No Autonomia differenziata. Le nostre ragioni, le loro pretese

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L’emergenza globale Covid-19 prosegue, ma per fortuna l’incedere dell’estate e il piano vaccinale ci fanno ben sperare per le prossime settimane. Nonostante questa evidenza, la situazione continua ad essere drammatica, segnata come è da uno straordinario aumento delle diseguaglianze, da un diffuso malessere sociale, da una condizione di incertezza che insistono a minare le nostre esistenze, nonché – è sempre il caso di ricordarlo – da un numero di decessi comunque a tre cifre. E, poiché la pandemia è mondiale, è tragica per i paesi del Sud del mondo, dove non arrivano neppure i vaccini.

E’ per questo che preoccupa e indigna la decisione del Governo di inserire nuovamente l’autonomia differenziata – e per il terzo anno consecutivo – nel DEF 2021 , ciò che ripeterà di sicuro nella NADEF (Nota di aggiornamento al Def) che sarà presentata ad ottobre. Una risoluzione del Parlamento, relativa al DEF, ha consentito infatti che, nonostante la situazione e i problemi gravissimi che il Paese ha affrontato e si prepara ad affrontare, un tema così importante, che tocca la vita di tutte le cittadine e i cittadini, coinvolgendo fino a 23 materie che riguardano la nostra esistenza, il Governo ritenti la carta della blindatura del dispositivo, che consentirebbe la realizzazione di un progetto eversivo per la Repubblica, tanto dal punto di vista sociale e dell’esigibilità dei diritti universali garantiti per tutte e tutti sul territorio nazionale, quanto per le conseguenze che esso avrebbe sul piano delle istituzioni e dello stesso ordinamento repubblicano, nonché per la democrazia costituzionale.

In questi mesi lo abbiamo ripetuto come un mantra. “L’autonomia differenziata non sembrerebbe essere nel programma di questo governo”. Mai condizionale è stato tanto calzante, mai cautela così opportuna. Lo hanno fatto, infatti: stanno ritentando l’odiosa carta di sottrarre l’autonomia differenziata alla dinamica democratica, alla discussione parlamentare, persino alla possibilità di un futuro referendum, dal momento che il collegamento alla legge di Bilancio elimina per sua stessa natura queste possibilità.

Usavamo il condizionale per diversi motivi. Nonostante il presidente del Consiglio Mario Draghi non avesse fatto riferimento nei discorsi alle Camere al tema in questione, sono stati per noi da sempre chiari alcuni punti:

1) la nomina di Mariastella Gelmini a ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie rappresenta un grave precedente. La Gelmini – nota al mondo della scuola per il più impressionante taglio in quel settore operato nella storia repubblicana, che ha comportato l’attuale stato dello scuola pubblica, dal problema del precariato alle cosiddette “classi pollaio”, per non parlare della riduzione di alcuni saperi fondamentali – nel suo periodo di impegno presso la Regione Lombardia (una delle tre regioni che hanno già da tempo avviato concretamente il percorso dell’Ad) e come responsabile di Forza Italia in quella regione, è stata una delle più strenue sostenitrici della attribuzione alle regioni della potestà legislativa esclusiva su materie attualmente di legislazione concorrente Stato-regioni. Tra le sue prime dichiarazioni, ricordiamo: “Bisogna fondere l’autonomia dentro una legge quadro nazionale, ripartire dal livello di buono raggiunto a fatica da Francesco Boccia (il suo predecessore, ndr). Serve ordine nelle diverse competenze, non vogliamo il conflitto ma non sappiamo come essere concludenti. Bisogna trovare un formula: i ministri dell’Innovazione e della Pubblica amministrazione ci stanno già lavorando, Draghi per questo ha voluto sin dalla prima riunione creare dei comitati interministeriali”.

2) il governo di “unità nazionale” Draghi, con il suo mix di politici e tecnici, tutti o quasi sostenitori dell’autonomia regionale differenziata, offre a Salvini la possibilità di orientare a proprio vantaggio la questione (da sempre cavallo di battaglia della Lega), anche nella prospettiva del contrasto – ormai nemmeno più latente, si pensi al ddl Zan – con il fortissimo presidente della regione Veneto, Zaia, che – come i colleghi Fontana in Lombardia e Bonaccini in ER – è uno dei 3 firmatari dei pre-accordi sull’autonomia differenziata che sono stati conclusi il 28 febbraio del 2018 con il governo Gentiloni, a soli 4 giorni dalle elezioni politiche.

3) Ancora sul fronte dei presidenti di regione, la proposta del presidente dell’Emilia Romagna, uomo forte del PD, portavoce di una autonomia “gentile-soft-solidale-cooperativa-buona” (alcuni degli eufemistici aggettivi usati per rimarcare la “straordinarietà” della proposta della propria regione, la terza appunto nella triade delle bozze già sottoscritte) non è meno pericolosa delle precedenti; essa incombe e incalza nel panorama interno di un partito – il PD – in una fase molto particolare della sua storia e certamente la condiziona. E’ bene comunque ricordare che, nel 2001, il governo Amato portò a conclusione l’iter della legge di revisione. Gli allora DS, per rincorrere la Lega, misero mano ad una raffazzonata revisione del Titolo V con le conseguenze nefaste di aprire un conflitto tra Stato e Regioni che ha tenuto occupata, e tuttora la tiene occupata, la Corte costituzionale per dirimere i conflitti di competenza.

4) il 18 febbraio 2021, a 5 giorni dall’insediamento del governo Draghi, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, teneva a Venezia la prima riunione di insediamento del Comitato scientifico dell’Osservatorio regionale sull’autonomia differenziata, istituito con la legge regionale n. 44/2019: “Grande passo rispetto al Titolo V e verso la firma con il Governo”.

Insomma, i segnali c’erano tutti e molto probabilmente, con una estenuante continuità con gli ultimi due anni, ci troveremo a contrastare la blindatura in un testo collegato alla legge di Bilancio. L’ appello al Parlamento, così come le azioni di mobilitazione, saranno d’obbligo: questo odioso progetto – tra fasi di quiescenza e accelerazioni, anche quando, come oggi, tutto sembra sottolineare l’inopportunità della sua prosecuzione – ci terrà ancora impegnati. Ma, del resto, il Comitato per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti è nato per questo: è infatti – innanzitutto – un comitato di scopo. La nostra attività di militanza si concluderà quando – auspicabilmente – saremo riusciti a cancellare questa prospettiva disgregatrice dal nostro Paese; o, malauguratamente, saremo stati sconfitti. Per il momento ci battiamo. E lo facciamo con la costanza delle nostre ragioni, oggi più che mai evidenti.

In seguito alle “prove tecniche” di autonomia differenziata che si sono concretizzate nella gestione della pandemia – in particolare su sanità e scuola, due delle materie più significative tra quelle rivendicate dalle regioni – anche a causa di notevoli inadempienze dei governi, che hanno lasciato la briglia sciolta alle pretese regionali, ai cittadini e alle cittadine italiani non può essere sfuggito il disastro che un ulteriore affidamento di materie importantissime (quali – inoltre – infrastrutture, beni culturali, lavoro, ambiente ) potrebbe configurare. Non è stato sufficiente considerare come la regione Lombardia, la più ricca d’Italia, abbia risposto all’emergenza Covid-19, dopo aver, negli anni precedenti, privatizzato il 40% della propria sanità, diventando – nel periodo del lock down dello scorso anno – la zona del mondo che, nel rapporto tra area territoriale e numero di abitanti, è risultata quella con il maggior numero di decessi? Non ci ha forse colpito la “scuola à la carte” realizzata dal presidente della Regione Puglia, Emiliano, che ha lasciato un organo costituzionale (la scuola della Repubblica) alla mercé della scelta e dei desiderata degli “utenti”, liberi di decidere se inviare a scuola i figli o – al contrario – sottoposti a chiusure improvvise e totali, oggetto di ricorsi? Non abbiamo forse compreso che un Paese a marce diverse – e, di conseguenza, con diritti diversi – rappresenta lo scenario più favorevole alla crescita, insieme alle diseguaglianze, del disagio, delle rivendicazioni localistiche e dell’individualismo?

Eppure il processo di autonomia differenziata va avanti; e va avanti, paradossalmente, persino in quelle regioni che – ne è prova la triste e paradigmatica vicenda del Federalismo Fiscale – sono state ormai notoriamente saccheggiate dalle regioni più economicamente avanzate; in quelle regioni in cui la crisi, trovando terreno favorevole, morde più forte; in cui le mafie – che tutto avrebbero da guadagnare dalla cosiddetta “secessione dei ricchi” – hanno preso tanto da allargare le proprie mire, riuscendo a diffondersi capillarmente su tutto il territorio nazionale, nessuna regione esclusa. Perché? La risposta è chiara: perché l’autonomia differenziata è potere. Potere economico e potenzialità di consenso. Perché la gestione di un appalto in proprio, frutta o può fruttare. Perché gestire la scuola significa mettere le mani su una platea numerosissima tra lavoratori, studenti e famiglie. Perché, dietro la parola autonomia differenziata, si nasconde la possibilità di trasformare tutto ciò che è pubblico in privato: tutto ciò che è “pubblico” diventerebbe sinonimo di “regionale” e “privatizzato”, in una progressiva ma inesorabile corsa al ribasso per tutti, da Torino ad Agrigento, in termini di accesso ai servizi, alle tutele, ai diritti fondamentali e di livello dei salari. 

Combattere il “regionalismo separatista” è il nostro obiettivo, il nostro “scopo” contro un progetto eversivo, che peraltro – e il collegato al Bilancio ne è l’ennesima espressione – è volontariamente tenuto lontano dalla conoscenza delle persone; e – dunque – da consapevolezza, indignazione, contrasto. Tre anni fa ci costituimmo – assieme ad altre associazioni – in un tavolo scuola, cui partecipavano sindacati di base e confederali: avevamo intuito – da quel poco che emergeva, dalle vaghe notizieche trapelavano – che configurare 20 sistemi scolastici differenti, liberi di decidere su tutta la materia scolastica (dal reclutamento alla formazione, dalla valutazione alla attribuzione della parità) avrebbe comportato, oltre alla dismissione del comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, che prevede che la Repubblica abbia il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza sostanziale (e lo strumento più potente in questo senso è la scuola della Repubblica), anche lo sgretolamento della vera e propria spina dorsale del Paese, che rischiava di essere ridotta in briciole e sottomessa a interessi particolari di ogni genere. Il tavolo fallì: nonostante uno sciopero già proclamato per il 17 maggio del 2019, i sindacati confederali firmarono un accordo con il governo convergente sul contratto (ancora non realizzato, a 2 anni di distanza) ed una non meglio definita idea comune (il governo era il Conte 1, con Salvini ministro dell’Interno) di “unitarietà del sistema scolastico nazionale”. Non ci perdemmo d’animo.

Mentre finalmente il sito Roars ci faceva conoscere il contenuto delle bozze siglate l’anno precedente da Emilia Romagna, Veneto e Lombardia con il governo Gentiloni, capziosamente secretate sino ad allora, ecco la seconda intuizione: se una sola delle 23 materie (20 attualmente di potestà legislativa concorrente Stato-regioni, 3 di potestà legislativa esclusiva dello Stato) fosse passata ad una legislazione esclusivamente regionale, peraltro attraverso il trattenimento – come si evinceva dalle bozze – quasi totale (come il Veneto) o parziale (come l’ER) del proprio gettito fiscale, non solo si sarebbero violati definitivamente i principi di uguaglianza e solidarietà previsti dalla Carta, ma sarebbe stata definitivamente infranta l’unità della Repubblica e si sarebbe aperta una breccia molto facile da allargare, con conseguenze catastrofiche in termini di diritti e di ordinamento repubblicano; all’orizzonte si palesavano 20 signorie più o meno potenti, con servizi – ma anche diritti universali e garanzie – diseguali, rivendicati sulla base del certificato di residenza: cittadini di serie A, B, persino Z. Come tacere davanti ad una visione proprietaria e famelica, in cui nascere e vivere in una zona privilegiata sono rubricati come merito e diritto legittimo di avere di più?

Dalla seguente assemblea del 7 luglio 2019 è stato compiuto un lungo cammino: sono nati 40 comitati, alcuni persino “esplosivi” quanto ad attività, altri più silenti. Formazione, approfondimento, mobilitazione, creazione di relazioni. Un’esperienza importante, che lega, sulla base dello “scopo” , militanti che provengono da altre lotte e che nelle altre lotte portano questo tema ancora sconosciuto ai più nella sua complessità: uno scambio proficuo che crea cultura, resistenza, opposizione. Un modo creativo di valorizzare la democrazia e la partecipazione delle donne e degli uomini e di far cultura democratica, nella difesa dei principi costituzionali. Si pensi al gemellaggio tra il comitato di Pavia (uno dei primi ad essersi creato) e quello di Palmi, frutto della consapevolezza che condividiamo: il regionalismo differenziato non si può concretizzare in una sterile contesa tra Nord e Sud; al contrario, occorre rafforzare i legami e le collaborazioni, nella convinzione che “nessuno si salva da solo” e che esiste un reciproco interesse ad individuare la Repubblica come la sede naturale di diritti esigibili per tutte e tutti e allo stesso modo.

Voglio anche ricordare lo sforzo compiuto dal comitato di Roma, di cui faccio parte, che ha dato vita, tra le altre iniziative, ad un ricco ciclo di conferenze – disponibile sul canale You Tube – sul tema Autonomia differenziata e Recovery Fund, in cui sono stati approfonditi il tema dell’ambiente, della salute, dei beni culturali, delle infrastrutture, attraverso interventi prestigiosi e competenti ed un serrato dibattito. Infine, degna di menzione è l’iniziativa cui ha dato vita il comitato Emilia Romagna, che – associando i numerosi comitati di quella regione – ha prodotto una petizione da rivolgere al presidente Bonaccini affinché ritiri i pre-accordi, accompagnata da una raccolta di firme e da altre azioni di mobilitazione. Un modello che si pensa di riprodurre attraverso analoghe petizioni da parte dei comitati delle regioni che hanno già avviato le procedure per accedere all’autonomia differenziata, in fase più o meno avanzata.

Le condizioni attuali richiedono la nostra vigilanza e la nostra tenacia nel rimanere uniti ed unire; nel riconoscerci e nel riconoscere in tante lotte storiche di questo Paese un interlocutore importante, con cui concretizzare scambi reciproci. Abbiamo un compito difficile, perché non solo le forze in campo sono sproporzionate e noi non siamo che un Davide che ha di fronte il Golia dei partiti politici, ma anche  perché i cosiddetti “poteri forti” di questo Paese, gruppi finanziari ed industriali, media, università e centri di ricerca settentrionali, sostenuti dal consenso più o meno manipolato di più vasti gruppi di riferimento a livello territoriale, intendono uscire dalla crisi concentrando sempre più poteri, funzioni e risorse economiche sulla solita “locomotiva” Nord. Il tutto, ovviamente, a discapito della “sgangheratacarrozza” del Sud.

E lo fanno sventolando parole d’ordine e bandiere che possono trarre in inganno. Come la questione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione. Sposando la tesi del prof. Luigi Ferrajoli, un diritto fondamentale è tale in quanto spetta universalmente a tutte e tutti in eguale forma e misura , cosa che si concretizza in prestazioni equivalenti in termini qualitativi e quantitativi del medesimo diritto garantito. Come possiamo – dunque – accettare (e a distanza di 20 anni dalla attribuzione della competenza esclusiva di uno Stato però inadempiente di questa materia, la determinazione dei Lep) che qualcuno abbia garantito un livello essenziale e qualcun altro articolazioni successive e più soddisfacenti, sia in termini qualitativi che quantitativi? In secondo luogo, e sempre facendo ricorso alle categorie dell’illustre costituzionalista, si può sostenere che i diritti sociali e civili, stabiliti in Costituzione come fondamentali, sono sottratti alla sfera della ‘decisione politica’ dal momento che essi individuano la ‘sfera del non-decidibile’, preclusa cioè alle decisioni della maggioranza del momento. Per questo, a maggior ragione rifiutiamo la logica del collegato alla legge di Bilancio. I servizi pubblici – in quanto funzionali al godimento di diritti fondamentali, in quanto incomprimibili e indivisibili – devono essere erogati in condizioni di uniformità, ‘senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali’ (art. 3 Cost.); ciò a salvaguardia della ‘Repubblica, una e indivisibile’ (art. 5 Cost.). E’ pertanto per noi improcrastinabile la necessità di sostituire la logica – e la sostanza – dei livelli essenziali di prestazione con quella di livelli uniformi di prestazione. Diversamente, si istituzionalizzerebbero e costituzionalizzerebbero le diseguaglianze (che già, senza autonomia differenziata, sono drammatiche).

Infine: ci spenderemo – e lo facciamo già da molto – per aprire un dibattito, il più allargato possibile, sulla cancellazione del comma 3 dell’art. 116 della Costituzione. Siamo ben consapevoli che la pandemia e il disastro della gestione regionale hanno portato tanti – anche convinti “autonomisti” del passato – a chiedere una riforma del Titolo V della Costituzione. Il taglio chirurgico di un comma dell’art. 116 – comunque una riforma costituzionale! – avrebbe però la funzione di “neutralizzare” il progetto eversivo, impedendo di sottoporre il testo costituzionale a interventi ulteriori che – dalla stessa riforma del Titolo V, a quella del 2006, alla Renzi Boschi, al taglio del numero dei parlamentari – si sono spesso rivelati devastanti.

Questa la situazione e queste le nostre intenzioni. Pensiamo grave la prima, importanti le seconde.
E ora la parola ai comitati

Marina Boscaino

Portavoce nazionale dei Comitati Per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti


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