Dove abiteranno gli anziani lo decide il mercato

I grandi gruppi della sanità e immobiliari puntano a creare nuovi posti letto per le persone non autosufficienti. Eppure la pandemia ha insegnato che serve soprattutto un nuovo modello di assistenza leggera, integrata e di prossimità

Italia sta invecchiando. Secondo l’Istat nel 2020 quasi una persona su quattro aveva più di 65 anni, e nel 2050 questa fascia di popolazione potrebbe raggiungere il 35 per cento. Aumentano, dunque, anche le persone non autosufficienti: sono circa 3,8 milioni gli anziani con grave riduzione dell’autonomia nelle attività quotidiane.

Il carico assistenziale ed economico lo sostengono soprattutto le famiglie: a fronte di una stima di circa un milione e centomila badanti, tra regolari e irregolari, secondo dati del ministero della salute nel 2019 solo il 4,6 per cento delle persone con più di 75 anni ha ricevuto cure domiciliari e circa 329mila anziani erano ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali (rsa). Ma in Italia i posti letto nelle rsa scarseggiano: nel 2017 erano solo 19,2 ogni mille persone di più di 65 anni, contro una media dei paesi Ocse di 47,2. Meno della metà.

La carenza di offerta assistenziale per una popolazione che invecchia è stata considerata un’occasione dal mercato immobiliare. Dall’inizio degli anni duemila sia i grandi gruppi della sanità privata sia quelli della finanza immobiliare hanno infatti cominciato a investire nell’acquisto di strutture, soprattutto già accreditate dal servizio sanitario pubblico, con l’obiettivo di ricavare nel lungo periodo rendimenti considerati sicuri, grazie alla locazione pagata dai gestori. Oggi i grandi gruppi del settore gestiscono solo l’11 per cento dei posti letto delle rsa, ma l’asse tra i fondi immobiliari e i colossi della sanità sta plasmando l’assistenza residenziale sanitaria agli anziani non autosufficienti, e sembra destinato a farlo anche in futuro, favorendo la formazione di grandi strutture nelle più ricche regioni del nord. Una direzione in controtendenza rispetto alla necessità emersa durante la pandemia di una sanità di prossimità, diffusa e più vicina alle persone, e all’esigenza di colmare il forte divario territoriale dell’offerta.

Chi paga cosa

Le rsa sono state introdotte nel servizio sanitario nazionale alla fine degli anni ottanta per garantire agli anziani non autosufficienti un’assistenza continua al di fuori delle strutture ospedaliere. Il settore delle rsa è in gran parte gestito da soggetti privati: secondo l’Istat la componente più rilevante, poco meno del 50 per cento, è in mano a enti non profit (come cooperative, fondazioni, enti religiosi), il 27 per cento ad aziende private e solo il 23 per cento è diretto da enti pubblici.

I gestori privati sono per la maggior parte accreditati per l’erogazione di prestazioni essenziali del servizio sanitario nazionale. Per questo la metà della retta giornaliera di una rsa, definita “quota sanitaria”, è a carico delle regioni mentre la “quota alberghiera” è corrisposta dai pazienti e dai familiari, con un’integrazione da parte dei comuni in caso di disagio economico.

L’ammontare della retta varia in base alle regioni e al grado di non autosufficienza del paziente: in media sono 110 euro al giorno. La metà a carico degli ospiti oscilla tra i 1.500 e i duemila euro al mese. “Il settore privato si è inserito all’interno del perimetro pubblico grazie all’accreditamento. Oggi in Italia piccole e grandi strutture si muovono nello stesso mercato e i posti letto non convenzionati costituiscono una quota residuale perché i costi a carico dei pazienti sono troppo alti”, spiega Eleonora Perobelli del Centro di ricerche sull’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) dell’università Bocconi.

I grandi gestori privati

Anche se in Italia il quadro dei gestori delle rsa è frammentato ed è costituito in buona parte da realtà piccole e medie, negli ultimi quindici anni è aumentato il peso di grandi gruppi specializzati nell’assistenza sociosanitaria di pazienti cronici non autosufficienti, nella riabilitazione e più in generale della residenzialità per anziani. Secondo una stima calcolata sui dati resi pubblici dalle aziende, in Italia una decina di gruppi gestisce circa 30mila posti letto, pari all’11 per cento del totale.

“A partire dal 2005 si è verificato un percorso di consolidamento e di aggregazione all’interno dei grandi gruppi del settore, attraverso processi di acquisizione di strutture più piccole e in parte di costruzione di nuove. Dopo la pandemia c’è stato un momento di stallo, ma è probabile che in futuro la loro presenza torni a crescere”, spiega Enrico Brizioli, coordinatore della commissione rsa per l’Aiop, organizzazione di categoria della sanità privata, e dirigente di Kos, uno dei principali gruppi italiani del settore. Kos, nata all’inizio degli anni duemila dalla fusione di tre realtà attive nell’assistenza agli anziani, nella riabilitazione e nella tecnologia per la sanità, oggi gestisce 13mila posti letto tra la Germania, l’India e l’Italia, dove ne controlla seimila.

Tra le altre principali realtà da citare ci sono Sereni Orizzonti, 5.600 posti letto e una nuova rsa “inaugurata o acquisita” ogni mese nel 2019; Korian, colosso francese da 90mila posti letto in Europa, che in Italia ne gestisce settemila; il gruppo Zaffiro, 3.650 posti letto. Secondo un’indagine contenuta nel quinto rapporto Osservatorio long term care del Cergas, che ha analizzato le “operazioni straordinarie”, “prevalentemente fusioni e acquisizioni”, effettuate o pianificate tra il 2020 e il 2024 da venti grandi gruppi del settore (tra i quali aziende pubbliche, cooperative, aziende private e fondazioni), “possiamo aspettarci che il mercato tenderà a cambiare ulteriormente con nuovi perimetri istituzionali e una maggiore concentrazione”.

La crisi del settore delle rsa

La pandemia prima e la crisi energetica poi hanno messo a dura prova la sostenibilità economica delle rsa. Anche se la crisi sta coinvolgendo tutto il settore, le più colpite sono le realtà piccole e medie. Uno studio realizzato dall’Osservatorio settoriale sulle rsa della Liuc business school elaborato su un campione di 119 enti che operano in Lombardia (pari al 30 per cento dei posti letto totali), ha rilevato che nel 2020 la pandemia ha indebolito soprattutto i gestori pubblici e quelli non profit, che sono andati in perdita in circa il 65 per cento dei casi, contro il 30 per cento del privato profit.

Secondo i gestori la crisi si è abbattuta su problematiche strutturali, a partire dalle tariffe erogate dalle regioni, ferme da una decina di anni o non aggiornate adeguatamente a fronte di un’inflazione in crescita. Sui conti pesa anche la tipologia di utenza: “Nelle rsa sono ricoverate persone sempre più anziane e compromesse dal punto di vista sanitario, così da richiedere un’assistenza sempre più costosa”, spiega Sebastiano Capurso, presidente di Anaste, una delle associazioni di categoria dei gestori privati. A farne le spese sono anche gli infermieri e gli operatori sociosanitari impiegati in queste strutture, che, a parità di mansioni, percepiscono stipendi più bassi e godono di meno garanzie rispetto ai colleghi assunti da soggetti pubblici, in un quadro in cui i sindacati denunciano il dilagare di contratti “pirata” e mancati o insufficienti adeguamenti salariali. Secondo Capurso “le piccole strutture, che sono un po’ la peculiarità italiana, tenderanno a scomparire. La crisi inoltre sta favorendo l’arrivo degli speculatori che possono acquistare gli stabili, anche di un certo prestigio, a prezzi vantaggiosi”.

Una residenza per anziani nella provincia di Bergamo, dicembre 2020. - Laura Pietra
Una residenza per anziani nella provincia di Bergamo, dicembre 2020. (Laura Pietra)

Negli ultimi quindici anni il peso del privato profit è cresciuto per l’ingresso di grandi gruppi e di fondi di investimento immobiliari interessati agli edifici, perché ottengono un rendimento dal canone di locazione. Le rsa sono guardate con interesse perché l’invecchiamento della popolazione e la carenza di posti letto fanno prevedere che prima o poi l’offerta dovrà crescere. Dal 2016 gli investimenti dei fondi immobiliari nel settore della salute, principalmente in rsa, sono aumentati. Secondo Scenari Immobiliari, nel 2022 i fondi hanno investito 400 milioni di euro in questo settore, il 3 per cento del totale degli investimenti in immobili (nel 2016 era l’1,7 per cento). Ubi Banca stima che il picco di investimenti sia stato nel 2017, con transazioni per 550 milioni di euro; quasi la metà degli investimenti, il 45,7 per cento, si è concentrata in Lombardia. Sarebbero circa venti gli investitori che gestiscono strutture sanitarie, tra cui le rsa, inserite in 21 fondi immobiliari.

I gestori e i proprietari di rsa hanno ruoli sempre più distinti. Spesso i gestori vendono l’edificio agli investitori, pagandogli poi un canone di affitto. Ma, acquistando strutture esistenti, gli investitori non contribuiscono a crearne nuove e neanche aiutano a colmare i divari territoriali, perché comprano solo immobili gestiti da grandi gruppi, che sono concentrati soprattutto in Lombardia e nelle regioni dell’Italia settentrionale.

Infine, la redditività per i gestori dipende dalla capacità di generare economie di scala: le strutture ottimali devono avere tra i cento e i duecento posti letto per garantire la remuneratività. Ma questo non si coniuga con l’idea di una sanità meno centralizzata in grandi strutture e più diffusa sul territorio.

Un modello da rivedere

La pandemia ha mostrato tutti i limiti dell’attuale modello di rsa, che sono diventate per le famiglie l’ultima risposta a cui ricorrere quando l’assistenza domiciliare per gli anziani non autosufficienti non è più sostenibile. I posti letto non bastano, ma soprattutto occorre un nuovo modello di residenza per anziani e nuovi soggetti che possano realizzare la transizione. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha stanziato 15,6 miliardi di euro per la salute; di questi, otto miliardi sono assegnati alla sanità territoriale con l’obiettivo di rendere capillare l’offerta ed eliminare le disparità geografiche. Le risorse, di cui il 41 per cento è destinato al sud, dovrebbero servire a realizzare 1.350 Case della comunità (attualmente sono 489), 400 ospedali di comunità (oggi sono 163) e 600 centrali operative territoriali. Il problema della non autosufficienza è affrontato in diverse componenti del piano, come nella missione “inclusione e coesione” che stanzia 300 milioni di euro per la conversione delle rsa e delle case di riposo in gruppi di appartamenti autonomi. Ma non ci sono investimenti strutturali sul tema.

Anche se alcuni ritengono che il Pnrr non abbia affrontato tutti i problemi del settore, il piano ha aperto il dibattito politico sulla non autosufficienza. Il 21 marzo la camera ha approvato il disegno di legge delega “in materia di politiche in favore delle persone anziane”, prevista dal Pnrr. Il governo dovrà stilare i decreti attuativi entro il gennaio 2024.

Al momento, però, le risorse pubbliche non bastano, e il problema non è solo economico. Secondo Marco Marcatili di Nomisma non ci sono i soggetti giusti per realizzare la transizione verso una nuova sanità territoriale, perché l’interesse degli investitori privati per le rsa si ferma all’aspetto immobiliare. “Chi investe nel settore delle rsa ragiona sull’immobile e sul rendimento ottenuto dal canone di locazione. Le poche innovazioni fatte riguardano il contenitore fisico, non i processi della sanità territoriale”.

Secondo Nomisma occorre creare una rete di cura con modelli di assistenza integrati e leggeri, ricalibrando il ruolo delle strutture fisiche per non ripetere la logica ospedaliera di accentramento dei servizi. C’è bisogno di strutture di nuova concezione anche perché, spiega Marcatili, nell’attuale scenario economico le sperimentazioni degli anni passati non funzionano più. “Prima del covid le rsa erano realizzate con contribuzione pubblica dai comuni o da fondi immobiliari che hanno trovato il modo di ottenere dei rendimenti intorno al 6 per cento, dunque calmierati, ma accettabili. Quando i tassi di interesse e l’inflazione erano vicini allo zero, questo poteva reggere. Ma oggi, con l’inflazione intorno al 10 per cento, diventa complicato”.

Il mercato privato non risponde alle nuove esigenze di una sanità di prossimità e di un’offerta, tutta da costruire, che superi i divari territoriali. Infatti senza contributi pubblici, il settore non è abbastanza remunerativo per gli investitori, perché ha costi troppo alti. L’unico segmento redditizio è il cosiddetto high senior housing: strutture residenziali private con rette mensili a carico delle famiglie di circa cinquemila euro al mese, inaccessibile alla maggior parte delle persone. Marcatili paragona questo segmento dell’abitare a quello degli studentati privati. Quest’ultimo garantisce una certa redditività perché una quota parte delle stanze è locata a turisti. “In quel settore il mondo immobiliare ha trovato un nuovo modello. Ma nel settore della sanità sappiamo solo cosa non funziona”.

Secondo Marcatili, senza un nuovo modello, i fondi pubblici per la sanità territoriale fanno fatica a essere impiegati. “Si sta spendendo solo un terzo delle risorse previste dal Pnrr. C’è un problema di carattere strutturale: come conciliare un modello che restituisca un rendimento e, al tempo stesso, sia una risposta per la comunità, insomma una risposta vantaggiosa per tutti?”. Marcatili ritiene che il pubblico dovrà garantire il rendimento privato, oppure bisognerà immaginare nuovi soggetti, e un’alleanza tra questi, per far crescere il mercato delle nuove rsa e degli ospedali di comunità. “Ma non vedo un particolare fermento nel mercato su questo fronte, non ci saranno grandi novità. Non esiste ancora un modello vantaggioso per tutti, e siamo in ritardo: adesso che è urgente, non abbiamo la soluzione”.

Sarah GainsforthYlenia Sina

12 aprile 2023 https://www.internazionale.it/

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