Vita e potere del malessere

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L’ESSERE della MEDICINA E il POTERE del MALESSERE

«Un cavaliere, racconta Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, era avvezzo, al termine dei banchetti, a invitare gli ospiti a sottoporsi a quello che oggigiorno si chiamerebbe un test predittivo: la prova consisteva nel vuotare un gran bicchiere colmo di vino senza distogliere la bocca dal calice.
Se qualcuno si sbrodolava, ciò significava che la sua donna lo cornificava.
Stranamente, dice l’Ariosto, i commensali, forse già ben avvinazzati, con gioia facevano a gara nel sottoporsi a tale prova.
Molti si sbrodolavano e allora il loro animo da gioioso si mutava in tetro ed ansioso.
Rinaldo ha già il calice in mano e sta per accettare la prova, ma ci ripensa e decide di non farla, dicendo:
“Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse.
Mia donna è donna, et ogni donna è molle:lasciàn star mia credenza come stasse.
Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova:che poss’io megliorar per farne prova?
» (3)

INTRODUZIONE

Già all’atto della sua costituzione nel 1948, l’OMS delineò l’obiettivo che intendeva perseguire e cioè “il
raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute”, definita come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”.
Nel contesto storico in cui si costituiva l’OMS, l’annunciato obiettivo rappresentava un importante cambio di paradigma: si tentava di superare la logica dell’approccio bio-medico alla salute che, conseguente alla potente influenza delle osservazioni microscopiche e delle scoperte degli agenti biologici avvenute sul finire dell’Ottocento, pretendeva di avere risolto una volta per tutte il rapporto tra la normalità e la patologia, tra la causa e l’effetto, tra la salute e la malattia.
L’OMS affermava ora il modello olistico, quello bio-psico-sociale, che riconduce la salute ad una molteplicità di fattori biologici, psicologici, sociali e relazionali, i quali interagiscono reciprocamente e progressivamente, poi evolvendo in una graduazione di effetti.
Tale obiettivo fu successivamente ribadito e inserito nella dichiarazione di Alma Ata del 1978.

Questa scelta ha avuto per qualche tempo effetti positivi. In particolare, certi fenomeni mentali e sociali,
prima trascurati, se non addirittura ignorati, venivano ripresi, seppure per essere quasi esclusivamente collegati al tema della sanità.
Ma successivamente, nella pratica e nella analisi dei risultati, ha rivelato tutte le sue criticità.

«Identificando la salute con il benessere, e confondendo perciò i malesseri mentali e sociali con le malattie, la definizione dell’OMS, ha ampliato a dismisura la sfera dei compiti della medicina, con il rischio di trasformare ogni segnale di conflitto e ogni distorsione nei rapporti tra gli uomini, in occasione o pretesto per cure mediche che, talvolta imposte con la forza, possono essere utili, ma talora sono inefficaci, se non addirittura dannose». (1)

IL BENESSERE

Stando alla definizione del Vocabolario Treccani, il benessere si può declinare in tre significati principali

  1. Stato felice di salute, di forze fisiche e morali: questo è il significato medico, utilizzato nella definizione dell’OMS.
  2. Condizione prospera di fortuna, agiatezza: questa è una accezione eminentemente economica.
    Nell’economia moderna, il benessere economico è lo stato di agiatezza collettiva ottenuto attraverso una larga disponibilità dei beni di consumo e un’equa distribuzione della moneta.
  3. Sensazione soggettiva di vita materiale piacevole: negli ambienti chiusi e confinati si determinano le condizioni di benessere termico quando i fattori microclimatici (temperatura, umidità e velocità dell’aria) si trovano nel giusto equilibrio e le persone che vi soggiornano si trovano a loro agio, senza avvertire sensazioni spiacevoli di caldo o di freddo.

Curioso, e interessante, che nella definizione enciclopedica di benessere sia compreso un chiaro riferimento allo stato economico e ambientale, entrambi determinanti della salute. Questo induce a pensare che il termine impiegato dall’OMS è quello giusto, seppure può prestarsi ad una erronea interpretazione che assegna all’economia il significato di un fine, laddove deve rimanere un mezzo per raggiungere la salute.
Sotto questo punto di vista, il parlare di benessere ‘completo’ può fuorviarne il senso ancora di più, prima di tutto perché esclude dalle persone in salute chiunque abbia limitazioni, deficienze o anomalie.

Inoltre, il requisito del “completo benessere” si è rivelato irraggiungibile in una società come la nostra che, in conseguenza dell’espansione anagrafica, che in Occidente ha superato quella demografica, presenta un indice di invecchiamento oltremodo elevato. Si è arrivati al punto che la maggior parte delle persone, per la maggior parte del tempo della vita, risultano malate e, quindi, idonei solo come clienti di uno sterminato mercato sanitario che sembra più rivolto a contrastarne la morte piuttosto che promuoverne la vita in buona salute, trascinando la medicina nella vana e, talvolta disperata, ricerca di soluzioni tecnologiche o farmacologiche alla finitezza della vita e alla ineludibilità della sofferenza e della perdita.
Anziani, cronici, inguaribili, disabili e dializzati, nel momento stesso in cui vengono definiti ammalati, vengono individuati come soggetti portatori di un carico di “benessere residuo”, qualcosa da maneggiare con attenzione, per conservarlo alla utilità del mercato della salute.

La MEDICALIZZAZIONE della VITA

E’ opinione diffusa che è stato proprio il progetto di garantire un “completo benessere” a innescare la medicalizzazione della vita, un malessere profondo causato proprio dalla colonizzazione sanitaria dell’intero arco della vita, alla forsennata ricerca del benessere.
La medicina, anziché dedicarsi ai sofferenti e agli ammalati cronici, richiedenti scarsa diagnosi e terapia a fronte di un impegno ed un sacrificio assistenziale maggiore, preferisce oggi impegnarsi soprattutto ad
incoraggiare le persone sane sia a sottoporsi a tutta una serie di esami diagnostici preventivi per rassicurarle di non essere “ammalate” sia ad assumere farmaci per qualsiasi disturbo o fastidio.
In tal modo la medicina si mette in linea con gli interessi della tecnologia diagnostica, dell’industria del farmaco e delle corporazioni professionali, coalizzandosi in quel complesso medico-industriale perennemente impegnato a ridefinire le malattie, a restringere i limiti della normalità biologica, a individuare metodiche di screening sempre più raffinate e costose, persino capaci di rilevare artefatti “in situ” o lesioni “inconsistenti”, cioè a livelli che mai potrebbero provocare malattie, addirittura a prevedere la predisposizione a malattie per le quali non sono disponibili trattamenti specifici.
Creando un vero e proprio apparato diagnostico cui nulla sfugge, che indaga, individua e classifica ogni condizione che non è compresa nei limiti stabiliti, non importa se è accompagnata o meno da manifestazioni cliniche, da segnali di danno potenziale. Così si produce il fenomeno della “sovradiagnosi”, un procurato aumento della prevalenza di tutte le malattie.

Questo fenomeno si aggiunge al “disease mongering” (o “mercificazione delle malattie”), la nuova frontiera del marketing farmaceutico, la tendenza a inventare altre malattie anziché produrre nuovi farmaci per curarle e a correggere ‘condizioni’ spesso fisiologiche, talvolta solo sintomatiche, che da sole non rappresentano problemi di salute ma, talvolta, sono normali reazioni di difesa dell’organismo.
All’apparato diagnostico si aggiunge un altrettanto pervasivo e insistente apparato terapeutico e così, nella società in cui tutti sono, almeno potenziali, malati, ad ognuno viene prescritto un trattamento specifico, ognuno ha la sua medicina, ognuno può dedicarsi al suo personale rito salvifico, alle dosi e negli orari stabiliti dalla prescrizione medica.
Il tutto in attesa di celebrare la promessa, quasi sempre fittizia, guarigione come una vittoria contro la temibile, oltre che inesistente, malattia; una misera sceneggiatura per una storia da raccontare agli amici, comica parodia di un duello con un gigante, in cui la potente arma vincente è stata usata contro il proprio corpo e la propria integrità, incoscientemente immettendola nell’organismo.

Queste guarigioni, quasi sempre immaginarie, conseguenti a diagnosi poste invece con ostentata certezza, sono poi diventate la base numerica, o campionaria, per dimostrare l’efficacia della terapia, in un ciclo perverso che è autoreferenziale, seppure si pretende scientifico, in ogni sua fase.
A questo si aggiunge il carosello di continue promesse, di sensazionali scoperte, di miracolose prospettive, puntualmente annunciate sempre più dall’apparato industriale invece che dagli istituti di ricerca scientifica, discusse sulla stampa generalista prima che sulle riviste mediche specializzate, illustrate dai promotori farmaceutici invece che nelle aule universitarie e nei congressi, infine invocate e richieste direttamente dagli ammalati e dai loro esasperati familiari, anziché preventivamente valutate dai medici curanti, in un ingranaggio pubblicitario impeccabile e pervasivo che reclamizza qualcosa da provare sulla propria pelle, prima ancora che da sperimentare con le regole e le cautele della ricerca scientifica.

La medicalizzazione della vita ha anche introdotto l’abitudine a misurare la salute e la qualità dei sistemi sanitari come quantità di anni da vivere o anche solo da riscattare alla previdenza o da assicurare, un parametro del tutto simile a quelli economici, più adeguato a misurare il residuo impiego produttivo e le prospettive consumistiche della persona, piuttosto che i benefici in termini di benessere.

La medicalizzazione della vita ha anche finito con il sottrarre alcune problematiche, soprattutto mentali e sociali, ad altri possibili e più appropriati ed efficaci interventi, ad altre competenze, ad altre responsabilità, per consegnarli ad un approccio limitato alla classificazione diagnostica, all’inquadramento terapeutico e alla liquidazione notulare e politica.
Così, tutte le azioni puntate sul benessere degli individui, in un incessante processo di produzione e di consumo di prestazioni sanitarie, in un interminabile elenco di controlli preventivi, di rinnovi immunitari e di pratiche salutari, in una manutenzione tecnica infinita, senza pause, ha, oltretutto, gravato anche sull’organizzazione del sistema sanitario, rendendolo economicamente insostenibile e fuori controllo.
«Eppure, con il passare del tempo, è emerso che ogni intervento produce un danno oltre che un beneficio e, in un numero crescente di situazioni, i danni cominciano a pesare più dei benefici».(4)

Tutto questo potrebbe rappresentare la certificazione di un fallimento del sistema sanitario, che ha portato alla diminuzione, anziché all’aumento proporzionale di persone in condizione di “completo benessere”.
Ma anche all’ansia sociale e allo stress continuo che, nel mentre distrae i cittadini dalle responsabilità affettive, sociali e civili e li richiama al rispetto di scadenze e appuntamenti sanitari, precipita il sistema sanitario in crisi economica ed organizzativa e gli operatori in crisi etica e professionale.
Ma, soprattutto, fornisce la prova dell’inadeguatezza del modello economico e sociale che ancora persegue l’aumento di produzione e di consumo di beni e servizi, pur in presenza di una evidente diminuzione di lavoratori e di consumatori idonei.

Fortunatamente, a fronte del panorama di connivenze e complicità tese a diffondere pratiche mediche più redditizie per le tasche di imprenditori e professionisti senza scrupoli che utili alla salute delle persone, esistono associazioni di medici, di operatori sanitari e di cittadini che ancora conservano il senso etico della professione e contrastano la medicalizzazione della vita. Il problema è che non hanno adeguato spazio sui
media, a loro volta attratti dalla traboccante mangiatoia del profitto industriale. Tra queste associazioni, un riferimento attivo e importante è Slow Medicine, che si propone di «applicare all’interno della comunità umana, nell’interazione tra i cittadini, i loro rappresentanti democraticamente eletti, i medici e personale sanitario ed i managers delle organizzazioni sanitarie, il meglio delle conoscenze scientifiche e delle capacità relazionali per organizzare, con il massimo della sostenibilità ecologica e il minimo degli sprechi, attività sanitarie e socio-assistenziali progettate in maniera adeguata e pertinente con i bisogni dei singoli e della popolazione, efficaci dal punto di vista dei risultati attesi, accessibili da chi ne ha bisogno a seconda del loro livello di urgenza e complessità, compatibili con le risorse disponibili, soddisfacenti per i risultati ottenuti e gratificanti per quanti vi partecipano e vi accedono» (2)

PROSPETTIVE di modifica della definizione di salute
E’ molto sentita l’esigenza di cambiare la definizione di salute dell’OMS, per adeguarla all’attuale contesto.
Ci si aspetterebbe quindi una apertura verso un progetto di salute che coinvolga in maniera più incisiva,
assieme alle persone e alle comunità, il sistema politico e sociale.
Si parla ora di salute come «capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive» (5) …, un obiettivo che vanta dinamismo rispetto alla staticità della definizione corrente ma che
appare passivo, sembrando contenere la rinuncia a modificare la situazione attuale; un obiettivo che sembra più orientato ad affrontare il peggio che a modificare in meglio.
“Adattamento”, come “benessere”, è un termine che può prestarsi ad equivoco, se non ben chiarito e declinato.

A tal proposito, fu molto preciso Ivan Illich che lo seppe confezionare sull’uomo in quanto essere sociale che è sottoposto alle leggi della natura: «La salute designa un processo di adattamento. Non è frutto dell’istinto ma il risultato di una reazione autonoma, e tuttavia plasmata dalla cultura, alla realtà creata socialmente.
Esprime la capacità di adattarsi alle modifiche dell’ambiente, di crescere e di invecchiare, di guarire
quando si subisce un danno, di soffrire, e di attendere serenamente la morte. La salute abbraccia anche il futuro, e perciò comprende l’angoscia e le risorse interiori per vivere con essa». (6)

Ci sarebbe da osservare che, nel pronunciare questa definizione, Illich metteva anche in guardia dal danno contro produttivo, culturale e antropologico che, tipico del sistema mutualistico burocratico, classista e assistenziale dell’epoca, si realizza quando un uso eccessivo, un ricorso compulsivo e pressante ad una istituzione, quella sanitaria in questo caso … «conduce alla distruzione, provocata dal regime industriale, delle condizioni ambientali, sociali e psicologiche che sono necessarie per lo sviluppo dei valori d’uso non industriali e non professionali. La contro produttività è il risultato di una paralisi delle capacità autonome, indotta dal modo di vita industriale». (6)

Combinando le due citazioni e tentando di meglio comprendere e contestualizzare l’intero ragionamento,
pare che Illich ammetta che le capacità di adattamento individuale rappresentano l’espressione più concreta della salute, quando non sono inibite o compromesse dalla distruzione delle condizioni ambientali, sociali e psicologiche.
Nel contesto in cui si è sviluppato il suo pensiero, più che mai si è sentita la necessità di garantire un servizio sanitario universalistico, pubblico e gratuito, che, attraverso la prevenzione delle malattie, la partecipazione dei cittadini e la programmazione degli interventi, avrebbe dovuto conservare e sostenere le capacità di adattamento delle persone e delle comunità.
Oggi abbiamo gli strumenti per provare a completarlo questo ragionamento; forse è il caso, quindi, di sviluppare anche nel servizio sanitario nazionale questa capacità di adattarsi ai cambiamenti e di reagire alla distruzione delle condizioni ambientali, sociali e psicologiche necessarie alla vita dell’uomo; gli strumenti normativi, patrimonio di quel contesto, ci sono.

E di stare attenti a non fare invece passare il messaggio fuorviante che l’uomo, ma anche il sistema sanitario, per essere in salute, devono adattarsi al percorso preso dall’economia …, un principio questo che è l’opposto della ergonomia, scienza che si propone di adattare l’ambiente di vita e di lavoro e, in questo caso, le strategie economiche all’uomo e non viceversa.
Laddove potrebbe essere ancora più utile integrare lo stato di salute con lo sviluppo di resilienza, da parte dell’uomo e del sistema sanitario, verso il modello di benessere neoliberista, così seguendo il percorso tracciato da Giulio A. Maccacaro quando individuava nella soggettività delle persone lo strumento per … «una ridefinizione del benessere/malessere non più come conformità-difformità a modelli espressi ed imposti dalla logica della produzione per il profitto, ma come vissuto individuale e di gruppo del rapporto con le condizioni di lavoro e di vita» (7)

Così, cercando il “completo benessere” passiamo …

Di MALESSERE in MALESSERE

Certo, a quasi 80 anni di distanza dalla costituzione dell’OMS, nella società che si è nel frattempo sviluppata pare di vedere più evidente il malessere che il benessere delle persone.
Anzi, mentre l’accezione economica del benessere si afferma e si vincola sempre più al modo di sviluppo neoliberista, suggerendo uno stato di salute raggiungibile solo con il possesso e il consumo di anni di vita, di beni, di servizi, di influenze e di risorse reddituali, in ampi strati della popolazione, per effetto della crescente disuguaglianza e ingiustizia sociale, monta il malessere fisico, mentale e sociale …
Inevitabilmente, all’equiparazione della salute al “completo benessere” sempre più corrisponde l’equiparazione del malessere fisico, mentale e sociale alla malattia.

Bibliografia
(1) G. Berlinguer: “Storia della salute” – Giunti 2011
(2) G. Bert, A. Gardini, S. Quadrino: “Slow Medicine” – Sperling & Kupfer 2013
(3) G. Domenighetti: “A proposito di screening: per orientarci tra evidenze, cultura, salute pubblica, scelte personali” –
Informazione sui farmaci, numero 4 del 2014
(4) I. Heath: “Contro il mercato della salute” – Bollati Boringhieri 2016
(5) M. Huber et al.: “How should we define health?” – BMJ 2011; 343: d4163
(6) I. Illich: “Nemesi medica” – Mondadori 1976
(7) G. A. Maccacaro: “Per una medicina da rinnovare” – Collana Medicina e Potere – Feltrinelli 1979

Stanislao Loria

Medico del lavoro
Napoli 25/11/2022

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