Viviamo in uno Stato ipotecato dalla Chiesa

Le battaglie culturali che portiamo avanti come Uaar da ormai trent’anni sono per un’Italia più consapevole e più aperta, certo, ma anche meglio attrezzata per difendersi da certe letture reazionarie che concepiscono la partita dei diritti come un gioco a somma zero: ciò che tolgo ai disoccupati lo do agli omosessuali. Non è così. La nostra è certamente un prospettiva di lotta di amplissimo respiro, che fa della laicità un principio cardine: per l’inclusione e il riconoscimento di diritti intangibili, ma anche perché questi siano realmente esigibili, sostanziali, e non subordinati ad appartenenze di ceto». Uscito vincitore dall’undicesimo congresso, da un anno e mezzo Stefano Incani è il segretario della Unione atei e agnostici razionalisti. Lo abbiamo incontrato per ragionare insieme su due parole chiave per una “sinistra” ideale: laicità e ateismo.

La modernizzazione dell’Italia, l’evoluzione della società sia in termini culturali che di equità sociale, può prescindere dalla laicità dello Stato?

Assolutamente no. Sono inseparabili. Faccio un semplice esempio. Questioni come la mancanza di una legge sul fine vita o di una normativa organica sui diritti riproduttivi sono considerate afferire in primo luogo ai diritti civili individuali e sono considerate tra le principali battaglie laiche da combattere. E fin qui non ci piove. Eppure allo stesso tempo sono fondamentali battaglie di eguaglianza: sia sul piano evidente della lotta alle discriminazioni, sia sul piano economico. Per rimanere sugli esempi di cui prima, chi ha mezzi economici adeguati può recarsi in Svizzera per ottenere una morte dignitosa, o in Spagna per accedere a pratiche di inseminazione artificiale. Chi non ne dispone, no. Ecco, per me non possiamo permetterci di separare, neppure solo sul piano teorico, le questioni dell’avanzamento culturale e civile, dell’equità sociale e della laicità. Dovrebbe essere scontato, ma così non è.

Dando un’occhiata ad alcuni dati significativi che emergono anche da inchieste della Uaar, emerge uno scollamento tra il Paese reale e le istituzioni. Nel senso che i cittadini pensano e vivono in maniera molto più laica di quanto vorrebbe quel Palazzo che per es. apre le scuole pubbliche all’ora di religione e ricopre di denaro la Chiesa.

Questa è, si può dire, una specificità italiana. La sinistra europea ha completamente abbandonato ogni riferimento al mondo del lavoro. In questo ambito, riforme feroci sono state portate avanti in Germania dai socialdemocratici, mentre in Francia la Loi Travail è “merito” dei socialisti. Ma questi Paesi, se non altro, hanno visto un avanzamento sul fronte dei diritti civili (il che non risarcisce alcunché, sia chiaro): in Germania addirittura è stata approvata quest’anno la legge che sancisce il diritto a matrimonio ed adozione congiunta per coppie dello stesso sesso (con un governo di centro-destra al potere). In Italia ci siamo dovuti accontentare di una legge mutilata, gravata da un grottesco dibattito sulla stepchild adoption, totalmente irriguardoso nei confronti dei bambini che sosteneva di voler tutelare. Che su tutto questo gravi l’ipoteca ecclesiastica è innegabile.

C’è chi si dice di sinistra e al tempo stesso acclama come (presunto) innovatore papa Francesco.

Non si può nascondere che, in un sistema politico da sempre ossequioso nei confronti del clero, l’irruzione di un personaggio “pop” come Bergoglio abbia dato nuovo fiato alle trombe del confessionalismo più retrivo. La Curia romana è riuscita a costruire un personaggio pubblico estremamente popolare, come avvenne per Giovanni Paolo II: in ambo i casi ciò è servito a travestire di modernismo riformista le inscalfibili pulsioni misogine, sessuofobe e reazionarie del Vaticano.

Dopo la morte di Stefano Rodotà chi ci rimane?

La morte del professor Rodotà ci ha addolorato enormemente, e ci ha privato di un intelletto lucidissimo. Ma è sintomatico che egli fosse rimasto sostanzialmente da solo a rappresentare un fronte laico che in Italia si regge sulla volontà e sulle quotidiane pratiche di libertà di tanti cittadini, persino di molti cattolici non più disposti ad appaltare la propria esistenza a dogmi insensati e pratiche non di rado inumane (basti pensare all’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI largamente disattesa dai fedeli). Per questo, la Uaar oltre ad impegnarsi nella tutela dei diritti di atei e agnostici e nella valorizzazione sociale e culturale delle concezioni del mondo non religiose, lotta perché a tutti i laici sia data dai mezzi di comunicazione visibilità, e dalla politica ascolto e rappresentanza, come le statistiche dimostrano siano loro diritto. L’Uaar fa di tutte queste cause, senza incertezze, la sua ragione fondante. A iniziare dalla corretta applicazione della Legge 194, disattesa in alcune sue parti da quarant’anni.

Si può fare a meno della laicità in società multietnica (nonostante la caccia all’immigrato aperta dal Pd e dalle destre, e l’affossamento dello Ius soli)?

Il fatto che la nostra società si confronti con sempre più numerose comunità di immigrati è un dato del massimo rilievo, problematico e complesso come tutti i fatti sociali. Ma questo non fa che rendere più urgenti delle soluzioni politiche laiche a problemi che però sono preesistenti ai flussi migratori e al dibattito sullo ius soli. La laicità, cioè il principio di neutralità dello Stato in fatto di religione, è una garanzia costituzionale che deve essere data a tutti, italiani o no. Perché le leggi dello Stato valgono per una società nel suo insieme, non solo per le singole comunità che la abitano. E non ha a che fare solo con la possibilità di costruire una moschea (e noi, atei e agnostici, riconosciamo che quello ad avere un luogo per pregare è un diritto fondamentale), ma con la libertà di decidere della propria salute, dell’educazione dei propri figli, della propria vita affettiva senza gravami confessionali.

Come mai la Uaar ha sentito l’esigenza di festeggiare il suo trentennale?

Perché trent’anni sono un traguardo importante e noi abbiamo pensato potesse essere una bella occasione per incontrare le persone, scegliendo di festeggiarli dentro uno spazio di interazione con la cittadinanza. L’Uaar esiste anzitutto per questo: generare dibattito e confronto, aprire a nuove riflessioni, costruire coscienza politica. Però, ci tengo a sottolinearlo, è una festa che paradossalmente non avremmo voluto celebrare: perché noi, in un Paese normale, non dovremmo esistere.

Federico Tulli

6/10/2017 https://left.it

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