Chi ha rottamato il lavoro in Italia?

Di tanto in tanto, in veste di novello internauta, “sfoglio” anche le pagine di un sito web (WordPress.com) che offre ampio spazio a chiunque ritenga opportuno esprimere il proprio pensiero; ad autorevoli e affermati giornalisti – Corradino Mineo e Giulietto Chiesa, tra questi – come a illustri sconosciuti.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un brevissimo articolo – a cura di una signora dal cognome in apparenza inverosimile; una certa Maryse Claire Corazzol Cordial – che sembrava ponesse un quesito apparentemente pletorico: “Chi ha rottamato il lavoro in Italia”?

Il responsabile, a suo avviso, era Matteo Renzi.

A chi qualcosa ne sa, credo appaia – invece – un po’ troppo semplicistico ritenere l’attuale Premier unico colpevole di cotanto scempio.

Contribuirebbe, tra l’altro, a riconoscergli particolari capacità intuitive e strategiche che – di là dalle apparenze – credo, in sostanza, non possegga!

Personalmente, sono dell’idea che chi – scaltramente – esordì rivendicando il ruolo di “rottamatore” (di una classe dirigente politica “vecchia” e “non all’altezza dei tempi”) abbia solo avuto, in realtà, l’abile capacità di cogliere la più ghiotta delle occasioni per affermarsi; prima nel suo partito e poi nel Paese. Grazie a un Pd ormai (da tempo) pronto a smettere la veste di rappresentanza della sinistra e a un’opinione pubblica dalla quale, in sostanza, sembrava provenisse la sciagurata richiesta di un “berlusconismo” senza Berlusconi!

Chi, dunque, sarebbe stato l’artefice del vero e proprio “inizio della fine”?

Secondo il parere di alcuni, il 1997 rappresenta l’anno nel quale ebbe inizio e si realizzò la prima, concreta, “controffensiva padronale” nei confronti dei lavoratori.

Una fase prodromica di “attacco ai diritti” concretizzatasi, poi, con la realizzazione di una condizione di diffusa precarizzazione dei rapporti di lavoro.

La responsabilità è individuata in quella parte della legge 24 giugno 1997, nr. 196, attraverso la quale il Legislatore nazionale prevedeva il c.d. “Contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo”; meglio noto come: “Lavoro interinale”.

Con essa, in effetti, veniva meno uno dei cardini dell’ordinamento italiano del lavoro.

Infatti, attraverso l’art. 1 (commi da 1 a 11) della legge – che dettava nuove “Norme in materia di promozione dell’occupazione”, passate alla storia quale “Pacchetto Treu” – s’interveniva rispetto al “Divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e servizi”, di cui alla legge 23 ottobre 1960, nr. 1369.

In definitiva, a quelle norme andrebbe, quindi, riconosciuta la responsabilità di quanto verificatosi – in materia di lavoro – negli anni successivi. Un principio di valanga dalle dimensioni via via sempre più grandi.

Tra i sostenitori più tenaci – e, direi, ostinati – di questa “scuola di pensiero”, ha sempre svolto un ruolo di primo piano Pietro Ichino.

A mio parere, invece, non è corretto far risalire alla deroga alla legge 1369/60 l’avvio della precarizzazione dei rapporti di lavoro. Non è convincente perché la serena e disinteressata analisi della normativa di merito – senza, cioè, assumere alcuna posizione di parte – dovrebbe dimostrare, in modo sufficientemente chiaro, soprattutto a esperti del livello di Ichino, che la “timida” eccezione alla legge del ’60 introdotta da Treu poneva, comunque, ai datori di lavoro limiti e vincoli tali da non consentire alcuna “deriva”.

Giusto per rispetto della verità, è il caso di ricordare che il lavoro interinale introdotto nel ’97 – esclusivamente di carattere temporaneo – era previsto solo in casi ben precisi e vietato: a) per le qualifiche di esiguo contenuto professionale, b) presso unità produttive nelle quali nei dodici mesi precedenti si fosse provveduto a licenziamenti collettivi relativi a lavoratori in possesso delle medesime qualifiche per le quali s’intendeva ricorrere al lavoro interinale, c) nelle unità produttive nelle quali fosse operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario per lavoratori adibiti alle mansioni per le quali si riteneva di ricorrere all’interinale, d) per le imprese che non avessero dimostrato alle competenti autorità di aver effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del decreto legislativo 626/94, e) per quelle lavorazioni che avessero richiesto sorveglianza medica speciale e per lavori particolarmente pericolosi.

Sono state le norme “liberticide” introdotte successivamente a rendere possibile anche l’impensabile!

Personalmente, sono sempre stato dell’idea che il “Big Bang” della flessibilità elevata a “precarietà diffusa” – condizione imprescindibile per l’affermazione della selvaggia “deregolamentazione” del Diritto del lavoro prodotta nel nostro Paese – sia stato, invece, rappresentato dalla legge-delega 30/03 e dal suo decreto applicativo 276/03.

Senza, per questo, individuare, in quella che erroneamente e strumentalmente, ancora oggi, è richiamata come “Legge Biagi”, l’unica responsabile di tutto quanto, di negativo, realizzatosi. Ritengo, al riguardo, che si sia trattato dell’inevitabile prodotto di una serie di “concorsi di colpa”, piuttosto che di una singola responsabilità.

Penso, ad esempio, al trio Maroni, Sacconi e Biagi; l’uno Ministro del lavoro in carica e gli altri coordinatori del gruppo di lavoro che avrebbe prodotto il famigerato “Libro Bianco” dell’ottobre 2001.

Si deve, infatti, a loro il notevole sforzo teorico necessario per elaborare una serie di principi che sarebbero stati poi sviluppati e tradotti in precise norme di legge negli anni successivi; dai governi Berlusconi all’attuale Renzi, senza dimenticare quello guidato dal Prof. Monti, con la Fornero nelle vesti di moderno Maroni.

E’, appunto, nel “Libro” che si ritrova una serie di opzioni in materia di “nuova visione” del Diritto del lavoro in Italia. Alcune, nei fatti, già realizzate, altre, sicuramente in agenda.

Il decreto legislativo 276/03 ha, infatti, generato l’attuale “Supermarket” delle tipologie contrattuali, reso, tra l’altro, più precario il part-time e, sostanzialmente, “liberalizzato” il ricorso all’ex lavoro interinale (anche a tempo indeterminato); abrogando, in sostanza, quel principio della 1369/60 cui Treu era – sì – già venuto meno, ma posto precisi limiti (per i datori di lavoro) garantendo, comunque, la tutela dei diritti dei lavoratori!

Si sono, così, sostanzialmente, raggiunti due obiettivi – che definirei “strategici” – nella visione di Sacconi e Biagi. La negazione di qualunque “gerarchia” tra le tipologie contrattuali – tra le quali ogni datore di lavoro applica quella che più gli aggrada – e la progressiva individualizzazione del rapporto di lavoro, equiparandolo, in definitiva, a qualsiasi altro “negozio” privato. Rendendo, come suol dirsi, il lavoro pari a qualunque altra merce!

Così com’è da ritenere realizzato il superamento – auspicato da Biagi & c – del Contratto collettivo nazionale di categoria; la contrattazione decentrata – a carattere territoriale e/o aziendale – in assoluta deroga agli accordi nazionali, ne rappresenta la prova evidente.

Basti pensare che, in applicazione del recentissimo decreto attuativo del Jobs act, i contratti collettivi aziendali possono (anche e addirittura) prevedere l’assegnazione dei lavoratori allo svolgimento di mansioni inferiori (il c. d. “demansionamento”). La beffa, oltre al danno, è rappresentata dalla previsione che il lavoratore può essere assegnato – anche tramite accordo individuale(!) – a mansioni di un livello inferiore con diritto alla conservazione del livello d’inquadramento e del trattamento retributivo, “fatta eccezione per gli elementi contributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”. Ciò significa, in parole povere, che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali” – quindi, in sostanza, a insindacabile giudizio del datore di lavoro – un lavoratore potrà ritrovarsi, “dalla sera al mattino”, a dover subire una decurtazione del proprio salario pari, in alcuni casi, anche a centinaia di euro mensili. Si pensi, ad esempio, alle (almeno) centinaia di migliaia di operai, impiegati, tecnici e quadri che, per l’attività legata alle mansioni loro improvvisamente interdette, non percepiranno più, singolarmente o, talvolta, cumulativamente: a) indennità di trasferta, b) indennità di guida, c) indennità di reperibilità, d) indennità di turno, e) straordinario “forfetizzato”, f) indennità di rischio, g) indennità di cassa, ecc.

Non solo questo; si aggiunga che – grazie all’approvazione delle recenti norme – (ancora) in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali, il lavoratore può anche essere trasferito da un’unità produttiva all’altra.

Scagli la prima pietra chi non ritiene concreto il rischio del ritorno – nel migliore dei casi, escludendo quindi il ricorso all’ormai sin troppo facile licenziamento per motivi economici o disciplinari – a una sorta di “Officina Sussidiaria Ricambi”; il famigerato “reparto confino” della Fiat di vallettiana memoria!

Contemporaneamente, come non rilevare quanto abbiano potuto giovare, ai sostenitori dell’esigenza di “Gestire in maniera nuova e diversa i rapporti tra le parti” – per dirla alla Sacconi – tutti i c. d. “accordi separati” che Cisl e Uil, pur di essere “in prima fila”, hanno sottoscritto? A cominciare da quello siglato nello stesso 2001 – sui contratti a termine – con la concreta “liberalizzazione” delle causali. In questo senso, si può tranquillamente escludere che la sostanziale rinuncia di Cisl e Uil alla propria autonomia di rappresentanza sociale – nell’illusione di un più proficuo “accreditamento” presso il potere politico e di un progressivo e irreversibile “indebolimento” della maggiore tra le tre Confederazioni – abbia inciso tanto negativamente da produrre, contrariamente a come eravamo stati abituati, l’attuale condizione di assoluta ininfluenza delle parti sociali in qualunque decisione governativa?

Con una battuta: sarebbe il caso di chiedersi – da parte di Cisl e Uil, evidentemente – se la posta in gioco valeva la candela?

Al riguardo, rilevo solo, che il neo Segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, impiegò appena lo spazio di un mattino – ribaltando di 360 gradi la posizione del suo predecessore – per rendersi promotore di una clamorosa “inversione di rotta” e proclamare, unitamente alla Cgil, lo sciopero nazionale del 12 dicembre scorso. Sorge, quindi – a conferma di quanto appena detto – il dubbio che abbia ritenuto doveroso farlo nell’estremo tentativo di evitare quella che, purtroppo, appare (ormai) una deriva inarrestabile: la perdita di autorevolezza, rappresentanza e “peso” politico delle OO.SS. Di tutte e tre le maggiori Confederazioni; non solo – come in tanti auspicavano – della “bellicosa” Cgil.

Tra l’altro, non va sottaciuto che i sostenitori dell’improcrastinabile esigenza di procedere a una vasta “deregolamentazione” del mercato del lavoro – partendo dal presupposto della sua (mai sufficientemente dimostrata e argomentata) “rigidità” – garantivano l’incremento dell’occupazione e, con esso, un diffuso benessere sociale. Qualcuno è ancora in messianica attesa che tutto ciò si realizzi!

Tornando al punto di “inizio della fine”: giova ricordare che negli anni successivi al 2001, si è, tra l’altro, realizzata una miriade d’interventi tesi, nello specifico, all’indebolimento delle tutele giurisdizionali a favore dei lavoratori.

Eclatante, in questo senso, la legge 183/2010 che regolò, in particolare, i termini di “decadenza” per eventuali ricorsi (stragiudiziali e d’inizio dell’azione davanti al giudice). Tempi relativi – nella stragrande maggioranza dei casi – all’impugnazione di licenziamenti illegittimi, di contratti a termine irregolari, di trasferimenti d’azienda e di recessi nei contratti a progetto. Con la conseguenza di costringere i lavoratori a fidarsi delle promesse del datore di lavoro di turno – rinunciando al ricorso stragiudiziale avverso il provvedimento – per poi ritrovarsi “bidonati” dall’avvenuta scadenza dei ridottissimi termini d’impugnazione (60 giorni dalla comunicazione del provvedimento e 180 giorni dalla data dell’azione stragiudiziale).

Un altro “colpo”, altrettanto esiziale, fu inferto – attraverso le leggi 92/2012 (c.d. legge Fornero) e 99/2013 – alla tutela dei diritti dei lavoratori che operano in regime di appalto di opere o servizi. Attraverso quelle norme, fu, in sostanza, completamente stravolta – fino a renderla quasi del tutto inesigibile – la c.d. “responsabilità solidale” dell’appaltante e degli appaltatori nei confronti del diritto (costituzionale) alla retribuzione dei lavoratori.

Altrettanto clamoroso è stato, nel corso degli ultimi anni, il “fragoroso silenzio” – da parte di Cisl e Uil – che ha accompagnato l’approvazione di questi come di tutti gli altri provvedimenti della stessa natura. Si è trattato, in realtà, di un atteggiamento, che definirei di “supina acquiescenza”; adottato anche all’epoca del c.d. “decreto Poletti” (decreto legge 34/2014, successivamente convertito in legge 78/2014), che, paradossalmente – di là dalle chiacchiere – abolendo qualsiasi tipo di “causale” per i contratti a termine e “dilatandone” la durata massima fino a 36 mesi, li elevava, in sostanza, a forma di lavoro ordinaria e prevalente rispetto all’ex contratto “a tempo pieno e indeterminato”!

Non diverse, le dinamiche che accompagnarono il primo intervento della Fornero sull’art. 18 dello Statuto – con l’aggravante, in quell’occasione, di una Cgil in sostanziale regime di “surplace” per non disturbare un “manovratore” (Mario Monti) cui il Pd non era ostile – e quelle che si sono succedute fino all’approvazione del primo decreto sul Jobs act.

Tra l’altro – come ama ripetere Milena Gabanelli, al termine della sua popolarissima e autorevole trasmissione televisiva – è importante rilevare che, purtroppo, “Non finisce qui”! Dai contenuti di quello stesso Libro Bianco, mancano ancora alcuni provvedimenti che, temo, non tarderanno. Alludo, in particolare, al “salario minimo legale” e al ritorno di quelle che una volta erano indicate col nome di “gabbie salariali”. Anche con queste “ipotesi di lavoro” si erano, infatti, esercitati – nel 2001 – Sacconi, Biagi & c.

Tornando alla rottamazione del lavoro: si è trattato, in definitiva, di una sorta di “violenza di gruppo”; rispetto alla quale, però, ritengo vadano individuati livelli diversi di responsabilità.

Paradossalmente – guardando dal punto di vista delle vittime – riconoscerei le “attenuanti generiche” a quanti, in effetti, hanno operato perché motivati da una sorta di “comunione d’intenti”. In questo senso, ai vari Berlusconi Sacconi, Biagi, Ichino, Monti, Fornero e Renzi (in ordine di apparizione) – concederei il diritto/dovere di aver operato a tutela di quegli interessi che una volta anche D’Alema – tanti, ma proprio tanti anni fa – denunciava quali “Poteri forti”!

Addebiterei, invece, addirittura “aggravanti” al Pd e alle OO. SS.

Al primo va sicuramente addossata la colpa di aver avviato la sua definitiva e inarrestabile “deriva a destra” già dal momento in cui ha, nei fatti, condiviso e sostenuto il governo (pseudo) “tecnico” di Mario Monti. Al riguardo, è già stato rilevato quanto abbia contribuito la Fornero – nel suo pur breve mandato – a scuotere dalle fondamenta i diritti dei lavoratori!

L’unica consolazione, se tale può considerarsi, è che, contemporaneamente, la cronaca degli ultimi mesi – contrassegnati dal convinto sostegno del Pd al suo degno Segretario generale – conferma, di là dalla “pantomima”, di volta in volta, messa in atto dalla    timida e irrilevante minoranza interna – che il Partito democratico ha, finalmente, “gettato la maschera” di sinistra e si appresta, con Renzi, verso ben altri approdi.

A Cisl e Uil – fatta salva la tardiva “via di Damasco” imboccata dal neo Segretario generale della seconda – attribuisco, invece, la grande responsabilità di essersi illuse circa la possibilità di sottrarsi all’ingombrante “peso” della Cgil, stabilendo un “canale privilegiato” con un potere politico che, purtroppo per loro, puntava solo a “disarmare” la Cgil. Gli altri – in realtà – non erano mai stati considerati né antagonisti, né meritevoli di particolari attenzioni e considerazioni!

Infine, come già anticipato, alla Cgil contesto, in particolare, il condizionamento politico – e l’induzione allo stato di surplace – subito, per opera del Pd, all’epoca del governo Monti. Anch’essa, in effetti, vittima di quella particolarissima (e spesso strumentale) sindrome della “responsabilità politica nei confronti dei Paese”, che, nel corso degli anni, ha fatto ingoiare tanti “bocconi amari”; ai sostenitori ed elettori dell’ex Pci, come dell’attuale Pd!

In definitiva, riterrei di aver conseguito l’obiettivo prefissomi se – dopo aver letto questa nota – la signora che risponde all’improbabile nome di Maryse Claire Corazzol Cordial, ritenesse opportuno esitare (anche solo per un attimo) prima di additare – con assoluta certezza – chi ha rottamato il lavoro in Italia.

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale Lavoro e Salute

24/2/2015

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