell’oscurantista Congresso di Verona a cui aderì l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. E pesa ancor più doverlo ripetere ora che abbiamo un governo di centrosinistra, sulla carta, democratico e progressista. Ma a ben vedere la questione va anche molto al di là del governo. Il punto è che, incapace di liberarsi del retaggio cattolico, nemmeno la sinistra ha ancora fatto quel salto culturale necessario per riconoscere pienamente (al di là del riconoscimento formale di diritti civili) l’identità umana della donna. Considerando la donna solo come moglie e madre, finisce per negarne la vitalità, la creatività, le capacità professionali, finisce per non valorizzare quell’intelligenza emotiva, fatta anche di sensibilità, di intuito, che permette di avere una marcia in più. Le donne sono maschi mancati, sono animalini irrazionali, instabili, capaci di ogni tipo di pazzia, secondo i millenari pregiudizi coniati dai più antichi filosofi e resi dogma dalla Chiesa. Stereotipi duri a morire, insieme a quella misoginia che ancora alligna quotidianamente, riverberata dai media, e che purtroppo non può essere cancellata per legge. (Avremo modo di riparlarne quando la norma contro omotransfobia e misoginia andrà alla Camera il 27 luglio).

È tempo che le cose cambino. Le donne di oggi sono diventate consapevoli di se stesse e non sono più disposte a stare un passo indietro. Nell’ultimo secolo c’è stata una rivoluzione silenziosa che le ha portate a studiare, a fare ricerca, ad arrivare ai più alti livelli di competenza e preparazione in ogni campo. Le donne oggi vogliono poter essere libere di vivere, di pensare, di amare, di realizzarsi, non vogliono più dover scegliere se avere figli o lavorare. Sanno di essere una risorsa e vogliono contare, vogliono essere attive sulla scena pubblica, vogliono orientare l’agenda politica, vogliono contribuire a costruire una società diversa, più umana, più rispettosa dell’ambiente, più giusta e inclusiva. Non vogliamo la carità, né l’affermazione, solo in astratto, di pari opportunità come è accaduto con la controriforma delle pensioni che ha portato quella delle donne a quota 67 anni. Non vogliamo essere messe sotto tutela o in ghettizzanti aree protette. Questo è il succo degli appelli e dei documenti che hanno preso a circolare rapidamente in queste settimane, provenienti di aree diverse della sinistra e dai movimenti (Non una di meno, Fridays for future ecc.).Usciamo dal silenzio, confrontiamoci, facciamoci sentire. È una esigenza che, dopo il lockdown, sta diventando sempre più diffusa e trasversale. Non si tratta solo di difendere spazi delle donne, di difendere diritti che le generazioni venute prima di noi hanno conquistato e che oggi sono di nuovo in pericolo, a cominciare dalla legge 194 disapplicata per l’altissimo numero di obiettori (ma pensiamo anche ai paletti posti all’aborto farmacologico durante pandemia come è accaduto in Umbria). L’obiettivo è se possibile ancor più ambizioso e riguarda i diritti di tutti, uomini, donne, bambini, italiani, rifugiati, immigrati. Le donne oggi vogliono contribuire a cambiare l’idea di economia, cambiare il modo di fare società, costruire un futuro diverso. «Non ci piace il Paese azienda. Non ci piace la scuola azienda. Il profitto non può essere l’unico fine», si legge nel documento Dalla stessa parte che su questo numero di Left discutiamo, insieme ad altre proposte. Gli incontri, le tavole rotonde, su piattaforme online e dal vivo, che si sono andate moltiplicando in queste settimane ci sembrano un segnale di fermento importante, da raccontare, da coltivare e da approfondire.

Se le donne si organizzano dal basso e riescono a fare rete qualcosa può davvero cambiare anche in politica. Lo abbiamo visto quando una massiccia e trasversale opposizione delle donne al Ddl Pillon ne ha stroncato l’iter. Non è stato solo per la caduta del governo giallonero, ma perché la lotta delle donne aveva generato una diffusa consapevolezza riguardo alla mostruosità di quel provvedimento che trattava i bambini come pacchi postali, accusando le madri di essere delle manipolatrici. Lo abbiamo visto con la legge 40/2004 che è stata smantellata pezzo dopo pezzo grazie all’impegno trasversale di tante donne riunite in associazioni e di professioniste capaci come l’avvocato Filomena Gallo della associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca. Ora si tratta di allargare ulteriormente l’orizzonte, propongono giovani attiviste, nuovi volti e decane della politica di aree diverse. Ritrovarsi insieme, senza ripetere gli errori storici di un certo femminismo che ha finito per auto ghettizzarsi, questa è la sfida. C’è la possibilità di farlo in modo diverso, forti di un pensiero nuovo sulla realtà umana che ci dice della naturale uguaglianza di tutti gli esseri umani alla nascita e che riconosce l’identità della donna, uguale e diversa. Con la consapevolezza che se la donna non sarà più negata e annullata dagli uomini, anche gli uomini potranno essere più liberi e trovare una sensibilità nuova.

Simona Maggiorelli

9/7/2020 https://left.it

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