Il Marajà di Firenze

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Paolo Ciampi replica con Arkadia, dopo l’uscita precedente de L’ambasciatore delle foreste candidato allo Strega nel 2019, con Il Marajà di Firenze, libro che a primo impatto sembra agganciarsi alla forte tematica della diaspora migratoria con ingredienti che vanno dallo storico al fiabesco, passando dentro un’indagine accurata da vero detective e riportando pagine di alta letteratura.

E aggiungo che, a mio modesto parere, la storia narrata da Ciampi in questo libro è destinata a diventare un piccolo oggetto di culto anche per i lettori meno appassionati. Perché? Forse perché il gioco che si viene a creare tra un titolo che fa pensare e un fatto che può essere raccontato in poche pagine sa combinarsi in un connubio fantastico.
Quella statua del Rajà Muharaja de Kolapore che si incontra nel Parco delle Cascine è l’emblema di questa storia particolare che l’autore vuole offrire ai lettori facendola gustare come un piatto raffinatissimo, accompagnato da un corposo vino della terra toscana.

L’autore ci racconta una storia forse poco nota anche ai fiorentini medesimi, anche da quelli che si trovano a passare di lì e magari si chiedono che cosa quella statua possa rappresentare. È la storia sconosciuta del principe indiano, che di ritorno dall’Inghilterra morì giovanissimo, a soli ventanni, nella città di Firenze.

L’anno è il 1870. La città stava attraversando uno dei momenti più floridi prima di precipitare nel buio. Fallimenti e debiti derivati da una crisi dopo essere stata la capitale d’Italia.
Ciampi, con l’acume dell’indagine, con il cipiglio del giornalista d’inchiesta, ricostruisce la vicenda del giovane indiano trasformando idee e pensieri in un linguaggio che è quello dell’anima.
Perché anche questo è un compito della letteratura, far rivivere fatti e personaggi che sarebbero dimenticati.
Così è. Riportare il protagonista, un marajà nato nel 1850 e morto nella città del giglio ventanni dopo.

Il suo viaggio in Europa, un viaggio di formazione che lo porterà al cospetto della Regina Vittoria per visitare e vedere le bellezze della città, poi in Olanda, Austria e infine in Italia. Prima Venezia e in ultimo Firenze, città che ha destato in lui una grande curiosità per i suoi pregi artistici, i suoi palazzi, gli Uffizi.

Un improvviso malore, dovuto a un’infezione polmonare, chiude il suo tour mentre alloggia alla Locanda della Pace.
La morte è indefinibile, sfuggente, è vedere uno spazio che precipita, è quasi un rito magico. È lo spegnersi di una bellezza. Resta un senso di vuoto
rispettare un protocollo del suo piccolo regno nell’India occidentale. La narrazione in questo frangente corre veloce per condurre il protagonista a Parigi a soltanto per qualche istante.

Paolo Ciampi ci presenta questo personaggio con la chiara e consapevole intenzione di sottrarlo alle secche di una letteratura conservatrice e farne una narrazione semplice ma elevata.
Una musicalità avvolge il lettore dentro una lingua corporea. Le descrizioni, le sensazioni sono di grande freschezza e potenzialità.

Il nucleo della lingua di Ciampi è un continuo fluttuare, diventare musica, alleggerirsi, riesce persino a evocare paesaggi rendendoli reali, contenenti le tinte cromate della terra toscana. Impressionismo e melodia tengono legati alla pagina. Intorno al personaggio l’ambiente resta impresso nella memoria eppure sembra evaporare nel racconto. Per il lettore, salito sulla mongolfiera che si alza da terra, sarà difficile desiderare di scendere.

La letteratura sarà l’arte che saprà profetizzare quello scorcio di tempo brevissimo, quel passaggio tra la vita e la morte dove scorrono immagini del passato e del presente. Immagini interrotte e poi riprese, frammenti che feriscono e, a tratti rendono felice, logoranti come un fiume alluvionale, che lasciano scorie emotive per la compagnia di un viaggio senza ritorno.

Il lettore non deve disorientarsi quando riceve questa ondata, la sensazione di sentirsi smarrito, emozionato. È l’abilità di Ciampi quella di partire da una storia semplice, quasi scontata, innalzandola calda e accorata riuscendo a coinvolgere e andando oltre le barriere dell’io quotidiano dove tanta letteratura contemporanea resta impantanata, riportando un passato dentro un presente per nulla scontato.
Sì, perché se anche in una porzione del libro l’autore parla di sé, mentre con la bicicletta percorre una pista all’interno di una Firenze poco frequentata turisticamente, nel suo percorso quotidiano alle Cascine Fiorentine, dove l’Arno nel romanzo diventerà il Gange e continua il suo corso anche dove la città finisce.

Qui, proprio dove si trova il monumento, il corpo del giovane indiano venne arso. E in quel momento parte la storia e l’io narrante lascia spazio all’indagine.

Il Marajà di Firenze è un libro coraggioso, potente. Una narrazione generosa, un romanzo come forma d’arte e di alta letteratura in un momento storico in cui ne viene ridimensionato il prestigio.

Caro lettore, in quale spazio possiamo addentrarci per conoscere, valutare e apprezzare le armoniose corde della narrativa?

Giorgio Bona

Scrittore. Collaboratore di Lavoro e Salute

Paolo Ciampi – Arkadia 2020 –

Pubblicato sul numero di febbraio del mensile

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