La Cgil al XIX Congresso, si chiederà che fare?

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Partito come un congresso sottotono inteso più a garantire il ricambio interno dei gruppi dirigenti che la discussione interna, il XIX rischia di diventare qualcos’altro per le solite impreviste “cause esterne”. La crisi di governo ha fatto riemergere le vecchie anime dell’ex-sinistra che fu, attratte diversamente dalle diverse sirene delle diverse parrocchie, con scatti pavloviani impensabili fino a qualche mese prima. Dirigenti di peso sono ritornati sui giornali nazionali, Corriere, Fatto Quotidiano, Repubblica costringendo Landini a delle umilianti repliche cerchiobottiste.
La furia elettoralistica con la fine ingloriosa della XVIII legislatura non poteva riaprire le antiche ferite interne alla più grande organizzazione di massa della sinistra storica, facendo scricchiolare l’accordo “gestionale” con il quale si voleva velocemente superare questa tornata congressuale, rimandando ad altra data la soluzione di vecchi nodi strategici mai sciolti.

D’altra parte il contesto generale, mondiale, obbligherebbe il maggiore sindacato di sinistra d’Italia e d’Europa a fare i conti una volta per tutte con la propria storia recente e la traiettoria futura. Di conferenza d’organizzazione e di congresso in congresso, dopo Epifani, la Cgil ha rimandato più volte decisioni di svolta importanti e di riorganizzazione strategiche, puntando al compromesso interno e all’autoconservazione dell’oggi.
Ma la diminuzione degli iscritti inaugurato con l’epoca Camusso e confermata con Landini richiederebbe maggiore attenzione e riflessione collettiva.
Siamo passati dal massimo di iscritti di Epifani con quasi 6 milioni (5,983 milioni) nel 2009 agli attuali 5,268 milioni del 2020. Più in generale il sindacato confederale passa dai 12 milioni del 2015 ai 11,3 milioni del 2020. In questo quadro la Cisl riduce progressivamente le distanze dalla Cgil vantando piccoli aumenti ogni anno arrivando a 4,07 milioni di iscritti nel 2020. La Uil vanta 2,3 milioni di iscritti nel 2021, subito tallonata dalla Ugl con 1,8 milioni. USB dichiara esattamente 1 milione di iscritti sul proprio sito, ma il sindacato di base è generalmente stimato nel complesso per oltre 500 mila iscritti.
In generale esiste una crisi del monopolio confederale delle iscrizioni all’interno di un processo di generalizzato calo degli iscritti sindacali nazionale e mondiale.
Il tasso di sindacalizzazione in Italia è passato dal 50% del 1975 al 34,3% del 2018 (23% è il tasso medio di sindacalizzazione europeo del 2018).

Il declino a livello globale del lavoro salariato industriale è un dato. Così come la crescita del settore terziario e del lavoro precario, con tutte le varie forme di lavoro cosiddetto grigio o informale. Altrettanto acclarato è la decrescita del tasso di sindacalizzazione e l’invecchiamento degli iscritti ai sindacati, particolarmente nei paesi sviluppati. L’elemento che dovrebbe far pensare è che il lavoro precario cresce a livello globale, particolarmente nei paesi più arretrati (es. paesi sub-sahariani), indicando una possibile tendenza al superamento del lavoro salariato, con buona pace per Marx e di noi altri che l’abbiamo sempre preso a giusto riferimento.

Questo perché dagli anni ottanta del novecento lo smantellamento delle politiche di welfare sono procedute di pari passo con quelle di deregolamentazione del mercato del lavoro favorendo la proliferazione di forme alternative sempre più spinte di flessibilità di ingaggio e gestione del lavoro (contratti, orari, messa a disposizione,ecc).

Insieme alla demolizione progressiva degli elementi di tutela e garanzia del lavoro stabile negli ultimi 30-40 anni in Italia abbiamo assistito a un processo di polverizzazione delle imprese, con una crescita enorme delle piccole e medie imprese a discapito delle grandi. L’Italia, in Europa, è con il 78,7% il secondo paese con il più alto tasso d’occupazione nelle PMI di cui il 45,6% nelle imprese con meno di 10 dipendenti. La prima è la Grecia con l’86% di occupati nelle PMI, al terzo la Gran Bretagna con il 53% .

Questo dato strutturale, unito alla deregolamentazione del mercato del lavoro e alla legislazione sui licenziamenti, spiegano le ragioni della desertificazione sindacale nel mondo del lavoro, particolarmente in Italia come nei paesi nei quali la normativa rende sempre più difficile l’iscrizione al sindacato. Con la particolarità in Italia dell’esistenza di un doppio regime di tutele sul licenziamento dagli anni 70, dove nelle medie grosse imprese il licenziamento è disincentivato mentre nelle piccole-micro aziende è agevolato. Ebbene proprio la porzione delle imprese agevolata nei licenziamenti, ha subito una crescita abnorme rispetto a quella dei licenziamenti disincentivati per lo meno dagli anni 90.

I cambiamenti strutturali nel sistema economico e nel mercato del lavoro hanno dunque favorito in generale nel mondo e nel nostro paese il declino del sindacato con la diminuzione delle tutele e l’aumento delle forme di ingaggio del lavoro non salariali, atipiche e informali, ovvero precarie.

A questo cambiamento solitamente le organizzazioni sindacali hanno risposto in questi ultimi trentanni tutelando la parte organizzata o più facilmente organizzabile (grandi imprese private e lavoro pubblico), spesso arroccandosi dentro modalità corporative, come quelle di introdurre i doppi regimi di trattamento fra i neo assunti e i più anziani, a partire dal nefasto accordo Dini sulle pensioni e ai diversi rinnovi dei CCNL dalla seconda metà degli anni 90, fino ad arrivare a vere e proprie forme di deregolamentazione sui part-time, sui tempi determinati, su diverse forme di lavoro flessibile o precario.

La necessità di arrivare a una ricomposizione del mondo del lavoro è ormai un dato sempre più oggettivo e ineludibile. Pone la necessità di organizzare tutte le diverse forme del lavoro sfruttato, al ben oltre il semplice contratto a tempo indeterminato coperto dai contratti nazionali.

La tendenza evolutiva della società richiede risposte diverse e soprattutto nuove forme organizzative della rappresentanza dei lavoratori, partendo dall’urgenza della ricomposizione politica immediata del lavoro precario. E’ una sfida per tutto il mondo sindacale che comporta una mutazione radicale di forma e contenuto, pena l’estinzione o la banale riduzione a semplice residuo preistorico.

Sino ad oggi la Cgil ha eluso questa domanda storica di fase, continuando a mantenere intatto il vecchio impianto novecentesco delle categorie del lavoro dipendente che per loro natura tendono a difendere i settori comunque più garantiti, perché prosaicamente più sindacalizzati.

Le formule vaghe inventate prima da Camusso e poi da Landini sulla “contrattazione di filiera”, la “contrattazione inclusiva”, infine del “sindacato di strada” con la retorica imperativa del “basta precarietà”, sono state tutte belle evocazioni o suggestioni.

Queste sono state semplici insegne, senza strategia, volte a demandare nei fatti alle periferie dell’organizzazione la soluzione di un problema aperto, senza ricercare un chiaro, franco confronto interno volto a scardinare l’organizzazione corporativa per categorie, favorendo i processi di comunicazione orizzontali fra delegati e apparati by-passando le arcaiche ritualità legate ad un sistema ancor troppo piramidale, poco compatibile al frendly della cooperazione in rete che ormai trionfa nella ricerca e in diversi settori del mondo del lavoro reale.
Malgrado ciò, grazie alla sperimentazione periferica delle categorie e dei territori, in Italia abbiamo il più alto tasso di sindacalizzazione nelle aziende con meno di 10 dipendenti rispetto a Grecia e Spagna che vantano un sistema occupazionale simile al nostro, fortemente concentrato sulle piccole e micro imprese. Ma è ancora il bicchiere nel mare.

L’organizzazione dei lavoratori parasubordinati del cosiddetto sistema “informale” è un fatto relativamente recente anche grazie ai sindacati dei precari (come il Nidil), ma anche qui la Cgil vanta dei ritardi come nella sindacalizzazione delle false partite Iva utilizzate per coprire rapporti subordinati con un committente unico.
Il coinvolgimento del Nidil nelle trattative di secondo livello a livello aziendale per favorire stabilizzazioni e “inclusioni” nelle trattative rimane un fenomeno ancora circoscritto, sparso a macchie di leopardo, non sistemico. Manca a tutt’oggi una regia confederale sui processi di inclusività a livello di rinnovo dei Contratti Nazionali sulle parti normative inerenti i precari, quando si vanno a ridefinire – ad esempio – in termini peggiorativi i limiti nel ricorso al lavoro somministrato ed atipico. Così come raro permane l’introduzione di elementi di vincolo alla stabilizzazione dei precari nei contratti nazionali, particolarmente quando il fenomeno è persistente e reiterato. D’altra parte chi fa da cattivo maestro in fatto di ricorso massiccio all’utilizzo del personale precario è lo stesso settore pubblico di fronte all’impotenza proprio dei sindacati.
La lotta alla mentalità corporativa del lavoro stabile contrapposta al lavoro precario non si è ancora tradotta in comportamenti attivi diffusi. Rimane ferma alle belle dichiarazioni ufficiali e quasi di rito, un po’ come sulla sicurezza dove ad ogni infortunio sembra quasi che il sindacato arrivi sempre dopo o rimanga costretto al ruolo della Cassandra inascoltata dalle stesse istituzioni competenti e impotenti.
La mentalità corporativa si sposa con quella autoconservativa di rappresentanze e apparati sempre più invecchiati e dunque legati alle mentalità del passato.

Un congresso queste cose dovrebbe avere il coraggio affrontarle di petto, alla radice, iniziando a sciogliere i vari nodi gordiani dell’azione sindacale caratteristici di questo cambio d’epoca.
Tutta la forma organizzativa con il bilanciamento fra lotta/partecipazione e contrattazione/azione di lobby andrebbero sottoposte ad una tenace opera di revisione.
Va considerato che buona parte del bagaglio culturale, della mentalità e del modo di agire della Cgil odierna è il risultato di trent’anni dell’insieme delle pratiche concertative ereditate dagli anni 90. Pratiche che hanno acquisito un’importanza e peso enorme dentro l’organizzazione ma che risultano sempre meno incisive ed efficaci.

Se andiamo a verificare quanti sono i tavoli attivi nei comuni, nei consorzi, con le partecipate, con le regioni e con il governo sui temi strategici riguardanti il mondo del lavoro, che vanno dalla tassazione al welfare, dai servizi all’occupazione, dal mercato del lavoro allo “sviluppo”, i numeri sono sempre meno incoraggianti. Il ruolo “politico” del sindacato cristallizzato dai primi accordi sulla concertazione nel 1993 e via via diffuso ai diversi livelli istituzionali e territoriali ha perso smalto negli ultimi 15 anni. Tant’è che interpellare i sindacati da parte dei diversi enti istituzionali non è più di moda, è diventato un opzional anche sui temi più legati al mondo del lavoro.

La stessa attività di lobbyng fatta dalla Cgil sul Parlamento e sui vari ministeri per condizionare le diverse riforme legislative ha perso di efficacia in forma esponenziale dall’ultimo governo Monti in avanti. Anche quando vi sono esponenti di sinistra all’interno dei governi di diverso segno dalla destra, la resa dell’azione diplomatica delle organizzazioni sindacali è risultata tendenzialmente sempre più debole. Certo con il secondo governo Conte si è avuta una parziale controtendenza, ma poi è arrivato Draghi e la linea dell’ortodossia liberista di Bruxelles sulle questioni del lavoro e della redistribuzione ha prevalso.

Dopo trentanni di narcotizzazione progressiva delle lotte e delle mobilitazioni, l’azione di persuasione e contrattazione sui grandi temi rispetto ai diversi livelli istituzionali ha perso generalmente capillarità e forza, vedendo un processo di silenziosa esclusione della partecipazione dei sindacati a molti e diversi tavoli sociali.

Così come per il vecchio modello contrattuale di matrice concertativa se ne è verificata l’inadeguatezza con la scoperta dell’acqua calda dei salari italiani in perdita di potere d’acquisto dagli anni 90, in controtendenza rispetto al resto d’Europa.
Oggi con la nuova spinta inflazionistica globale quel modello farà la fine del guscio di noce nella tempesta. In questo quadro parlare di salario minimo è comprensibile, ma rischia di avere l’efficacia di un pannicello caldo che non risolve il problema del modello contrattuale, del recupero contrattuale, della necessità di reintrodurre automatismi salariali legati all’andamento dei prezzi, visto che una politica dei prezzi e dei redditti centralizzata non si è mai voluta fare in questo paese dagli accordi del 1993.

Dunque la discussione congressuale che si apre nella Cgil, data la congiuntura, dovrebbe essere più strategica e attenta ai temi bollenti di ieri e di oggi, fortemente condizionati dal nuovo scenario generato dal clima di guerra totale, permanente e globale. In realtà per tempi e modi questo congresso rischia di essere più una messa cantata che un vero congresso. Anche se vi sono due documenti congressuali molto più vicini su temi e obiettivi delle distanze registrate in altri congressi. E pure se il documento di maggioranza rappresenta un compromesso fra moderati e sinistra interne proteso a garantire un ricambio pacifico dei gruppi dirigenti, esso risulta uno dei documenti “di maggioranza”più radicali degli ultimi 15 anni. Pensiamo alla riduzione dell’orario a parità di salario introdotto dalla norma, la reinternalizzazione dei servizi pubblici, la lotta alla precarietà nella scuola e nel pubblico, la lotta all’autonomia differenziata, ecc.

Non a caso la polemica interna, sottotraccia, si è spostata sui mezzi per traguardare gli obiettivi declamati dai documenti. Mentre il primo documento firmato da Landini non dà segnali in merito, definendo una piattaforma vasta e condivisibile di rivendicazioni senza pensare ai percorsi, quindi dandoli implicitamente per assodati attraverso le prassi consolidate (pressing sulla politica tramite il lavoro di lobby e le manifestazioni occasionali del caso, rinnovi dei contratti sui due livelli dando spazio alle categorie nelle aperture su aspetti inclusivi e innovati su quelli salariali, contrattazione sociale sui territori per il resto).

Nel documento cosiddetto di “minoranza” firmato dalla Cuomo troviamo la risposta sui mezzi nel richiamo alla partecipazione della base, nell’evocazione di una cultura del conflitto che risulterebbe dimenticata e osteggiata dalla “maggioranza”, a partire dalla mancata generalizzazione del modello originale della lotta costruita alla GKN.
Il problema vero è che il conflitto – di classe – pensato e interpretato nel paese non è più quello evocato nel documento 2, legato all’errabondo “spirito assoluto” hegeliano della lotta di classe del 900, per come lo abbiamo vissuto o conosciuto.

La composizione di classe è ovviamente cambiata, più terziaria e meno industriale, più polverizzata e meno concentrata, più fluttuante e precaria e meno stabile. Oggi non possiamo dare delle risposte parlando con il bel linguaggio sanguigno degli anni settanta. Nessun lavoratore delle piccole imprese lo capisce mentre i precari abbozzano un discorso “creativo” tutto loro, leggibile nelle mobilitazioni dei raiders o dei precari dei call center e dei servizi pubblici. Per gli immigrati della logistica il linguaggio è decisamente più ottocentesco del boicottaggio della circolazione delle merci, fino a forme di luddismo, assolutamente legittime.
Ma tutte queste forme di lotta nuove sono ad oggi profondamente di settore, corporative se vogliamo, non vengono o non riescono ad essere generalizzate dai suoi protagonisti.

Va da sé che l’adesione reale agli scioperi generali è in calo. Le ore di sciopero ogni 1000 lavoratori sono in diminuzione negli ultimi dieci anni, con una persistente maggiore partecipazione nel settore industriale (dati Istat). Il conflitto c’è, ma non è quello immaginato nella mente dei sindacalisti nostalgici.

E’ quello che emerge occasionalmente in tutte le lotte difensive aziendali, industriali e terziarie, degli ultimi quindici anni. E’ quello che si esprime nelle battaglie dei braccianti immigrati del Sud (e pure del Nord come a Saluzzo o Pinerolo) per avere una casa, una cittadinanza, una dignità, per uscire dal supersfruttamento.
E’ quello dei lavoratori precari dei call center, dei servizi di prenotazione sanitaria, dei musei, degli insegnanti a tempo determinato da dieci anni della scuola che con la loro singola lotta oggi illuminano ben più di uno sciopero generale (che comunque ci mancano!) sulle condizioni disastrate del lavoro a causa delle scelte politiche della classe governante degli ultimi 30 anni e le insufficienze delle risposte sindacali.
E’ quello che quotidiano che emerge dalle cause per lavoro, dagli infortuni, dalle denunce in Procura, all’Ispettorato del Lavoro, ai servizi di Prevenzione e Salute del Lavoro, alla Finanza.
Certo le cause individuali per lavoro sono diminuite a seguito degli sbarramenti introdotti dall’ultimo governo Berlusconi all’accesso alle cause (sempre più onerose per il lavoratore), ma stanno emergendo sempre più cause pilota e colletive. Pensiamo anche solo alle ultime vittorie in tribunale dei raiders.

Insomma il dibattito interno alla Cgil dovrebbe essere più concreto, più legato all’oggi e al che fare, con maggiori capacità di analisi della società che è cambiata e cambierà ulteriormente, anche solo per i tempi di guerra globale permanente. Dovrebbe essere più ampia e democratica nella partecipazione. Invece si è ridotto tutto nei tempi e nei modi, riducendo gli spazi di agibilità partecipativa dei delegati, rischiando così di demandare tutte le scelte e le azioni importanti sempre più ai gruppi dirigenti nazionali, alle segreterie e ai segretari nazionali, trasformando le assemblee generali in semplici partecipanti, non più attori.

Anche in Cgil vi è un piccolo problema di partecipazione e democrazia, non solo nel paese.
D’altra parte si è sempre figli di questi tempi: “gli uomini sono quello che sono, mai influenzati dalla ritardata saggezza dei posteri, e così agiscono” (George Macaulay Trevelyan).

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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