Fine della storia o fine della democrazia?

Il più forte non è mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, a meno che non trasformi la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere
(Jean Jacques Rousseau)

Nel 1992 il politologo statunitense Francis Fukuyama, ispirato dall’irreversibile dissoluzione dell’Urss, sviluppava, nel suo immeritatamente noto La fine della storia e l’ultimo uomo, la tesi secondo cui, dopo il crollo del muro di Berlino, l’umanità avrebbe raggiunto l’apice del proprio processo evolutivo, non più suscettibile di sviluppi e scossoni. Una sorta di hegeliana filosofia della storia che faceva della formazione economico-sociale capitalistica l’approdo conclusivo della civiltà umana pervenuta alla sua maturità.
La liberaldemocrazia, con tutto il corredo dei valori e dello stile di vita occidentale, era da questi idolatrata come la forma definitiva di governo del mondo; un mondo ormai pacificato e perciò capace di bandire per sempre la guerra.
Non ci volle molto perché le dure repliche della storia, quella reale, non quella che esisteva solo nella narrazione caricaturale di Fukuyama, si incaricassero di dimostrare che il mondo ad una dimensione, quella del mercato, non aveva pacificato un bel niente e che lo scenario che si squadernava davanti ai nostri occhi non rifletteva per nulla una condizione universale di indisturbata felicità, ma un drammatico groviglio di contraddizioni e di ingiustizie, molto prossimo a quello che a partire dal 1914 aveva scatenato le più sanguinose ecatombi della storia.
Persino il buon Fukuyama dovette poi ricredersi, ma continuando a non capire nulla finì per attribuire il fallimento del suo fragile raccontino alle più bizzarre diavolerie, come quella secondo cui erano le scienze eugenetiche e biogenetiche, non l’intrinseca essenza del capitalismo, ad avere minato gli ideali progressisti della democrazia liberale, generando una mutazione radicale della natura umana.
Senza soluzione di continuità, ça va sans dire, riesplosero i conflitti fra paesi capitalistici per il dominio del mondo: conflitti interni alle classi dominanti, pur nelle diverse varianti politiche in cui si esprime il dominio dei detentori del capitale.

Centralizzazione dei capitali e concentrazione del potere

Nel presente, l’80% del capitale azionario globale è controllato da meno del 2% degli azionisti. Il processo di progressiva centralizzazione dei capitali – già descritto da Karl Marx – ha come corrispettivo una inaudita concentrazione del potere politico che mette in discussione la stessa divisione dei poteri, modello canonico delle democrazie liberali.
La concentrazione del potere economico, in proporzioni mai viste prima nella storia umana, “induce una corrispondente concentrazione di tutti i processi produttivi associati all’esercizio del potere: dalla scienza, all’informazione, alla propaganda, fino al potere politico in senso stretto e alle istituzioni che lo regolano” .
La voracità cannibalesca del capitale trova il terreno più fertile durante le crisi, quando i “piccoli”, spinti fuori mercato, vengono fagocitati dai più grandi, generando una spirale acquisitiva che vede affermarsi sempre meno numerosi, ma sempre più forti, “proprietari universali”. Il mito fondativo del capitalismo, la libera concorrenza, si traduce nel suo esatto opposto: una potentissima e inamovibile oligarchia capitalistica che controlla tutto, dalla produzione ai servizi, dalla distribuzione ai media, diventa la pietra angolare che sostiene l’intera architettura sociale, plasmando la vita delle comunità, i modelli di consumo, di vita, l’immaginario.

Gli “immarcescibili valori” dell’Occidente

Era stata Margareth Thatcher ad aver pronunciato a suo tempo parole decisive, inscritte a lettere di fuoco nella narrazione neoliberista: “la società non esiste, esistono solo gli individui”. Per cui la chiave del progresso risiederebbe nell’egoismo dei singoli in competizione fra loro, non nel culto “socialista” di un’universale cooperazione. Boris Johnson, con la levità che caratterizza l’eloquio dell’uomo, ha ribadito di recente che “tutte le forme contemporanee di progresso sono nient’altro che il frutto del greed capitalistico, della fame di denaro che guida il mondo”. Il soffio vitale che anima la nostra vita è dunque la competizione senza freni fra individui, fra imprese, fra Stati.
La competizione, dunque, come combustibile intrinsecamente conflittuale, sino alle conseguenze più estreme, di relazioni sociali ostili, che riecheggiano l’antico motto latino mors tua, vita mea, cinico substrato ideologico dell’individualismo proprietario dei tempi nostri.
“Tutti parlano di pace – scriveva nel 1934 Maria Montessori, fatalmente messa all’indice dal regime fascista e costretta all’emigrazione – ma nessuno educa alla pace. A questo mondo si educa per la competizione e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace”.
Non è dunque difficile capire perché una concezione delle relazioni umane sussunta dalla competizione mercatista non sia lontana dall’hobbesiano homo homini lupus e perché la guerra, nel tempo presente, entri a pieno titolo nell’ordine delle possibilità da esperire per assicurarsi dominio e potere, persino quando si materializza l’incubo nucleare. Ed ecco spiegato anche il motivo per cui, da gran tempo, dalla Trilateral di David Rockefeller all’editto della banca d’affari Morgan Stanley, il grande capitale consideri un fardello di cui sbarazzarsi le costituzioni democratiche sortite dopo la sconfitta del nazismo e dei fascismi perché inquinate dall’ideologia socialista.
Gli innumerevoli conflitti scatenati ovunque senza soluzione di continuità, sono stati ogni volta spacciati dalla narrazione asimmetrica dell’apparato propagandistico al servizio del capitale come l’esportazione, divenuta “seriale”, degli immarcescibili valori dell’Occidente, da parte del cosiddetto “mondo libero”, impegnato in una missione salvifica in ogni angolo del globo terraqueo.
La democrazia, neppure nella più tiepida versione liberaldemocratica, ha mai rappresentato un criterio discriminante per distinguere amici e nemici. Gli uni e gli altri sono catalogati esclusivamente in ragione degli interessi a cui sono asserviti. Così, la violazione dei diritti umani, l’esercizio dittatoriale del potere, la persecuzione delle minoranze, la repressione, anche la più dura, del dissenso non costituiscono in alcun modo un criterio discriminante per la formazione di solide alleanze. Vi possono entrare senza la minima titubanza anche regimi dittatoriali e di ispirazione fascista, se il gioco vale la candela.

Sovranità del capitale Vs sovranità degli Stati

L’attacco del sistema delle imprese multinazionali (in gran parte nord-americane e canadesi) ai vincoli sociali previsti dalle costituzioni dei paesi europei attraversa da quasi trent’anni la storia del vecchio continente.
Il 13 febbraio 2013, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama e i leader dell’Unione Europea si impegnarono ad avviare negoziati per un accordo transatlantico per il libero commercio e la libertà degli investimenti (TTIP). Si trattava del negoziato per la costruzione di un’area di libero scambio fra Europa ed Usa, il cosiddetto Trattato di partenariato trans-atlantico, sul modello di altre, famigerate intese liberoscambiste volute ed attuate dagli Stati Uniti, come il Nafta (fra Usa, Canada e Messico).
Ci aveva provato, nel 1997, il Wto (L’Organizzazione mondiale per il commercio), nella quasi clandestinità (perché il lavoro sporco va fatto in silenzio) – con i 27 paesi interessati a promuovere la libertà di investimento, ripulita da vincoli legislativi, sociali, ambientali: il cosiddetto MAI (Accordo multilaterale sugli investimenti), denunciato e contrastato con efficacia da Attac-Francia e da Le monde diplomatique fu a quel tempo bloccato dal parlamento francese, quando il socialista Lionel Jospin era a capo del governo.
Ma ci sono in Europa altri precursori, come la Direttiva Bolkestein, che prevede che leggi e contratti applicabili alla manodopera di imprese che operano all’estero debbano essere quelli del paese d’origine e non quelli del paese ospitante, con l’istituzionalizzazione del dumping di manodopera.
Ora, in cosa consisteva il TTIP in semisegreta gestazione? Semplicemente, in un negoziato teso a dare vita ad un mercato interno transatlantico che attraverso l’abbattimento delle barriere non tariffarie e attraverso l’omologazione delle norme legislative, avrebbe consentito alle imprese multinazionali, ai grandi investitori e player economici, di superare vincoli legislativi e contrattuali di ogni genere che potessero ostacolare la piena remunerazione del capitale investito.
Tutta la legislazione a protezione dei diritti collettivi e dei beni comuni veniva posta sotto schiaffo: dalla sicurezza alimentare (norme sui pesticidi, ogm, ormoni) all’acqua, dall’energia ai servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione, da lavoro al diritto di proprietà intellettuale ai biocombustibili, a internet, alla tutela dei dati personali: una vera e propria guerra alla società per ridurre il lavoro, i beni comuni, la natura e l’intera vita delle persone a fattori per la valorizzazione dei grandi capitali finanziari. Per farlo occorreva liberarsi di ogni ubbìa democratica e tornare alle forme più autoritarie, reazionarie e oligarchiche di governo del sistema.
Vero che il TTIP si è alla fine arenato intorno al principio di prevenzione e al nodo degli arbitrati, ma l’accordo Ceta del 2017 fra Ue e Canada prova, in forma più edulcorata, a fare rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.

La catastrofe ecologica e la pandemia: metafore di un mondo alla deriva

Nel film di fantascienza Matrix – firmato dalle ora sorelle Wachowski – gli umani, giunti all’apice dello sviluppo tecnologico, vengono sottomessi dalle sofisticatissime macchine che avevano generato. Solo un drappello di uomini e donne si batte in un impari scontro. Ad un certo punto, il capo della resistenza viene catturato da un agente delle macchine che a lui si rivolge in questo modo: “Io disprezzo voi umani, perché non siete dei veri mammiferi. I mammiferi costruiscono un equilibrio fra sé e il mondo circostante…voi no! Voi colonizzate un territorio, lo depredate, poi passate a un altro e così via. C’è un solo organismo vivente che si comporta come voi. Il virus!”. L’immagine è straordinariamente calzante ed esprime compiutamente lo scempio autolesionistico del delirio antropocentrico, sino al rischio tutt’altro che remoto che lo sviluppo senza limiti, intrinsecamente legato al meccanismo della riproduzione del capitale e il consumo selvaggio della natura compromettano la stessa possibilità di riproduzione della specie umana, ad opera di quell’homo sapiens sapiens che la tassonomia aveva presuntuosamente collocato al vertice più alto dell’evoluzione.
La gestione capitalistica della pandemia da coronavirus ha poi messo in luce il carattere brutalmente classista dell’ordine mondiale, con l’incapacità dei governi di sottrarre la somministrazione dei vaccini alla fame di profitto delle grandi multinazionali del farmaco che hanno impedito, grazie al diritto di proprietà intellettuale e con la complicità dei governi, una campagna generale di protezione sanitaria. Abbiamo così assistito, impotenti, al pieno dispiegamento della logica selettiva del capitale, ovvero alla sopravvivenza “differenziata” che ha fatto dichiarare al direttore generale OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus: “Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale”.

La democrazia politica nel tempo presente

Quella che in tutto l’Occidente viene enfaticamente spacciata per democrazia è in realtà una democrazia illiberale, in realtà una pseudo-democrazia, parziale, o a bassa intensità, in definitiva vuota, perché solo formale, una “democratura” (per dirlo con Eduardo Galeano), parola che è la crasi di democrazia e dittatura: un sistema di governo nel quale la partecipazione democratica si risolve nel fatto che ogni tot anni si tengono delle elezioni, ma ove i cittadini sono completamente tagliati fuori dalla conoscenza di tutto ciò che concerne il potere e le libertà civili: il liberismo non è libertario, è liberticida.
Dal 2008, su 32 paesi appartenenti all’Ocse, 32 hanno irrigidito le procedure di immigrazione legale; fra questi ci sono Italia, Francia Regno Unito, Germania, Stati Uniti. Il migrante è il nemico in agguato: la paura del diverso e il razzismo, dichiarato o subliminale, si riflettono nella chiusura estrema dentro il proprio particulare che respinge l’universalità dei fondamentali diritti umani e genera aggressività: il liberismo non è liberale, è xenofobo.
La crisi democratica e l’Italia

La scomparsa dell’Urss, contrariamente a quanto immaginato dalla vulgata riformista, non ha affatto premiato le socialdemocrazie europee. Assorbite nell’orbita del pensiero liberale e protese, nella migliore delle ipotesi, a lenire “a valle” le contraddizioni più vistose del sistema capitalistico, esse hanno sostanzialmente fallito anche questo compito. Gli stessi partiti comunisti hanno finito per dissolversi, quello italiano con effetti particolarmente devastanti, considerando l’importante storia del Pci e il ruolo da esso giocato nella Resistenza, nella costruzione della Costituzione e nel trentennio repubblicano. Ciò che ne è risultato, di transumanza in transumanza, è stato il Pd, frutto di una “fusione fredda” fra i liquidatori del partito comunista e i post-democristiani, mentre la sinistra, che per comodità espositiva chiamerò “di classe”, ha oggi, in Italia più che altrove in Europa, un peso del tutto marginale.
Lo stesso sindacato, fino a buona parte degli anni settanta il più combattivo e innovativo d’Europa, è da tempo attraversato da una crisi profonda che ne ha fortemente alterato il codice genetico, la lotta non agita o ridotta al lumicino, le conquiste operaie dei “trenta gloriosi” quasi interamente riassorbite.
In questo contesto di anomia sociale la dialettica politica si svolge entro un perimetro caratterizzato dalla contesa fra due schieramenti (centrodestra e centrosinistra) concorrenti ma non alternativi, che potremmo definire “destra e sinistra del capitale”, in quanto approdati ad una cultura liberista condivisa. Accade così che “nel grande spettacolo dell’avvicendamento ai vertici del governo, ci sono cose che restano irriducibilmente uguali a se stesse”. In un clima sociale sostanzialmente “depurato” dalla lotta di classe, questo sistema bipolare, incardinato dentro un sistema elettorale maggioritario che ne ingessa e garantisce l’esistenza, tende a riprodurre, con variazioni del tutto marginali, un gioco politico a somma zero, dove l’opzione elettorale offerta a sinistra si riduce ad una scelta fra il peggio e quello che si suppone essere il meno peggio.

Del “male minore” o del “meno peggio”

C’è un adagio popolare molto noto che recita: “piuttosto che niente, meglio piuttosto”, formula che si ritrova, in una versione più sofisticata, nell’aforisma di origine voltairiana: “il bene è nemico del meglio”.
Tutta la prassi politica moderata è fondamentalmente ispirata a questo principio. Se pensi che fuori dal capitalismo c’è spazio solo per aporie e velleitarismi, terreno di elezione di tutti gli “acchiappanuvole”, in quanto sei persuaso che la storia umana sia giunta ad un suo approdo definitivo e la formazione economico-sociale capitalistica non abbia alcuna credibile alternativa, allora tutto il tuo impegno si riduce a pratiche emendative. A ben vedere, il successo della formula del “voto utile” ha proprio questa radice: “non posso cambiare le cose, dunque mi faccio sedurre dal ‘meno peggio’ ”.
Proprio del concetto di “male minore” o di “meno peggio” si occupò Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere.
“Un male – scrive Gramsci – è sempre minore di un altro susseguente possibile maggiore. Ogni male diventa minore in confronto di un altro che si prospetta maggiore e così all’infinito. La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo, contrastando la nascita di una forza concorrente a quella che passivamente si adatta alla «fatalità»”.
Possiamo allora dire, con buona ragione, che “il peggio” viene proprio dal “meno peggio”.
L’impoverimento, prima ancora culturale che politico, di ampi stati popolari ha generato, a cascata, una serie di effetti che a loro volta hanno retroagito su una situazione stagnante, sclerotizzandola, e favorendo il radicamento di un senso comune conservativo o, addirittura, reazionario.
Elenco, per puri accenni: rafforzamento dell’esecutivo e spoliazione del ruolo del parlamento; affermazione del modello maggioritario, svuotamento degli enti locali; balcanizzazione territoriale e promozione dell’autonomia differenziata; crisi del concetto di pubblico, corsa alla privatizzazione dei servizi, distruzione progressiva del welfare; discriminazione di genere nel lavoro di produzione e di riproduzione; varo di leggi repressive che irretiscono e penalizzano il conflitto derubricato a patologia delle relazioni sociali.

I trattati costitutivi dell’Ue e l’attacco alla Costituzione

Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo basterà confrontare l’impianto della Costituzione italiana del’48 con l’impronta della Costituzione europea come emerge dal suo Testo fondamentale e dai trattati che ne formano l’architettura economico-sociale.
Ebbene, “la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato, né il generale principio della libera concorrenza. Anzi: l’articolo 41 dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata “possano essere indirizzate a fini sociali”. Dunque, la C.I. affida alla legge (e quindi all’autorità pubblica) il disegno globale dell’economia. Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
E’ del tutto evidente che la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento comunitario è radicalmente opposta rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione. Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che i due presidenti della Bce, quello uscente (Jean-ClaudeTrichet) e quello entrante (Mario Draghi “il magnifico”) indirizzarono al governo italiano il 5 agosto 2011: un vero e proprio memorandum ( o un “dolce colpo di stato”, come lo definì Giulio Tremonti) che subordinava il sostegno ai nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi, nonché un esteso processo di dismissioni della proprietà pubblica, di privatizzazioni dei servizi sociali e la messa a mercato dei beni comuni”.
Osservo, di passaggio, che l’attuale Conducator del governo italiano, coerente con la sua sempiterna vocazione, ha voluto che nel Ddl concorrenza fosse presente un articolo che impone ad un’amministrazione che nutrisse l’improntitudine di gestire direttamente un servizio di produrre una giustificazione in cui venga spiegato perché non si sia deciso di ricorrere al mercato!

Populismo e partiti personali

Una delle manifestazioni, fra le più catastrofiche, della crisi della partecipazione popolare, della scomparsa dei grandi partiti di massa e delle grandi ideologie, delle idealità e di progetti di società realmente alternativi, è stata la nascita di partiti personali.
In una fase intermedia, i simboli dei partiti diventarono alberi, fiori, animali, vele e varie stravaganti allegorie. Poi, dopo alcuni anni, in quei simboli si è insinuato il cognome del capo o il logo da lui scelto. Il partito è divenuto questo: il suo capo; dunque “il partito sono io”, a sancire, legittimare, la regola di un possesso. La democrazia è ridotta ad un simulacro. In un deserto sociale in cui si finge che le classi non esistano più, si erge l’impalcatura di una concezione feudale e possessiva, personale, individualizzata della politica: il partito è “lui”, se ti va è così, altrimenti puoi sempre cambiare padrone. Ma un partito personale è, in definitiva, un partito che nasce per sostenere la carriera politica del proprio leader. Nient’altro. Il suo eloquio, il suo programma è un teatrino populistico di mirabolanti invenzioni: promesse, miracoli, scenari onirici, visioni, incantesimi. I cittadini non dicono più voto per il tal partito o per l’altro ma “voto per tizio, caio, sempronio”. Le conseguenze pratiche sono sotto i nostri occhi.
“In Italia – scrive su Il Fatto Quotidiano del 25 gennaio 2021 Luca Fazzi – la democrazia è morente, o probabilmente già defunta (…). I partiti e le organizzazioni della società civile sono svaniti e al loro posto sono apparsi leader dalle parvenze e dai modi istrionici e grotteschi che mettono in scena la pantomima dell’uomo forte, dai tempi di Weimar una soluzione sempre buona per i tempi bui”.

L’attacco al mito fondativo della Repubblica: l’antifascismo

Anche l’epopea resistenziale, l’antifascismo e la Costituzione, sono posti sotto un sistematico attacco da parte di tutte le forze dell’arco parlamentare. Sicché il fascismo, sia quello che vive sotto traccia nella versione para-governativa di Fratelli d’Italia, sia quello che si riconosce nell’identità apertamente squadrista di Casa Pound e di Forza Nuova, per altro consustanziali, hanno trovato davanti a sé un’autostrada e sono entrati a pieno titolo nella dialettica politica. Non c’è più – o non c’è prevalentemente – la vecchia iconografia fascista, quella del ventennio, ma ne sopravvive, sotto mentite spoglie, la sostanza. Sono stati cioè innescati i meccanismi che rievocano la “psicologia di massa” del fascismo (la scala “F” di Theodor Adorno): “la voglia di punire i rei con pene cruente, la tendenza a discriminare per motivi etnici, religiosi o sessuali, la disponibilità a cedere diritti di libertà in cambio di protezione, l’impulso di sottomettersi ad un capo carismatico”.

La crociata clerico-fascista

Dal 29 al 31 marzo del 1919, Verona è stata ospite del Congresso Mondiale delle Famiglie, il movimento globale antiabortista, antifemminista, anti-LGBTQI, antieutanasista, “per affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società”, guardato con simpatia dalle gerarchie vaticane e con il supporto dell’allora vicepremier Matteo Salvini e di tutta la pattuglia leghista al seguito. Camuffato tra musica, pallonicini e slogan, in un tripudio di clerico-fascismo, fra slogan del tipo “Abbiamo Gesù nel cuore”, andò in scena l’attacco alla legge 194. Presenti anche esponenti di Forza Nuova e della destra americana, preceduti da tre grandi cartelli intitolati “Dio-Patria-Famiglia“. Alla kermesse era presente anche Simone Pillon, senatore leghista impegnato per una legge che consenta l’aborto soltanto in caso di pericolo di vita per la madre o di violenza sessuale e autore di una proposta di legge che dietro la garanzia della bigenitorialità afferma l’aberrante concetto di “alienazione parentale”, sindrome di cui l‘Organizzazione mondiale della sanità nega l’esistenza, e che si rifà alle teorie del medico americano Richard Gardner. Uno che scriveva, per citare solo qualche riga delle sue teorie, che “la pedofilia può aumentare la sopravvivenza della specie umana avendo finalità procreative”. Queste ed altre micidiali tossine hanno libero corso e fanno capire che nel nostro paese c’è in circolazione più fascismo di quanto si sia disposti ad ammettere.
Il patriarcato fra noi
“Le inclinazioni egoiste, il culto di se stessi, le faziosità a proprio vantaggio, cose che vediamo tutte presenti nell’umanità, hanno la loro origine e le loro radici nell’attuale strutturazione dei rapporti fra uomini e donne, e ne traggono il loro principale nutrimento. Pensiamo alla deformazione che determina nella mente di un ragazzo la credenza che per il solo fatto di essere nato maschio si deve ritenere superiore a tutti e a ciascuno dei membri di un’intera metà della specie umana nata femmina”. – Con queste parole, i coniugi Harriet Taylor e John Stuart Mill, nel loro saggio La servitù delle donne, del 1869, bollavano il patriarcato come tratto dominante della psicologia maschile e dei rapporti sociali fra i due sessi.
A distanza di 150 anni, nell’odierna società, le pesanti scorie di questa antica soggezione sono ancora largamente presenti, anche in luoghi insospettabili, sebbene la battaglia sia in corso.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha votato, a maggioranza, per il rovesciamento dei precedenti giurisprudenziali che riconoscono il diritto all’aborto rifiutandosi di dichiarare incostituzionale una legge dello Stato del Mississippi che vieta l’interruzione volontaria di gravidanza dopo la quindicesima settimana.
In Italia, l’attacco alla Legge 194, sostenuto da una furibonda campagna clerico-fascista, si fa forza della clausola presente nella legge stessa che assolve il personale sanitario dal prendere parte agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza. I dati completi forniti dal Ministero della Salute dicono che il 69% dei medici attivi in Italia è “eticamente” contrario all’applicazione della 194. Così un fondamentale diritto conquistato dalle donne viene vanificato e si torna agli aborti clandestini.
L’antropologa e politica messicana Marcela Lagarde ha pefettamente descritto lo stato delle cose: “Nella società si accetta che ci sia violenza sulla donna. Una violenza che la società ignora, zittisce, oscura, sminuisce, normalizzandola. Siamo di fronte al paradosso di una violenza illegale ma legittimata”. E il femminicidio, che di questa violenza è la manifestazione estrema, entra per la prima volta in un dizionario della lingua italiana (il Devoto-Oli) solo nel 2009. Ne parla, come meglio non si potrebbe, Maria Mantello: “L’ufficializzazione da vocabolario è fondamentale, perché finalmente erode la zona d’ombra del maschilismo; ne smuove il magma profondo, ne svela la prepotenza che si reitera facendo leva sul più retrivo arcaico simbolico misogino di modelli stereotipati, che sedimentati per secoli e accettati nella passività dell’abitudine, creano quell’omertosa solidarietà sociale che è l’invisibile supporto, funzionale al perdurare di asimmetrie sessiste di potere per il controllo del corpo della donna (…)”.

Manipolazione mediatica e “pensiero unico”

Spiega Aldo Giannuli che il potere politico falsifica il passato per “ridefinire identità, giustificare interessi, legittimare aspettative, fondare senso comune, motivare strategie”. E questo proprio “nelle democrazie liberali dove, per la prima volta, si approvano leggi che stabiliscono cosa si possa e cosa non si possa scrivere in materia storica (..), dove nascono commissioni parlamentari che si arrogano il diritto di stabilire una verità storica con il timbro dello stato, dove servizi segreti fanno vere e proprie operazioni storiografiche a supporto di questa o quella tesi”. E così “si inverte la tendenza all’apertura degli archivi”.
All’omologazione politica è corrisposta un’altrettanto pervasiva omologazione mediatica. Ne abbiamo ampiamente parlato nell’ultimo numero di Su la testa dedicato alla comunicazione e all’immaginario. I più grandi giornali e le televisioni private fanno capo a pochi gruppi editoriali riconducibili, da un lato, al centrosinistra e a matrici culturali di impronta confindustriale, dall’altro al variopinto mondo del centrodestra. Pressoché tutta l’informazione, o sedicente tale, è nelle mani di costoro e forma una melassa mainstream che ha una grande importanza nella nostra vita perché ci fornisce i parametri mediante i quali leggiamo il mondo che ci circonda, contribuisce a formare la nostra opinione e ci induce ad agire in un modo piuttosto che un altro. E’ enorme il potere distorcente che questo tipo ha su di noi: ogni volta che d’istinto giudichiamo qualcosa o qualcuno come sbagliato, siamo realmente convinti di essere veramente noi la fonte di quel giudizio? O lo sono piuttosto le idee, i dogmi e le convinzioni che ci sono state innestate da anni di terapia insufflata da questo materiale manipolato, sebbene disponiamo di numerose prove che dimostrano come il sistema che lo produce sia marcio, deviato e, di conseguenza, molto pericoloso. “Manipolare – ci ricorda Franca D’Agostini – non è solo mentire, quanto agire sulle credenze altrui per indurre comportamenti dannosi per altri o per la stessa persona che li adotta”.
Il giornalismo, la rappresentazione onesta e documentata dei fatti, non esiste quasi più. Al suo posto c’è la propaganda, che non serve ad informare, ma a persuadere, con qualsiasi mezzo. E’ il fenomeno che Marco Travaglio ha descritto con arguzia nel suo libro “La scomparsa dei fatti” (Il Saggiatore, Milano, 2006), con l’eloquente sottotitolo “Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni”.
Oggi che la coscrizione obbligatoria nello schieramento dei guerrafondai ha assunto i caratteri di una violenta crociata volta a censurare, mettere all’indice, intimidire il poco dissenso che riesce faticosamente a bucare gli schermi televisivi, vengono in mente le parole sferzanti di Antonio Gramsci che agli arbori dell’avvento del fascismo così inveiva: “Quando discuti con un avversario prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire”.

Segni di speranza

a) Dal collettivo della Gkn: “Così rilanciamo la lotta di classe”
John Steinbeck scrisse, durante la Grande depressione, “diffida del tempo in cui gli scioperi cessano”. Parole sacrosante, che ci ricordano che l’ultimo sciopero generale proclamato dalla più grande delle organizzazioni sindacali confederali italiane, la Cgil, (se si esclude la protestina pre-natalizia del 16 dicembre sulla legge di bilancio) risale al 2014, contro il Jobs act: un’era geologica fa. Al punto che – come osserva Emiliano Brancaccio – “somigliamo sempre di più a quei paesi in cui lo sciopero non è nemmeno un diritto costituzionalmente garantito”. Uno che scendesse da Marte potrebbe pensare che ad un tempo di pace sociale così lungo corrisponda l’affermazione di un forte sistema di protezione sociale, di buoni salari, di solidi diritti. Invece è vero l’esatto contrario: retribuzioni sempre più basse, contratti precari a go-go, un diluvio di infortuni e omicidi sul lavoro, mentre il solo diritto sopravvissuto è quello delle aziende di licenziare senza giusta causa o di andarsene dall’Italia senza pagare dazio per arare più convenienti praterie. La guerra in Ucraina, alla quale l’Italia partecipa senza mandato parlamentare e in violazione della Costituzione, ha già prodotto un’inflazione del 7% con effetti a largo spettro destinati a peggiorare drasticamente un quadro già fosco. Ma neppure l’indennità di contingenza, la “scala mobile”, esiste più da trent’anni a questa parte. Eppure, lo stato catatonico del sindacato perdura. Un simile letargo si era visto soltanto sotto il fascismo, ma a quel tempo c’era più di una giustificazione.
In questo non proprio esaltante scenario si è accesa una luce. Il collettivo operaio della Gkn di Campi Bisenzio – la fabbrica che il fondo inglese Melrose aveva deciso di abbandonare per delocalizzare la a produzione – ha deciso di dare battaglia. Prima, impugnando i licenziamenti e vincendo il ricorso per attività antisindacale, poi, promuovendo una proposta di legge capace di mettere seriamente i bastoni fra le gambe alle aziende che vogliono impunemente andarsene lasciandosi indietro macerie e disoccupati, quindi, sviluppando un tour lungo l’Italia per incontrare e coalizzare quanti e quante vivono la stessa condizione, infine, divenendo il punto di raccordo di tutte le lotte, con un segnale di rivolta lanciato con il più evocativo di tutti gli slogan: “insorgiamo”, un appello che è stato raccolto da decine di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che hanno partecipato alle manifestazioni convocate a Firenze come non si vedeva da tempo.
Cos’altro è, in definitiva, ciò che il Collettivo della Gkn ha fatto, se non l’insieme di atti che indicano la strada attraverso la quale si costruisce un sindacato di classe?

b) Il movimento femminista e la lotta contro il patriarcato
E’ ancora Marcela Lagarde che avverte: Le “nuove streghe” sono le donne, “colpevoli” di non voler obbedire agli schemi sessisti in cui le si vorrebbe ancora ingabbiate; ma che esse hanno spezzato conquistando leggi di dignità, parità, autodeterminazione. Una rivoluzione maldigerita dal maschilismo, che per questo è alla ricerca di un risarcimento contro la nuova antropologia di donna che irreversibilmente avanza”.
Ed ecco la conclusione, che parla alle donne e all’intero universo maschile: “Al maschilismo non si deve dare tregua. Ed è importante smascherarlo nella sua strategia di abuso, invasività che nulla ha a che fare con l’affettività. Anche quando s’insinua per circuire con parvenze di protezione, che calibra tra «tenerezza amorosa» e «ricatto affettivo» per ottenere meglio la subordinazione dell’«altra da sé», che resta sempre e comunque l’oggetto dell’egoità narcisistico-maschilista, che nella mistificazione misogino-sessista rispolvera la favola dell’«eterno femminino», in esercizi di stile sulle “connaturate” doti delle donne: dolcezza, sentimento, amabilità, grazia. Che disvelate significano: soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione su cui tanti maschi continuano ad accomodarsi pensando di aver diritto a quel ruolo stereotipato di servizio sacrificale delle donne”.
Ecco allora che c’è una irrisolta questione maschile, come scriveva Carla Ravaioli: “La famiglia, la scuola, la chiesa, l’esercito, la pubblicità, l’arte e la letteratura ripetono loro ossessivamente che il maschio ha il dovere di essere maschio, e quindi diverso dalle femmine. E’ fatale che per contraccolpo la stessa società, coi maschi che ha creato, condanni le donne ad essere donne. E dunque la battaglia per la liberazione del maschio dal ruolo fittizio a cui è stato condannato è solo un’altra faccia della battaglia per la liberazione della donna. Il processo deve investire entrambi i ruoli, altrimenti è destinato all’insuccesso”
La strada è tracciata dal movimento delle donne. Ma c’è ancora molto da imparare. E da fare. Anche a sinistra. Anche a casa nostra, perché nessun essere umano è un’isola che può considerarsi indipendente dal resto dell’umanità. E allora, vale la pena di interrogarsi seriamente e ricordare: “Non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te”.

c) Il modello del Rojava, dove si lotta per più di un territorio
La popolazione del Rojava è composta principalmente da curdi, parte di uno dei più grandi gruppi etnici privi di un territorio nazionale. Il sistema politico adottato è quello del confederalismo democratico, un modello di democrazia rivoluzionario, valido non solo nel contesto mediorientale. Da allora il suo governo ha sempre promosso tre grandi temi: l’ecologia, l’eguaglianza tra i sessi, e la democrazia diretta. La Carta del Rojava del 2014, rifiuta l’autoritarismo, il militarismo, il centralismo e promuove una netta divisione tra Stato e religione. Si può definire la rivolta del Rojava come la rivoluzione più esplicitamente femminista che il mondo abbia mai visto, almeno nella storia recente. Lo stesso Abdullah Öcalan è autore di un manifesto in cui la liberazione della figura femminile viene indicata come fondamentale condizione per la risoluzione dei problemi sociali che affliggono la società moderna.

d) Dai giovani di Fridays for future e di Extinction rebellion un monito ai potenti della terra: “Non vi lasceremo distruggere il mondo”
Quello di Fridays for future è un movimento giovanissimo, fatto da giovanissimi/e, sviluppatosi sull’onda della straordinaria personalità di Greta Thumberg che ha puntato i riflettori sull’esigenza di adottare misure immediate per salvare la Terra, ormai sull’orlo di un collasso ecologico che la letteratura scientifica denuncia come imminente e irreversibile. Con l’hashtag #NonFossilizziamoci il movimento – che ha radicato in ogni parte del mondo – ha elaborato sette proposte imprescindibili per l’utilizzo dei fondi del NextGenerationEu: la realizzazione di impianti che utilizzino fonti rinnovabili; la riduzione dei consumi energetici del patrimonio edilizio pubblico; la riconversione industriale; la mobilità sostenibile; l’adattamento al clima dei territori; il sostegno alla ricerca pubblica e privata; il rafforzamento del modello agroecologico.
Alle manifestazioni dei Fridays si sono poi affiancate le azioni di disobbedienza civile di Extinction rebellion, un movimento ormai internazionale, nato in Inghilterra in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane, che chiama alla disobbedienza civile nonviolenta per imporre ai governi un’inversione della rotta “dal basso” (che il governo dichiari l’emergenza climatica e ecologica; che si fermi la distruzione degli ecosistemi e della biodiversità e si portino allo zero netto le emissioni di gas serra entro il 2025; che il governo costituisca e sia guidato dalle decisioni di un’assemblea di cittadini/e sulle misure da attuare e sulla giustizia climatica ed ecologica)

Ritrovare lo spirito di Genova

Queste ed altre forme di resistenza e di ingaggio sociale stanno faticosamente riemergendo, dopo la sconfitta del Social Forum consumatasi nelle drammatiche giornate di Genova 2001, dove riuscirono ad annodarsi le istanze pacifiste, la lotta contro lo sfruttamento del lavoro, contro la crisi climatica, per l’autodeterminazione delle comunità indigene oppresse, per i diritti delle donne, contro il saccheggio capitalistico della natura, lo sfruttamento dei territori e della mano d’opera nei paesi di secondo sviluppo.
Di fronte all’esproprio della sovranità nazionale, di fronte ad un capitale sovranazionale che va concentrando ricchezza e potere, Genova fu il tentativo più consapevole di costruire una proposta rivoluzionaria e l’embrione di un contropotere internazionale, l’orizzonte indispensabile per mettere con i piedi per terra ogni lotta “nazionale” o settoriale e per far si che anche l’ultimo attivista sociale o militante possa sentirsi parte di qualcosa di più grande e di generale.

Il compito inevaso, ma che tuttavia oggi si ripropone come essenziale, è dunque quello di riconnettere in una visione d’insieme e di senso ciò che si muove con passo incerto e nella separatezza. Per costruire una proposta politica complessiva nella quale ogni oppresso e ogni oppressa, ogni sfruttato ed ogni sfruttata, ogni soggettività in movimento possano riconoscersi e convergere in una battaglia comune.

Dino Greco

Editoriale del bimestrale SU LA TESTA

www.sulatesta.net

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