È Sanders il candidato che può battere Trump

Uno spettro si aggira sulla corsa per la nomination democratica: la grossa e sformata figura di Donald Trump. Il trauma provocato dalla sua vittoria nel novembre 2016 e la stagione di avidità, violenza e arroganza che ne è seguita (senza che l’opposizione organizzata sia riuscita a fare molto per contrastarlo), conferisce a Trump una posizione speciale nel dibattito dei Democratici.

I sondaggi sono unanimi: una larga maggioranza degli elettori alle primarie democratiche (tra il 60 e il 65%) afferma che è più importante trovare un candidato che possa battere Trump che uno con cui essere d’accordo. Non è una visione comune tra gli elettori che si oppongono a un presidente in carica. Alla vigilia delle elezioni del 2004, per esempio, quando il presidente da battere era il repubblicano George W. Bush, i democratici che sostenevano questa posizione erano meno della metà dell’elettorato.

Oggi, nell’anno delle primarie e delle presidenziali, Bernie Sanders e molti dei suoi sostenitori affermano che non basta sconfiggere Trump, ma che bisogna organizzarsi per trasformare anche le pessime condizioni economiche che hanno costituito la causa della sua vittoria.

Tutto questo è vero, ma è anche vero che quest’anno ci sono le elezioni da vincere. Gli Stati uniti semplicemente non possono permettersi un’altra vittoria di Trump e altri quattro anni di un governo di questa destra famelica. Per evitare che l’incubo si realizzi, dobbiamo convincere gli elettori democratici più scettici che Sanders può e vuole sconfiggere Trump alle elezioni presidenziali.

La verità è che ai democratici Bernie piace davvero: è il candidato alle primarie con il più alto tasso di gradimento ed è in testa tra gli elettori democratici che danno priorità ai temi, ovvero al programma. Però, contemporaneamente, Sanders fa fatica a convincere quei democratici per cui la priorità è trovare un modo per battere Trump. Infatti, l’establishement del partito e i media suoi alleati sembrano aver persuaso molti elettori che Sanders è «troppo estremista» o «troppo di sinistra» per vincere.

Anzi, mentre lui si fa strada nei primi stati dove si vota per le primarie, possiamo immaginare che i «pareri degli esperti» e i moniti degli «opinionisti» si intensificheranno. Gran parte degli argomenti contro Sanders si basano sull’analogia con esperienze come quella di George McGovern, Jeremy Corbyn o di qualsiasi altro leader storico o straniero che appare adatto a incarnare il senso della sconfitta sicura.

In realtà, non c’è alcun bisogno di attraversare l’Atlantico o di risalire indietro nel tempo di generazioni per trovare esempi di débalce politica negli Stati uniti: basta guardare a ciò che ha fatto l’establishment democratico solo tre anni fa, producendosi nella più sonora e umiliante sconfitta elettorale della storia del paese. Ma non biasimeremo i centristi per aver scelto questa strategia, perché è l’unica cosa che potevano fare. I moderati democratici sanno bene che il loro blasone politico si è scolorito e che non parla più ai bisogni e ai desideri della gente. Perciò, l’unica cosa che gli resta è la paura: sperare che la prospettiva di un’altra vittoria di Donald Trump possa risultare abbastanza terrificante da convincere migliaia di elettori a ingoiare qualsiasi rospo gli rifili l’establisment democratico, anche il più indigesto.

Ma questa volta alle primarie i democratici scettici dovrebbero fidarsi di più del loro coraggio. Perché si dà il caso che il candidato che preferiscono, Bernie Sanders, è anche il candidato con le maggiori possibilità di buttare fuori Trump dalla Casa Bianca.

Mentre nelle proiezioni nessun altro candidato democratico sembra riuscire a sfuggire al tetro destino del 2016, il confronto tra Sanders e Trump propone agli americani una scelta netta: da un lato, il socialista che vuole ottenere l’assistenza sanitaria universale gratuita e cancellare il debito, dall’altro il ricco cazzone che non si preoccupa se vivi o muori, purché il tuo capo continui a fare soldi.

La vera debolezza elettorale di Trump non è la sua rozzezza, la sua inclinazione congenita alla menzogna e neanche il fatto di essere personalmente corrotto. È la sua funzione di strumento di un Partito repubblicano che rappresenta i ricchi e il palese disinteresse nel miglioramento delle condizioni di vita per la stragrande maggioranza degli americani che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese.

Negli ultimi quarant’anni, nessun politico negli Stati uniti si è concentrato così profondamente e instancabilmente sulle difficoltà economiche della gente comune quanto Bernie Sanders. La sua enfasi sulle difficoltà di arrivare a fine mese lo ha reso il candidato alla presidenza più popolare, soprattutto tra gli elettori indipendenti. Perciò, alle prossime elezioni presidenziali (competizione molto più ampia di qualsiasi corsa per le primarie) nessuno sarà meglio preparato di Sanders a usare l’arma dell’economia popolare per annientare Donald Trump.

Da Obama a Trump a Sanders

Per i democratici a cui la memoria del 2016 ancora brucia è facile immaginarsi Donald Trump come un’astuta macchina elettorale dotata di poteri formidabili e occulti. Ma la realtà è ben diversa, anzi quasi opposta: Trump è un leader storicamente impopolare che ha vinto di stretta misura contro una rivale altrettanto impopolare. A parte uno zoccolo di Repubblicani irriducibili, infatti, la maggior parte degli statunitensi non lo ama affatto. Fin dai primi mesi del suo mandato il gradimento complessivo di Trump oscillava tra il 38 e il 42%, il che lo rende di gran lunga il presidente meno amato nella storia moderna degli Stati uniti. Si pensi che gli ultimi due presidenti in carica ad aver perso le elezioni, George H.W. Bush e Jimmy Carter, potevano contare su numeri molto migliori nei loro primi tre anni di mandato.

Anche negli stati chiave in cui ha sconfitto Hillary Clinton nel 2016, cioè in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, il consenso per Trump è sceso sotto il 50% da almeno un anno.

Insomma, Trump può essere battuto, e per farlo è necessario vincere su tre tipologie di elettori tipiche degli stati della Rust belt: per prima cosa i democratici e gli indipendenti che hanno votato Trump dopo aver sostenuto Obama per due volte; secondo, gli elettori di Obama delusi che nel 2016 si sono astenuti; terzo, il gruppo ancora più vasto di americani che di solito non votano affatto.

C’è ragione di credere che sul piano della mera ostinazione elettorale Sanders sia il candidato democratico con la migliore possibilità di riconquistare i sostenitori di Obama nella Rust belt disaffezionati dal Partito democratico. I sondaggi condotti sugli elettori che avevano votato Obama prima di votare Trump nel 2016 mostrano Sanders e Joe Biden molto più avanti di Elizabeth Warren nel Michigan e nel Wisconsin; mentre in Pennsylvania sembra sia ancora Biden il più forte, anche se con uno scarto minimo.

Ma la vera sorpresa è che nelle 206 contee che nel 2016 hanno scelto Trump, avendo votato Obama nel 2008 e nel 2012, Sanders supera di gran lunga tutti i suoi concorrenti. A settembre dell’anno scorso, il senatore del Vermont aveva raccolto 81.841 dollari di donazioni, da 33.185 donatori individuali, cioè circa tre volte quelle raccolte da Biden, Warren o Pete Buttigieg.

Un tasso così alto di donazioni da pochi dollari nelle contee della disillusione post-obamiana (e la convizione di cui è indice) mostra che in queste zone Sanders ha un forte sostegno popolare. Ha senso, visto che il suo messaggio politico si rivolge proprio a quella fascia di americani che si impoveriscono mentre le élite continuano ad accumulare ricchezza. È il fenomeno che caratterizza buona parte della classe operaia della cintura deindustrializzata degli Stati uniti, piantata in asso dalle multinazionali andate a cercare altrove manodopera a basso costo e margini di profitto maggiori.

Lo studio più dettagliato sugli swing voters, gli elettori indecisi che saranno decisivi nelle prossime presidenziali, è stato condotto da due scienziati politici della Johns Hopkins University, che di recente hanno confermato un assunto già noto ad alcuni analisti: la «preoccupazione economica» ha giocato un ruolo cruciale nelle elezioni del 2016. Uno sguardo attento ai dati elettorali ufficiali forniti dall’American National Elections Survey mostra, infatti, che gli elettori di Obama che nel 2016 sono passati a Trump erano, in media, più preoccupati per la loro «situazione finanziaria attuale» rispetto a chi era rimasto in campo democratico votando Clinton o agli elettori repubblicani che prima di Trump avevano votato Romney.

Gli elettori di Obama passati a Trump risultano anche molto più propensi rispetto ai Repubblicani (e almeno tanto quanto i Democratici che rispettano la linea di partito) a credere che «i ricchi comprino le elezioni» e a ritenere giusto aumentare le tasse per i più abbienti. E guardano anche con più favore sia degli elettori repubblicani che dei democratici alla scelta di opporsi agli accordi di libero scambio che costano posti di lavoro agli americani.

Trump ha corteggiato e conquistato questi elettori di Obama, concludono gli autori della Johns Hopkins University, con una combinazione di «bigottismo, qualunquismo e populismo economico». Nel 2020 i Repubblicani tenteranno sicuramente di riproporre la stessa ricetta, e se i Democratici non riusciranno a rispondere con un’agenda economica alternativa credibile, che dia il senso di un vero cambiamento, saranno destinati a perdere di nuovo la corsa agli swing voters, e così probabilmente anche le elezioni.

Joe Biden non può incarnare questo cambiamento, nonostante la popolarità (in caduta libera) di cui gode tra i democratici in virtù degli anni passati al fianco di Obama.

Biden si oppone a misure forti per tassare gli ultra-ricchi e non è un caso che riceva più donazioni da miliardari di qualsiasi altro candidato in corsa, Trump compreso. Peggio ancora, Biden non ha credibilità come populista economico: ha dedicato gran parte della sua vita politica a sostenere il liberismo, compresi accordi come il Nafta, il Partenariato Trans-Pacifico e la normalizzazione delle relazioni commerciali con la Cina.

La sua lunga storia di amicizia con banche e multinazionali, per non parlare del redditizio ruolo di suo figlio nel consiglio di amministrazione di una società di gas ucraina, soffocherà sicuramente qualsiasi tentativo democratico di combattere Trump con argomentazioni economiche. Un eventuale confronto Biden-Trump, perciò, ha tutte le caratteristiche per diventare una ripetizione della tragedia che nel 2016 ha portato Trump alla Casa Bianca, ma questa volta ripetuta in farsa. Tra i due candidati che si stanno contendendo gli indecisi della Rust belt, insomma, solo Bernie Sanders ha le proposte economiche che servono ai democratici per vincere.

I sondaggi per Bernie

Importanti quanto gli elettori di Obama passati a Trump sono i milioni di elettori di Obama che nel 2016 si sono astenuti. Una buona radiografia delle ultime elezioni presidenziali sottolinea che l’affluenza alle urne negli Stati chiave nel 2016 è stata particolarmente deprimente: in Wisconsin, per esempio, è diminuita del 3%, in Ohio del 4%. Per vincere nel 2020, l’avversario di Trump dovrà recuperare questi margini e, possibilmente, superarli.

Alcuni commentatori si sono affrettati a trovare la causa della bassa affluenza nelle leggi molto restrittive sull’iscrizione ai registri elettorali in vigore in alcuni Stati. È come dire che non si può fare nulla per riportare gli elettori alle urne. Ma allora come si spiegano quegli 1,7 milioni di persone che nel 2016 (molti di più che nel 2012) sono comunque andati a votare a novembre esprimendosi però solo su altre consultazioni e astenendosi sul candidato alla presidenza?

Nel Michigan, Donald Trump ha vinto con uno scarto di circa diecimila voti, mentre le persone che hanno votato senza indicare una preferenza per il presidente sono state settantacinquemila, oltre a quasi 3 milioni di elettori idonei che non si sono nemmeno presentati alle urne.

Il Pew Research Center ha rilevato che il motivo principale di astensione nel 2016, a livello nazionale, è il fatto di «non apprezzare i candidati o i temi della campagna elettorale». Il 25% degli astenuti ha espressamente dichiarato di rimanere a casa per repulsione verso entrambi i candidati, mentre nel 2012 la percentuale era del 13% e nel 2000 dell’8%.

La verità è che molte persone dei cosiddetti swing states, compresi molti elettori democratici altrimenti leali con i candidati espressi dal partito, non hanno apprezzato la scelta di Hillary Clinton, che giustamente associavano a una prosecuzione della solita politica di establishment. Perciò, come dimostrato da Malaika Jabali in un suo articolo recente, la stessa preoccupazione economica che ha contribuito a far rivolgere alcuni elettori bianchi di Obama verso Trump ha contribuito a dissuadere molti elettori neri di Obama dall’andare a votare nel 2016, specialmente in città elettoralmente contese come Milwaukee, Detroit e Philadelphia.

Un sondaggio ha rilevato che gli elettori di Obama che nel 2016 si sono astenuti sono in maggioranza quelli per cui la sopravvivenza economica è la priorità: il 64% degli ex elettori di Obama astenuti nel 2016 ritiene temi prioritari l’economia, l’assistenza sanitaria e la previdenza sociale, molto di più rispetto alla media generale degli elettori, che è del 55%, e anche della media degli ex elettori di Obama che nel 2016 hanno scelto Trump (58%).

Non sbaglia chi pensa che ciò sia un indizio del fatto che questi elettori critici potrebbero essere ricettivi rispetto al messaggio di Bernie Sanders su salute, istruzione e lavoro per tutti: Il favore di Bernie in questo gruppo (+38%) supera di gran lunga quello di Elizabeth Warren (+16%) e ed è più alto anche di quello per Joe Biden (+35%).

Svegliamo il gigante addormentato

Ma l’argomento più forte a favore di Bernie Sanders riguarda forse un gruppo molto più grande di qualsiasi fetta di elettori di Obama sfiduciati: sono le decine di milioni di americani, oltre il 40% del paese, che di solito non votano.

Gli astenuti d’America, compresi quelli degli Stati chiave, sono per la stragrande maggioranza giovani, non bianchi e working class. Bernie è decisamente popolare in tutte queste categorie, il che suggerisce che sia di gran lunga il miglior candidato per mobilitare questo vasto esercito sopito.

Nella tornata delle primarie democratiche e repubblicane del 2016 Sanders ha ottenuto più voti dagli under 30 di quanti non ne abbiano ricevuti Trump e Clinton messi insieme. E anche oggi il senatore del Vermont è di gran lunga il favorito tra i giovani alle primarie democratiche. Il gradimento di Trump tra gli under 30 è ridicolo ma, come abbiamo imparato quattro anni fa, ciò non significa che ogni giovane che disprezza Trump vada a votare.

I Democratici sono di fronte a un bivio: o nominare uno sfidante che entusiasmi i giovani e possa mobilitarli in massa, oppure dare la nomination a qualcuno che non motiverà i giovani facilitando la vittoria di Trump.

I giovani elettori neri e latini sono particolarmente entusiasti di Bernie, e anche se il senatore del Vermont è dietro a Joe Biden tra gli elettori neri più anziani, questi ultimi si sono dimostrati uno zoccolo duro affidabile per i Democratici, e probabilmente voteranno democratico indipendentemente dal candidato. Insomma, negli Stati chiave della Rust belt e della Sun belt il margine di vittoria può dipendere dalla capacità del candidato di portare alle urne giovani di colore che sono tipicamente meno inclini a votare. E nessun politico negli Stati uniti sa farlo meglio di Sanders.

Volendo usare una categoria generalizzante, si può dire che Sanders sia il candidato della working class, categoria che comprende la maggior parte dei giovani e dei non bianchi, ma anche molti bianchi anziani.

Chi sostiene Sanders ha statisticamente più possibilità di non avere una laurea rispetto ai supporter degli altri candidati. Sanders fa la parte del leone nella raccolta di donazioni individuali da parte di infermieri, insegnanti, lavoratori a ore, camerieri, tecnici, camionisti e lavoratori edili. All’opposto, Biden riceve il maggior numero di donazioni da amministratori delegati, avvocati, promotori immobiliari e investitori.

Le persone che vivono del loro salario costituiscono la maggioranza della popolazione statunitense, e i lavoratori a basso reddito costituiscono la maggioranza delle persone che non votano. Quasi tre quarti degli astenuti del 2016 avevano un reddito familiare inferiore a 75.000 dollari.

Se vogliamo che gli astenuti o gli elettori incostanti degli Stati chiave questa volta vadano a votare, il candidato che proponiamo loro deve avere un ascendente su chi lavora e chi ha basso reddito. Quindi deve essere Bernie Sanders.

Da anni ormai Sanders schiaccia Trump nei sondaggi, e il suo vantaggio è particolarmente forte tra gli elettori a bassa propensione al voto. Una rilevazione recente di SurveyUsa ha mostrato che nel confronto diretto con Trump, Bernie otterrebbe alcuni punti in più di Biden (e più di Warren) tra gli elettori che guadagnano meno di 80.000 dollari e quelli che si definiscono «poveri» o «working class». E la maggior parte di loro sono iscritti ai registri elettorali [quindi non incorrono nei problemi dalle norme stringenti sull’iscrizione alle liste elettorali, messe sotto accusa in alcuni Stati nel 2016, ndt]. Tra i Democratici candidati alla presidenza, Sanders ha chiaramente la migliore possibilità di risvegliare il gigante addormentato dei giovani e dei non votanti della working class e traghettarli nell’elettorato attivo.

Gli Stati uniti hanno tra i tassi di affluenza alle urne più bassi al mondo. Certo, considerando la pervasività dell’alienazione politica della working class americana, nessuna elezione ci metterà alla pari con paesi come il Belgio o la Svezia dove vota oltre l’80% della popolazione, rispetto al misero 55% delle presidenziali del 2016. Ma proprio perché l’astensione negli Stati uniti è così alta, un aumento dell’affluenza alle urne tra le persone che di solito non votano potrebbe essere un fattore decisivo nel 2020. Bernie Sanders può attrarre voti dall’astesnsione. Nessun altro può farlo.

Una politica di classe su larga scala

Il nostro entusiasmo per una possibile sfida tra Sanders e Trump non si limita solo alla convinzione che Sanders uscirebbe vincitore da questa sfida, perché anche il modo in cui Sanders vincerà avrà enormi implicazioni per il futuro della politica statunitense.

Innanzitutto, dobbiamo ricordare un semplice dato numerico, facile da dimenticare per chi fa politica quotidianamente, per vocazione o per ossessione: le elezioni presidenziali sono una cosa molto più grossa delle primarie.

I votanti alle primarie democratiche del 2016 sono stati circa 31 milioni, ed è stata una delle competizioni più accese della storia degli Stati uniti. Alle presidenziali di quello stesso anno hanno votato oltre 136 milioni di americani. Lo stesso rapporto si applica alle spese per la campagna elettorale: Clinton e Sanders hanno speso complessivamente circa 445 milioni di dollari per le primarie, mentre per le presidenziali la spesa di Clinton e Trump si aggirava intorno a 1,8 miliardi di dollari.

Sfruttando le primarie del 2016 come una vetrina, Sanders è stato in grado di dimostrare che idee considerate radicali e di sinistra come il Medicare For All, l’università pubblica gratuita e il salario minimo a 15 dollari l’ora godono in realtà di un’enorme base di sostegno, che va ben oltre le cosiddette nicchie di progressisti. Questa constatazione ha segnato profondamente il Partito democratico, che oggi ha assorbito gran parte della campagna di Sanders sia dal punto di vista del programma che delle argomentazioni usate, e probabilmente plasmerà la politica americana per gli anni a venire.

Perciò, una campagna elettorale presidenziale rappresenterebbe un’opportunità di visibiltià analoga per Sanders, ma su una scala circa quattro volte superiore.

Enormi fette di pubblico statunitense che prestano poca o nessuna attenzione alle primarie si ritroverebbero improvvisamente a considerare per la prima volta gli elementi fondamentali del programma politico di Bernie: la sua netta definizione della guerra in corso tra l’1% e il 99% della popolazione; l’impegno a istituire l’assistenza sanitaria pubblica gratuita negli Stati uniti, istruzione e posti di lavoro per tutti a spese dei profitti degli amministratori delegati e degli azionisti.

Questa politica di classe di base, questa pur semplice piattaforma socialdemocratica, sono state assenti dal Partito democratico americano per oltre mezzo secolo, passate sotto silenzio dai media televisivi e della carta stampata. Ma, se Sanders diventasse il candidato del partito alla presidenza degli Stati uniti per il 2020, i suoi argomenti dovranno per forza di cose essere presentati al pubblico su una scala che possiamo a malapena immaginare oggi.

Cosa succede quando un candidato di un grande partito non parla più soltanto ai militanti fissati con la politica, ma a 136 milioni di elettori, o a 200 milioni di possibili elettori? E cosa succede se il suo messaggio è un nuovo tipo di Yes We Can: non «sì possiamo eleggere un candidato con una faccia nuova», ma «sì, possiamo garantire la dignità di ogni americano e sì, possiamo rompere la morsa della tirannia di classe dei miliardari»?

Bernie contro i miliardari

La caratteristica forse più promettente di questo scenario, in ogni caso, è il vivido contrasto che si creerebbe nel caso di un confronto diretto tra Sanders e Trump. (Certo, i due non saranno gli unici candidati alle presidenziali, ma il bipolarismo della politica statunitense e l’attuale profondità dello scontro tra Democratici e Repubblicani renderà irrilevante ogni altro contendente).

Poiché la politica di Bernie enfatizza il conflitto di classe, una sfida Trump-Sanders promette di non essere un mero scontro di valori e norme, di ambienti e modi, ma un referendum sul ruolo dei ricchi, e di tutti gli altri, nella società americana, dove ognuno dei due contendenti rappresenta un lato di questo campo.

Sanders ci ha già dato un’anteprima di ciò che sarà. Quando ha lanciato la sua campagna a marzo, ha contrapposto la sua infanzia a quella di Trump, dicendo: «Non ho avuto un padre che mi ha dato milioni di dollari per costruire grattacieli di lusso, casinò e country club. Non provengo da una famiglia che mi ha dato un sussidio di 200.000 dollari all’anno a partire dall’età di tre anni. […] A differenza di Donald Trump, che ha messo in shut down il paese per un capriccio lasciando oltre 800.000 dipendenti federali senza stipendio, io so cosa significa crescere in una famiglia dove si lotta per arrivare alla fine del mese».

E infine, in un crescendo retorico in cui sottolineava l’impatto sociale negativo della ricchezza di Trump contrapponendola al suo impegno di tutta la vita per l’uguaglianza, aggiungeva: «Non vengo da una famiglia che mi ha insegnato a costruire un impero aziendale attraverso la discriminazione abitativa. Ho protestato contro la discriminazione abitativa, sono stato arrestato per aver protestato contro la segregazione scolastica».

Con Trump, i democratici hanno un’occasione d’oro per scagliarsi contro gli ultra-ricchi, personificati da un miliardario che è riuscito a spianarsi la strada verso la Casa Bianca, ma finora l’hanno sprecata, scegliendo di concentrarsi sulla buffoneria di Trump e sulla sua tendenza a infrangere le norme a scapito del resto.

Un esempio chiarissimo è la procedura di impeachment, che si incentra soltanto sui traffici loschi di Trump in Ucraina piuttosto che sui suoi sforzi osceni per arricchirsi e proteggere la sua classe di riferimento. Politicamente, i democratici non riescono a colpire il punto più debole di Trump: il modo in cui la sua amministrazione ha funzionato, come quasi tutte le amministrazioni repubblicane, come una macchina per drenare ricchezza da chi lavora ai padroni.

Nel del 2016, Hillary Clinton ha lasciato fuori dalla sua campagna la questione della sussistenza delle famiglie e ha scelto di fare una guerra delle buone maniere contro Trump. Da allora, l’establishment democratico e i suoi alleati nei media hanno continuato a mettere questioni come «il carattere», la «tenacia» o l’affidabilità al centro della strategia di opposizione. Guardando il canale Msnbc si ha l’impressione che il problema principale di Trump sia la sua antipatia e incapacità di risultare simpatico a tavola, piuttosto che di essere un plutocrate in un paese governato da plutocrati.

I leader dell’establishment e gli esperti hanno preso persino l’abitudine di accusarlo di essere meno ricco di quanto sostiene, per farlo passare come un pessimo uomo d’affari. Si divertono a chiamarlo perdente, quando in realtà la storia e la carriera di Trump sono l’immagine stessa del trionfo di un sistema progettato per concentrare la ricchezza al vertice e trasformarla alchemicamente in potere politico.

Trump è il simbolo perfetto della perversione della nostra economia capitalista fallita, la sua presidenza è l’epilogo grottesco di un ordine politico grottesco. E nessuno meglio di Bernie Sanders potrà rendere questa contraddizione così lampante.

Mentre Biden si lascia prendere dalla nostalgia per le «norme di una volta» e Warren celebra la santità delle regole, Sanders parla di carne e di patate. La sua indipendenza rispetto alle lobby dei grandi donatori gli permette di fare ciò che Clinton non ha fatto e che Biden non farà: far leva sulla presidenza Trump per puntare il dito contro tutto l’establishment neoliberista bipartisan. Solo Sanders può dire davvero «basta» a tutto questo.

È una strategia utile non solo nel breve termine, per la sfida presidenziale, ma anche per l’obiettivo più ambizioso di rimettere nel discorso politico americano una sana dose di antagonismo di classe. È quello di cui abbiamo bisogno per lottare efficacemente contro il sistema economico e politico che ha prodotto Donald Trump.

Sporcarsi le mani

A sentire i commenti dei media mainstream non si direbbe, ma finora Sanders è stato relativamente tenero con i suoi principali avversari. Questo perché le regole delle primarie sono diverse da quelle delle elezioni presidenziali: i candidati corrono il rischio di alienarsi futuri sostenitori se fanno critiche troppo dure ai loro avversari di partito, problema che non si pone una volta ottenuta la nomination.

Perciò ci si potrebbe aspettare che alle presidenziali Sanders si comporti un po’ più come ha fatto all’epoca della sua prima corsa al Senato contro il multimilionario repubblicano Rich Tarrant.

Nel 2006, il Vermont era uno stato vinto dai Democratici, ma appena sei anni prima il senatore repubblicano Jim Jeffords aveva ottenuto la rielezione con 40 punti di scarto sullo sfidante. Percependo l’opportunità, Tarrant aveva investito milioni di dollari (di tasca propria) per una campagna che puntava tutto sul bollare le posizioni di Sanders (all’epoca ancora di testimonianza su scala nazionale) come radicali e un po’ strampalate.

Così Bernie si è sporcato le mani contro «Richie Rich», attivando la sua base di piccoli donatori e accusando il suo avversario di volersi comprare le elezioni con i suoi soldi, affermando che fosse l’esempio lampante di quanto l’economia fosse corrotta in questo paese. Risultato: nella più costosa campagna del Senato della storia del Vermont, Bernie Sanders ha battutto Rich Tarrant con 33 punti di scarto.

Se Sanders scatenasse oggi questa stessa energia contro Donald Trump, lo scontro tra i due rischierebbe di diventare la più grande rappresentazione del conflitto di classe nella storia moderna della politica elettorale americana.

La campagna elettorale, del resto, si scrive praticamente da sola. Nella New York degli anni Quaranta, due ragazzi nascono a pochi anni e a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. Uno è figlio di un magnate dell’immobiliare e cresce in una sontuosa villa con il colonnato, facendosi strada nel mondo seduto nella limousine del padre. L’altro è figlio di un immigrato squattrinato la cui famiglia è stata uccisa nell’Olocausto, cresce in un angusto appartamento di Brooklyn dormendo su un divano letto in soggiorno.

Il primo frequenta le migliori scuole private che il denaro può comprare, dedica la sua vita alla ricerca del profitto e del potere, abusando dei suoi affittuari, sfruttando i lavoratori e ostentando ricchezza nell’alta società newyorkese. Il secondo passa la vita in trincea lavorando per gli altri, per la maggioranza: protestando contro la segregazione a Chicago, proteggendo gli inquilini poveri di Burlington, combattendo a fianco dei lavoratori di Washington e puntando il dito contro l’élite viziata che governa il mondo dai suoi attici.

Sarebbe uno scontro mai visto prima in un’elezione presidenziale. In realtà, sarebbe quasi un unicum nella storia degli Stati uniti, tanto la politica di classe è stata sepolta in questo paese sotto la patina del consenso bipartisan pro-liberista con tutto il suo blaterare di meritocrazia e delle meraviglie della libera impresa capitalista.

Il miliardario in cerca di sé stesso contro il militante che dedica la vita alla working class: sarebbe un confronto estremamente potente ed emblematico di quel profondo divario sociale ed economico che le persone capiscono intuitivamente ma che non riescono ad articolare se non lo vedono esemplificato. Una battaglia campale, di quelle che spingono anche chi non vuole a schierarsi almeno una volta nella vita.

Chi vede Sanders come un pericolo di solito intende che il suo programma e i suoi argomenti sono troppo al di fuori della zona di comfort del mainstream politico democratico. Ma in questo frangente della storia è la zona di comfort a rappresentare un pericolo. La destra ha già approfittato della voglia di cambiamento della gente per arricchire ancora di più i padroni dell’universo. Chi si oppone a questa tendenza dovrà dunque attingere allo stesso desiderio per fare l’esatto contrario.

L’ambiziosa agenda di Sanders è un modo per allontanarsi in modo netto dalla vulgata neoliberista dei Democatici americani, ed è proprio quello che ci serve per vincere. Se vogliamo battere Trump e costruire una forza in grado di affrontare i sistemi e le istituzioni che lo hanno prodotto, non possiamo far altro che nominare Bernie Sanders candidato presidente degli Stati uniti.

Meagan Day è edattrice di Jacobin. Matt Karp è professore associato di Storia all’Università di Princeton.

Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.

4/6/2020 jacobinitalia.it

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