Vademecum Immigrazione: la protezione internazionale

Vademecum Immigrazione parte I: la protezione internazionale

Dei fatti maturano nell’ombra, perché mani non sorvegliate da nessun controllo tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora. E quando i fatti che hanno maturato vengono a sfociare, e avvengono grandi sventure storiche, si crede che siano fatalità come i terremoti.

Pochi si domandano allora: “se avessi anch’io fatto il mio dovere di uomo, se avessi cercato di far valere la mia voce, il mio parere, la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”

(A. Gramsci, L’Indifferenza, in Sotto la mole 1916-1920, Torino, Einaudi, 1960) [1]

Milioni di italiani sono convinti che sia in atto un’invasione di brutti ceffi provenienti da sconosciuti paesi dell’Africa e dell’Asia, determinati a raggiungere il nostro paese allo scopo di commettere i più efferati crimini, di privarlo della propria cultura e tradizione, di piazzarsi comodamente in un centro d’accoglienza ricevendo 35 euro al giorno da consumare in giga internet sul proprio smartphone di ultima generazione. Alcuni di questi sono anche convinti che tra i loro scopi ci sia quello di “rubarci il lavoro”, mentre altri si lagnano del fatto che non sappiano fare altro che bighellonare in giro ubriachi.

In un contesto pre-elettorale di sconcertante disinformazione sul fenomeno migratorio, di pregiudizi e paura, razzismo, xenofobia e fascismo dilagante, di sempre più persone che “non sono razziste, ma…”, i militanti di estrema destra imbracciano le armi e corrono a fare pulizia etnica per le strade senza che nessuno dei partiti aspiranti al governo del paese denunci questo atto come un’azione terroristica per mano fascista (eccezion fatta per Potere al Popolo) ed, anzi, alcuni difendono l’operato del terrorista, mentre la gente moltiplica i messaggi “di solidarietà” nei suoi confronti.

Ma chi sono queste persone che arrivano in Italia, spesso affrontando terribili, lunghissimi, costosissimi e pericolosissimi viaggi (non solo via mare)? Da dove arrivano e perché? Dove sono diretti? Cosa fanno in Italia? Cosa chiedono, cosa ottengono, quali sono i loro diritti e i loro doveri, quali leggi regolano questo fenomeno? Come fare a comprendere la natura del fenomeno migratorio, la sua esplosione, la sua gestione, le problematiche che sono ad esso connesse?

Per tentare di rispondere a tutte queste domande abbiamo pensato fosse fondamentale dedicare un focusspecifico su questi temi, attraverso una serie di articoli, consapevoli che questo lavoro non potrà essere certamente sufficiente per una comprensione piena e totale dell’immigrazione e per la ricerca di approcci e soluzioni corrette. Tuttavia è un punto di partenza dal momento che i comunisti hanno il dovere di comprendere la realtà, di studiarla e analizzarla in maniera scientifica, in modo da potere elaborare risposte realmente efficaci ai problemi, fuori dalla disgustosa vulgata semplicistica, faziosa, menzognera che avvolge i temi dell’immigrazione e va impastando all’interno dei peggiori slogan populisti e pregiudizi degni del Ventennio qualsiasi analisi in merito.

Protezione internazionale: cos’è

All’interno della complessa e copiosa legislazione e giurisprudenza di livello internazionale, comunitario e dei singoli ordinamenti nazionali, l’istituto della protezione internazionale si innesta nell’ambito del “diritto degli stranieri” o “diritto dell’immigrazione”, essendo al contempo in stretta correlazione con il sostrato evolutivo e valoriale sviluppato dai vari Stati, in modo non sempre univoco, in materia di trattamento e tutela delle minoranze e della tutela della dignità della persona umana in generale. Tale istituto, infatti, “storicamente” fa riferimento ad un tema estremamente complesso da indagare e disciplinare, ossia il bisogno di ricevere tutele, presso autorità sovrane differenti dalla propria, da parte di tutte quelle persone che si trovano nella posizione di abbandonare il proprio paese di origine-cittadinanza (o di abituale dimora, se apolidi) per fuggire da (o evitare) un pericoloconnesso alla propria incolumità fisica, dignità personale, esercizio di diritti e libertà, minacciati da unapersecuzione individuale (anche solo temuta, per motivi connessi alla propria etnia, religione, cittadinanza, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale), oppure insidiati da fattori concreti ed effettivi da cui possa derivare un danno grave alla persona (ad esempio, la presenza di disordini di natura bellica, la condanna a morte, sottoposizione a tortura o altri trattamenti inumani e degradanti). Nel primo caso, alla persona che tema la persecuzione potrà essere riconosciuto lo status di rifugiato, mentre nel secondo si parla di riconoscimento di “protezione sussidiaria”.

Questa definizione “ampia” (e ancora non precisa) individua quello che comunemente si intende per “protezione internazionale”, così come disciplinata da fonti giuridiche di natura internazionale (convenzioni, trattati) e di natura comunitaria (direttive, regolamenti) per quello che riguarda l’Unione Europea, che può articolarsi dunque nel riconoscimento dello status di rifugiato o nella protezione sussidiaria. Esiste, tuttavia, una ulteriore articolazione dell’istituto della protezione – che opera unicamente in Italia ed è previsto dall’art. 5 comma 6 del Testo Unico sull’Immigrazione – che abbraccia anche le ipotesi in cui le persone che richiedono tale protezione internazionale “standard” ma non possiedono i requisiti per accedere al livello – che potremmo definire privilegiato, in termini di benefici connessi – di protezione accordata ai rifugiati o di protezione sussidiaria, tuttavia presentano una situazione oggettiva personale di una gravità tale da impedirne l’allontanamento dal territorio nazionale, all’interno del quale, pertanto, ricevono una protezione denominata “umanitaria”.

Ad onor del vero, vi sarebbe un ulteriore livello dell’istituto della protezione internazionale da prendere in considerazione, ossia quello che emerge ai sensi dell’articolo 10 comma 3 della Costituzione italiana dove si disciplina il diritto di asilo come un diritto più ampio rispetto al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione sussidiaria sopra descritte, argomento su cui si avrà modo di ritornare più nello specifico in seguito.

Da dove nasce la protezione internazionale

A seguito delle tragiche persecuzioni perpetrate dai regimi nazifascisti, dopo il secondo conflitto mondiale dirompente e generalizzata divenne l’esigenza di regolamentare, nel modo più uniforme possibile, la possibilità di accordare dei livelli di tutela alle persone soggette a persecuzioni connesse alla propria razza o religione, opinioni politiche, appartenenza a un determinato gruppo sociale e via discorrendo, al fine di cristallizzare al livello di normativa vincolante per tutta la comunità internazionale un habitus democratico a garanzia del rispetto dei diritti umani. Nacque anche con tali intenzioni l’ONU e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata nel 1948 e che, all’art. 14, dichiarava il diritto di ogni individuo a cercare e godere asilo dalle persecuzioni presso gli altri paesi; ma il principale intervento in tema di protezione internazionale è costituito dallaConvenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, adottata il 28 luglio 1951 in seno alla Conferenza di Plenipotenziari delle Nazioni Unite tenutasi a Ginevra, ed entrata in vigore nell’aprile del 1954(l’Italia ha emesso la legge 722/ 1954 di autorizzazione alla ratifica). Nel quadro dell’esodo seguito all’immediato dopoguerra – e ad ulteriore riprova del fatto che a determinare l’adozione della Convenzione fu principalmente l’esigenza di fare fronte alle preoccupazioni dovute a quella specifica fase congiunturale – sembra indicativo il fatto che essa si concentri sulla regolamentazione della sola tematica dello status dei rifugiati, dandone una prima ed importante definizione all’art. 1 lett. A co. 2 ed inserendovi, inoltre, ben due riserve limitative dell’applicabilità della stessa – una temporale che fa riferimento ai soli accadimenti persecutori anteriori al 1951 e l’altra geografica che, come espresso nella lett. B co. 1, intende fare riferimento ai soli avvenimenti verificatisi in Europa.

Sicché, ai sensi di quanto stabilito a Ginevra, viene considerato rifugiato chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trovi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non possa o, per tale timore, non voglia domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non possa o, per il timore sopra indicato, non voglia ritornarvi. E, di conseguenza, in considerazione dell’assunzione degli obblighi derivanti dalla Convenzione in capo agli Stati contraenti, è rimessa alla discrezionalità degli stessi l’opzione interpretativa circa la portata dell’ “estensione geografica” da dare ai “fatti avvenuti prima del 1 gennaio 1951”, dichiarando all’atto della firma, della ratificazione o dell’accessione, se questi ultimi vengano presi in considerazione solo se accaduti in Europa (B co. 1 lett. a) ovvero se accaduti in Europa o altrove (B co. 1 lett. b).

Se la limitazione temporale è, in seguito, venuta meno ad opera della stessa disciplina di carattere giusinternazionalistico, come previsto dall’art. 1 co. 2 del Protocollo di New York del 1967, per ciò che riguarda la clausola geografica va sottolineato che, con la citata legge di ratifica del 1954, l’Italia introdusse la limitazione per il riconoscimento dello status ai soli rifugiati provenienti dall’Europa, salvo poi modificare radicalmente la situazione con l’introduzione nel 1990 della c.d. Legge Martelli che ha abolito tale clausola limitativa, della cui incompatibilità con la normativa costituzionale italiana durata per i quasi quarant’anni della sua operatività, tuttavia, non si dovrebbe poter dubitare. Infatti, in considerazione della conformazione stessa del diritto d’asilo costituzionale e della sua portata, risulta evidente come appaia inconciliabile l’applicazione di una qualsivoglia limitazione aprioristica di tipo temporale o spaziale; inoltre, per quanto riguarda l’analisi sul piano strutturale della nozione di rifugio ai sensi della Convenzione, è interessante notare come in esso si contraddistinguano un requisito soggettivo (individualità della persecuzione, in atto o temuta) e uno oggettivo (razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche quali motivi di persecuzione) che rendono l’istituto in questione non sovrapponibile alla nozione dell’asilo così come risulta dalla Carta Costituzionale italiana, anteriore solamente di tre anni rispetto alla detta Convenzione.

Diritto di asilo costituzionale VS status di rifugiato

Ai sensi dell’art. 10 co. 3 della Costituzione, infatti, si evince che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Secondo la nozione di diritto d’asilo per cui ha optato l’Assemblea Costituente – non senza un confronto serrato tra le diverse sue “anime” [2] – all’atto della costruzione della legge fondamentale italiana, dunque, non solamente si tralasciava la sussistenza di un doppio requisito oggettivo/soggetto a fondamento stringente della causa di giustificazione, facendosi riferimento solo ad un “effettivo impedimento” (situazione di fatto, di carattere individuale, concreta ed attuale) vissuto dal richiedente nel proprio paese d’origine nell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione, ma appare immediatamente lampante la maggiore ampiezza delle ipotesi riconducibili alla fattispecie in questione, non dovendosi, inoltre – come appare invece necessario ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato – configurare necessariamente uno specifico facere persecutorio da parte delle autorità del paese di provenienza [3]. La maggiore ampiezza è ricavabile dalla considerazione che per “impedimento all’esercizio delle libertà democratiche” si deve intendere che risulta rilevante, ai fini del riconoscimento dell’asilo, l’impossibilità di esercizio anche di una sola tra le varie libertà politiche, civili ed economiche previste dalla Costituzione: anche se non possono definirsi propriamente “diritti politici”, tali libertà nel loro insieme rappresentano il nerbo del principio democratico che permea l’intero apparato costituzionale, col quale, peraltro, l’art. 10 co. 3 Cost. risulta essere in evidente nesso strutturale.

Nonostante la riserva di legge espressamente contenuta nell’articolo ai fini di dare concreto corpo ed effettività al diritto d’asilo sia rimasta sostanzialmente priva di attuazione, risulta tuttavia innegabile che il diritto d’asilo italiano si caratterizza per essere: i) una disposizione costituzionale immediatamente precettiva (e non programmatica) giacché essa contiene con sufficiente completezza la disciplina dell’istituto in questione e delega la legge solamente ad un necessario e doveroso completamento; ii) un diritto pieno, perfetto e costituzionalmente garantito, poiché esso pone nella Costituzione stessa sia il proprio fondamento che la propria causa di giustificazione: da ciò deriva che tutti i richiedenti in possesso dei requisiti vantano una situazione giuridica tutelata e superiore alla generica “aspettativa”.

Tale excursus inerente alla valutazione comparativa tra la tutela e il riconoscimento giuscostituzionalisticodell’asilo e quella giusinternazionalistica dello status di rifugiato appare essenziale per porre in rilievo le logiche contrapposte che contraddistinguono ed animano i due istituti – che, dunque, risulta inappropriato trattare in maniera promiscua – dal momento che, da una parte, l’asilo dovrebbe essere riconosciuto in termini di diritto soggettivo individuale di portata ampia (cui dovrebbe seguire un dovere di attivazione da parte dello Stato che, nei fatti però, non si è concretizzato secondo le aspettative ingenerate dalla Costituzione), mentre, dall’altra, si riporta un affievolimento generale della tutela complessiva garantita nel caso del rifugiato, come disciplinato dalle norme internazionali.

La Convenzione di Ginevra si limita ad illustrare una serie generale, per quanto importante, di obblighi degli Stati contraenti e di diritti fruibili dai rifugiati (tra cui particolarmente rilevanti, ad esempio, sono il divieto di discriminazioni nei loro confronti e la libertà religiosa loro concessa), rinviando alle misure adottate da ogni Stato contraente per quanto riguarda, in particolare, le disposizioni procedurali relative all’ammissione del richiedente asilo e la sua accoglienza nel territorio statale o quelle inerenti le modalità di ammissione o respingimento delle domande presentate. Resta ferma, comunque, l’essenziale disposizione sul divieto di espulsione e respingimento del rifugiato verso luoghi ove la sua vita o libertà sarebbero minacciate da persecuzioni per i motivi sopra illustrati (obbligo di non refoulement, previsto dall’art. 33, che assurge a principio ampiamente accettato come parte del diritto internazionale consuetudinario, dunque indipendentemente dall’adesione degli Stati della comunità internazionale alla Convenzione in questione).

Dopo Ginevra

Dal momento in cui, a più di sessant’anni dalla firma della Convenzione di Ginevra, oggi le condizioni e le vicende che ruotano attorno a questi temi paiono notevolmente più complesse a causa degli enormi spostamenti di masse di persone succedutisi nel corso degli anni, in particolare verso le zone economicamente più benestanti, le condizioni di operatività di detta Convenzione sono state ritenute sempre più anguste: di qui il succedersi e l’evoluzione della legislazione in ambito soprattutto comunitario, sulla quale è stato costruito, a partire dalla fine degli anni Novanta, il cosiddetto Sistema europeo comune di asilo (CEAS) volto all’ampliamento dell’ambito soggettivo di copertura della protezione (sarà una direttiva europea ad affiancare al riconoscimento dello status di rifugiato la citata “protezione sussidiaria”), agevolazione all’accesso alla procedura di asilo, celerità delle procedure e adeguatezza delle condizioni d’accoglienza all’interno dell’Unione Europea.

Risulta, quindi, evidente come attorno alla tematica dell’asilo vi sia stata una complessa “sovrapposizione” di normative inserite in fonti diverse di natura internazionale, comunitaria e nazionale, le cui ratio non sempre risultano coincidenti; dunque, allo scopo di illustrare la natura dell’istituto della protezione internazionale e delineare “lo stato dell’arte” della legislazione in tale materia, nonché comprenderne le dinamiche evolutive che hanno condotto progressivamente alla costruzione di tale regime comunitario unificato e dei suoi limiti, risulterà opportuno indagare i passaggi fondamentali all’interno dei diversi livelli giuridici, da quello internazionale a quello statale, attraverso l’ambito del diritto comunitario.

(continua sul prossimo numero)

Note

[1] Edizione elettronica liberamente disponibile del Progetto Iperteca, Napoli.

[2] Come su altri e numerosi aspetti contenuti nella Costituzione italiana, anche la formulazione della natura e portata del diritto di asilo fu oggetto di scontro e compromesso da parte delle diverse componenti politico-ideologiche che parteciparono alla Costituente. Se pareva pacifica l’esistenza di un consenso di fondo sulla mera necessità di prevedere il diritto di asilo, posizioni differenti si scontrarono sul come delinearlo concretamente. Mentre la linea che poi avrebbe prevalso (quella più centrista, che univa tanto le posizioni dei cattolici quanto quelle laico-democratiche) era per prevedere una formula più ampia e indiscriminata possibile – ossia l’idea che lo straniero richiedente asilo in Italia avrebbe dovuto trovarsi nel proprio paese in una qualsivoglia condizione di impedimento nell’esercizio delle libertà costituzionali – gli schieramenti più estremisti premevano, con opposte preoccupazioni di carattere politico, per introdurre una valutazione effettiva dell’operato del richiedente asilo nel proprio paese: le destre, col fine di evitare di garantire asilo in Italia a qualsiasi “delinquente comune straniero”, il blocco comunista, invece, con la preoccupazione ben più seria di introdurre una pregiudiziale antifascista volta a non garantire asilo ad oppositori politici di fede fascista in altri paesi.

[3] Su questo punto, peraltro, vi è una duplicità di opinioni nel rilievo da dare all’agent of persecution, a seconda che si aderisca alla protection theory, che ritiene irrilevante la provenienza statale o meno della persecuzione, oppure all’accountability theory per la quale, invece, vi è una necessità della derivazione statale della persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.

Leila Cienfuegos

24/02/2018 www.lacittafutura.it

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