VOLONTARIATO E MILITANZA POLITICA

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Perché interrogarsi oggi sul fenomeno sociale del volontariato e su quello della militanza politica? Perché potremmo scoprire che la questione, per coloro che sono socialmente sensibili all’umana condizione, è molto più coinvolgente di quanto ci possa apparire di primo acchito. E perché può rivelarsi utile per capire di uno e dell’altro la natura, le caratteristiche e i limiti, magari a partire dai tratti in comune che le due forme di attivismo sociale presentano, anche ben al di là della loro superficie.

Se ci si pone il problema di quale sia la causa dei diversi bisogni che muove tanto il volontariato quanto la militanza politica si troverà sempre e solo la medesima radice: l’organizzazione capitalistica della società. E, cioè, una società che distribuisce redditi e ricchezze in maniera diseguale. Le fasce sociali meno agiate sono pertanto esposte al costante rischio di non poter soddisfare i propri bisogni, tanto di ordine primario (materiali, vitali) quanto secondario (immateriali).

L’esistenza dei bisogni primari insoddisfatti quali cibo, abitazione, vestiario, salute, tutela dei diritti è alla base della nascita delle moderne organizzazioni di volontariato quanto delle più storiche forme di assistenzialismo privato (alcuni ordini religiosi, confraternite, società di mutuo soccorso, ecc.). Da sempre le diverse forme di volontariato hanno la doppia origine di religiosa o laica. Benché da un punto di vista storico l’assistenza a carattere religioso abbia come scopo ultimo la diffusione e il radicamento della fede, ciò oggi rappresenta generalmente un carattere decisamente meno marcato e tende a confondersi nelle modalità al volontariato di stampo laico. Tuttavia, non è difficile rintracciare una ulteriore notevole diversità di impostazione dell’azione di volontariato sociale volta ai bisogni primari: il carattere “caritatevole” o quello “solidale”.

Questa diversità, ad oggi, pare essere ben più preminente che non la radice religiosa o laica. Mentre nel primo caso, generalmente, si ha un approccio limitato al solo momento della distribuzione del bene o del servizio all’utenza, nel secondo questo gesto tende ad essere permeato da una volontà di costruzione di rapporto interpersonale tra il volontario e l’assistito, spesso per risolvere bisogni immediati di quest’ultimo anche diversi da quelli tipici dell’associazione di cui il volontario fa parte (ad esempio: nella distribuzione di pasti può capitare che vengano trovate anche soluzioni relative all’abbigliamento, all’ospitalità o altri bisogni ancora). Il tentativo è quello di costruire un rapporto “sociale” che alleggerisca almeno parzialmente la marginalità di cui l’assistito è vittima. Nei casi, poi, di volontariato per la tutela dei diritti, l’approccio “solidale” è del tutto pervasivo, invadendo spesso una terza modalità di approccio: quella “mutualistica”, di cui si parlerà in altra parte.
In quanto sopra esposto è chiaro che si tratti sempre e solo di affrontare un bisogno immediato attraverso una soddisfazione che ha carattere esclusivamente contingente. La causa che genera il bisogno nel soggetto utente non entra ad alcun titolo nei rapporti che si instaurano tra volontario e utente. In altri termini, il bisogno permane nella sua continuità e non può essere risolto definitivamente ma solo e sempre affrontato nella sua quotidiana contingenza che si perpetua inevitabilmente.

La trasformazione della composizione della nostra società, a seguito delle ripetute e costanti trasformazioni dei modi di produzione si sono generati due principali fenomeni: il progressivo impoverimento delle classi meno agiate e il sempre più evidente isolamento degli individui. Tutto questo ha incrementato in modo considerevole i bisogni materiali insoddisfatti e insoddisfacibili. Le cosiddette “crisi” che, dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso ad oggi, si sono succedute e ogni volta, hanno aggravato le condizioni di vita di milioni di persone. Ciò ha reso sempre più indispensabili le diverse azioni di volontariato sociale nel tentativo di lenire i bisogni primari che emergono sempre più prepotenti e diffusi. Questa indispensabilità è divenuta più evidente anche per un altro fattore nel frattempo sceso in campo: la contrazione sempre più accentuata del welfare state o “stato sociale”. I tagli costanti, anno dopo anno alla spesa sociale, agli investimenti pubblici, alla sanità hanno reso progressivamente più evidente e chiaro il carattere di supplenza sociale che il volontariato di fatto svolge ed è chiamato a continuare svolgere. Il volontariato, dunque, mentre svolge un ruolo di utilità sociale sempre maggiore, di fatto, si sostituisce ai doveri dello Stato nella soluzione dei bisogni. Il concetto di supplenza indica la natura distorsiva che il fenomeno del volontariato è andato assumendo. Del tutto al di là delle intenzioni dei singoli volontari, essi sono chiamati con il loro lavoro non retribuito ad assolvere precisi doveri dello Stato ma ciò avviene con la casualità e discrezionalità caratteristiche delle azioni non centralizzate e non pianificate ma, soprattutto, l’azione volontaria rappresenta solo una parziale risposta ai bisogni. Il volontario diventa così l’erogatore discrezionale di un surrogato al diritto negato.

Dove il movimento solidaristico, attraverso l’azione di volontariato si attrezza di mutualismo, fino alla forma cooperativa, mentre rende un servizio più complesso, allo stesso tempo contribuisce alla privatizzazione della soddisfazione dei bisogni e dei diritti. Le pur lodevoli forme cooperative che sono state intraprese, spesso in situazione emergenziale, hanno sostituito con la forma privata un mancato dovere dello Stato. Va da sé che di conseguenza, con l’obbligo di accumulazione e di investimento tipici delle forme di produzione capitalista, l’assolvimento di un diritto sociale si è trasformato in pura iniziativa privata che, mentre include pochi casuali privilegiati, esclude ogni altro soggetto avente diritto. Il pensiero dominante liberista o neoliberista che dir si voglia, vede in questo tipo di soluzione del bisogno la piena giustificazione all’egoismo umano e sociale che lo impronta: il bisognoso si dia da fare, divenga imprenditore di se stesso e risolva da sé il proprio bisogno. non c’è bisogno di evidenziare la miseria etica di un simile ragionamento.

Mentre il volontario pone a fuoco la soddisfazione immediata del bisogno per come si presenta, il militante politico mette al centro della propria attenzione la soluzione del bisogno stesso attraverso il cambiamento sociale, di modo che il bisogno non abbia ad essere generato. Apparentemente, le due diverse azioni si completano: prima il soddisfacimento immediato, poi l’eradicazione dello stato di bisogno. Purtroppo, tra le due azioni vi è uno scarto, una distanza sia temporale che spaziale che fa si che alla prima azione non si leghi la seconda e che la seconda rimanga sospesa in un limbo dato dalla possibilità reale (politica) del cambiamento sociale.

Il militante politico vede lo stato di bisogno contingente come pura materializzazione della condizione di classe, come contraddizione reale generata obbligatoriamente dal conflitto tra capitale e lavoro. Tende, pertanto, a vedere come unica soluzione possibile la risoluzione del conflitto sociale attraverso l’azione politica. Il soggetto (il portatore dello stato di bisogno) in questo disegno è del tutto passivo o visto come potenziale prossimo protagonista solo attraverso una eventuale “presa di coscienza” della propria condizione sociale, solo a questo punto il soggetto diviene attivo e si trasforma in soggetto operante la trasformazione sociale necessaria alla soluzione prossima del bisogno.

La dinamica appena illustrata è fra le cause della crisi della sinistra politica, vista troppo spesso come portatrice di idealità astratte dall’immediata contingenza, come sogni del cielo sospesi troppo al di sopra della terra dolente su cui poggia i piedi il soggetto bisognoso.
Collegare in modo conseguente l’azione del volontario con l’azione del militante politico rappresenta, come detto sopra, il completamento logico e reale che può permettere al soggetto bisognoso di passare dalla soddisfazione del bisogno immediato a farsi parte attiva della futura soluzione dello stato di bisogno attraverso l’azione politica. Perché ciò sia possibile è indispensabile che volontario e militante coincidano nella stessa persona. Solo così il soggetto portatore di bisogno materiale potrà avere a disposizione gli strumenti per comprendere pienamente le cause e le soluzioni della propria condizione.

Il ruolo del militante, contrariamente alla vulgata dominante, è oggi più indispensabile che mai alla sinistra ed, anzi, richiede una centralità sin qui negatagli da modalità della politica volte alla costruzione di leadership, di visibilità mediatica, di proposte forse giuste ma astratte (non immediatamente risolutive), dalle condizioni immediate e tristemente materiali del vero soggetto portatore del bisogno: la classe oppressa dal sistema capitalistico, intendendo qui per “classe” tanto il lavoratore (stabile o precario) quanto chi sia messo a margine dei cicli produttivi.
Il militante deve trasformarsi, arricchendosi, in militante e volontario per porsi nel rapporto tra proposta politica e soggetto della proposta quale strumento di utilità per il portatore del bisogno. E’ attraverso l’idea di utilità che il volontario acquisisce credibilità, la credibilità che dovrà trasferire al militante per permettere alla proposta politica di trovare il terreno dove crescere, fertilizzato dalla dimostrata utilità dell’azione di volontariato.

L’idea di bisogno, intesa nel suo senso più stretto, sembra non includere le problematiche legate all’ambito del lavoro. In effetti, il lavoro costituisce un settore peculiare e, soprattutto, basilare della costruzione sociale: ma lavorare costituisce, è, un bisogno, ed il lavorare genera altri bisogni (compatibilità con i diversi doveri del vivere sociale e familiare, reddito da lavoro insufficiente, ricatti sul luogo di lavoro da parte della struttura padronale, ecc.) Il militante, di conseguenza, non potrà esimersi dal confronto con il mondo del lavoro e con i lavoratori. Dovrà così acquisire dimestichezza con l’impianto sindacale, tipico del lavoro.
La militanza, così configurata, acquisisce un ambito ben più ampio di come storicamente si intenda la militanza politica. Il confronto fra militante e classe si fa così completo: dall’ambito dei bisogni sociali, ai bisogni e contraddizioni del lavoro per arrivare all’orizzonte politico delle soluzioni possibili delle contraddizioni della società capitalista.

La militanza così intesa, come disegnata sino a qui è ben diversa da come storicamente tutti noi la intendiamo. Il militante si fa riferimento completo: politico, sociale e sindacale nel suo territorio. Naturalmente, non sarà possibile che affronti questo enorme compito da solo ma dovrà sapersi giovare di una costruzione di relazioni con il mondo del volontariato e con l’ambito sindacale. E’ il concetto di utilità che informa il tutto: tanto più il militante viene avvertito come utile, tanto più saprà divenire riferimento reale e credibile per il tessuto sociale cui si rivolge. La militanza intesa in questa modalità, tuttavia, implica un rovesciamento a 180° nella relazione tra militante e organizzazione o partito di cui è parte: mentre tradizionalmente si ha un flusso dal centro alla base ben più importante che non dalla base al centro, qui è il militante ad essere al centro dell’azione complessiva, ciò non può non ribaltarsi nell’inversione di importanza dei flussi relazionali dove è il rapporto dalla base verso il centro a dover avere la preminenza. Tutto questo, va da sé, mette in seria discussione l’organizzazione politica per come l’abbiamo intesa negli ultimi 100 anni.

Come abbiamo visto sino a qui, l’azione di militanza politica è tutta rivolta alla costruzione dei rapporti con il tessuto sociale del territorio su cui agisce il militante. Infatti, è proprio questa costruzione di relazioni che deve essere posto al centro delle “nuove” forme della politica, a partire dai bisogni immediati materiali e non materiali espressi dal tessuto sociale di riferimento. Non già per “porsi al servizio” passivo delle aspettative minute dei “bisognosi” componenti la classe ma per interpretare nel modo più profondo, reale e credibile il ruolo di costruttore di conflitto sociale che è all’origine della sua scelta di vita, a partire dall’affrontare i bisogni immediati e contingenti che la classe, nelle sue infinite componenti esprime.

Elio Limberti

Collaboratore redazione di Lavoro e Salute

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