Volete la Flat tax? Addio al Servizio sanitario nazionale

Due «voci dal sen fuggite» aiutano a inquadrare con rara efficacia gli effetti – devastanti – che l’introduzione di una qualsiasi forma di Flat tax avrebbe sul Servizio sanitario nazionale (tralasciando come sia possibile conciliare una tassa per definizione «piatta» con il principio costituzionale della progressività delle imposte).

Sarebbe un colpo ferale al già martoriato Sistema sanitario minato da una controriforma – formalizzata dai nuovi Livelli essenziali di assistenza (LEA) del governo Gentiloni – che ha spostato i malati cronici non autosufficienti in un settore “a parte” rispetto a quello sanitario, caratterizzato dall’obbligo di compartecipazione degli utenti al costo delle prestazioni (fino a oltre il 50% del totale), e impoverito da un decennio di deliberato e brutale sottofinanziamento. Non solo in termini assoluti, ma anche in confronto alle altre nazioni europee che finanziano l’assistenza sanitaria pubblica con somme, in relazione al PIL, maggiori di quella italiana (il rapporto 2018 della Fondazione Gimbe chiarisce che «la percentuale del PIL destinato alla spesa sanitaria totale è poco sotto alla media OCSE – 8,9% vs 9% –, ma in Europa siamo fanalino di coda insieme al Portogallo tra i Paesi dell’Europa occidentale, dove Svizzera, Germania, Svezia, Francia, Olanda, Norvegia, Belgio, Austria, Danimarca, Regno Unito, Finlandia e Spagna destinano alla sanità una percentuale del PIL superiore alla nostra»).

Prima voce: il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, leader della Lega, promotrice di una versione di Flat tax con aliquota IRPEF del 15% sui redditi sotto i 50mila euro, nella recente (8 giugno 2019) intervista televisiva al programma «Otto e mezzo» ha così risposto al giornalista Massimo Franco che chiedeva lumi sulle garanzie economiche per il rispetto dei parametri europei sul debito pubblico: «Noi non chiediamo i soldi degli altri. I soldi gli italiani ce li hanno nei conti correnti e nelle proprietà immobiliari». Risposta preoccupante se agganciata alla successiva, spontanea domanda: per cosa dovranno impiegarli, dunque, questi risparmi? Per pagarsi quei servizi che non sarebbero più garantiti dallo Stato, le cui entrate con l’introduzione della Flat tax diminuirebbero per legge (è infatti da irresponsabili scommettere sull’aumento delle entrate stesse, perché gli evasori che non pagano il 23, il 27 o il 38 per cento di aliquota IRPEF, non si precipiterebbero a pagare nemmeno se questa scendesse al 15 per cento). Facile prevedere che sarebbe sul fronte dei servizi essenziali che si giocherebbe la partita più dura e che gli italiani dovrebbero, ancor più di quanto fanno ora, erodere quanto accantonato per pagare le prestazioni fondamentali, addirittura salvavita.

Prospettiva troppo fosca? L’altra voce «dal sen fuggita» aiuta a completare il quadro. Il 28 febbraio 2018 – si era all’alba delle elezioni politiche che hanno portato all’attuale maggioranza di Governo – nella trasmissione «Coffe Break» di La7 Stefano Parisi, già direttore generale di Confindustria e candidato per la coalizione di centrodestra alla guida della Regione Lazio, spiegava candidamente: «La Flat tax funziona così. Ai redditi più alti cui si abbassa l’aliquota non si garantisce più la sanità gratuitamente, quindi affluiranno al finanziamento del Sistema sanitario sistemi assicurativi e mutualistici». Alle reazioni di Giulio Santagata e Anna Falcone («Si realizzerà una sanità di serie A per i ricchi e una di serie B per i poveri»), Parisi replicava: «È già così, è già così, nel Lazio un povero non si può curare». Il dato di fatto va giustificato, non condizionato dalla norma. L’ingiustizia e la negazione del diritto fondamentale alla cura vanno istituzionalizzate, non combattute.

Vi è poi da intendersi sulla locuzione «redditi più alti ai quali si abbassa l’aliquota» che indicherebbe i cosiddetti «ricchi». Secondo i dati del Ministro dell’economia e delle finanze il reddito medio italiano dichiarato al Fisco è stato nel 2018 di 20.940 euro, valore su cui oggi si paga un’aliquota IRPEF del 23% sui primi 15mila euro e del 27% sulla parte eccedente. Nell’ipotesi Flat tax al 15%, quindi, tutti i contribuenti medi avrebbero una riduzione dell’aliquota. Sarebbero per questo – nel ragionamento esposto dai sostenitori di tale impostazione – da considerare «ricchi», e quindi obbligati a pagarsi il Servizio sanitario nazionale direttamente o tramite assicurazioni? Purtroppo pare di sì.

Un economista di stampo liberale come Giovanni Zanetti – già ordinario di Economia politica nell’Università di Torino e sottosegretario di Stato al Ministero dell’Industria nel Governo Dini (1995-96) – si è espresso in modo critico e preoccupato sull’eventualità della Flat tax. «Mentre si ottimizzerebbe – queste le parole di Zanetti in un suo articolo sul settimanale torinese La Voce e Il Tempo – un nuovo apparato fiscale, con una transizione dal vecchio non prevedibile con certezza nell’entità delle entrate, le spese connesse alle esigenze della scuola, all’ottimizzazione del funzionamento della burocrazia, alle risposte attese dal sistema sanitario in termini di medici, infermieri e impianti ospedalieri non si fermeranno di certo». In definitiva, «s’aprono fabbisogni di finanza pubblica che nell’ipotesi di evitare il ricorso all’indebitamento possono aprire spazi all’iniziativa dell’imprenditoria privata (sanità, insegnamento ecc.) e al ricorso a scelte assicurative. Ne deriverebbero spese per la collettività che assorbirebbero buona parte di quella ricchezza lasciata dall’abbassamento dell’onere fiscale. Quanto verrebbe dato dal minor prelievo da parte dell’organizzazione pubblica, verrebbe cioè riassorbito dai mille canali di una nuova organizzazione di stampo privatistico».

Andrea Ciattaglia

19/6/2019 https://volerelaluna.it

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