LA CITTA’ DELLA (POCA) SALUTE

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“Nulla sarà come prima”. Nel pieno della pandemia da Covid questa frase è stata più volte pronunciata con una malriposta fiducia nelle capacità disvelatrici e attivatrici del virus. Ora, dopo mesi di crisi sanitaria e sociale, nel pieno di un dibattito pubblico sempre più simile a quello tra tifoserie, appare del tutto evidente che le politiche conosciute sinora, quelle note per il loro profilo austeritario, potranno continuare indisturbate, anche rafforzate, in assenza di una soggettività sociale e politica in grado di contrastarle.

Per indurre a distogliere lo sguardo da questo nodo ineludibile e attualmente irrisolto, in molti hanno cercato di focalizzare la discussione intorno al potere taumaturgico e salvifico proveniente dalle risorse europee iniettate nel PNRR. Alcuni economisti, in primis Emiliano Brancaccio, hanno rilevato, a conti fatti, l’insufficienza delle medesime, che tra l’altro verranno distribuite da Draghi & c. senza nessuna volontà di programmazione strategica a favore di interventi seri su lavoro, ambiente e salute. Per rimanere a questo ultimo ambito occorre rilevare che alla Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono dedicati 20, 22 miliardi da spendere nel periodo 2021-2026. L’attuale Ministro per la salute Speranza aveva stimato in oltre 60 miliardi il fabbisogno, ma evidentemente la logica del “fare fuoco con la legna che si ha” sta prevalendo su quella di un effettivo cambio di passo; il Ministro, insomma, si adegua alla gestione di quel che passa il convento.

Se le risorse sono insufficienti, non poca inquietudine proviene anche da alcuni segnali non propriamente incoraggianti sul piano della costruzione reale della politica socio sanitaria nel Paese. Negli scorsi giorni sono state Rosy Bindi e Nerina Dirindin, esponenti politiche di primo piano e certo non distanti da Speranza, a mettere in guardia il Ministro rispetto a ciò che loro hanno definito come un processo di “strisciante privatizzazione”. Bindi e Dirindin hanno enucleato quattro indizi per sostenere la loro tesi: personale del SSN al palo, lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria, concorrenza sleale dovuta a una possibile maggiore apertura all’accesso delle strutture private all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate e, infine, nessun rilievo decisivo sul nuovo modello di sanità lombarda di fatto in continuità con il disastroso precedente.

L’allarme sollevato sottolinea sicuramente dei punti di verità inoppugnabili, ma per altri versi è reticente e pare incapace di cogliere una tendenza di lungo periodo, che rappresenta la vera base invariante dei pericoli di oggi. Bindi e Dirindin sono state reticenti su quello che avrebbero potuto tranquillamente elencare come quinto indizio: i 4 miliardi del PNRR dati da Speranza a piene mani anche ai soggetti privati che agiscono nel settore delle cure domiciliari.

Occorre poi dire che la spinta privatizzatrice non è un elemento nuovo, che getta ombre sul futuro. Basta guardare indietro con un minimo di attenzione e si vedrà che la legge 833 è stata fatta segno di attacchi in questo senso sin dai primi anni ’90 con ministro De Lorenzo. La linea di penetrazione, poi, è andata avanti anche con Bindi stessa, con Berlusconi e Sacconi, sino ad arrivare a Renzi. Insomma: aziendalizzazione, intra moenia, mutue, fondi e defiscalizzazioni, precariato, welfare aziendale, ecc. non sono nati ora per partenogenesi.

A proposito di ruoli del privato e di scarsa attenzione alle implicazioni derivanti dalle sue attività all’interno dei servizi socio sanitari, può essere utile guardare alla vicenda relativa alla costruzione della nuova Città della Salute a Torino. Molte lettrici e molti lettori sanno di sicuro quanto lungo e tormentato sia stato il percorso per arrivare alla realizzazione di questo nuovo ospedale, che, a scanso di equivoci, sicuramente serve all’interno del complesso dei bisogni di salute del Piemonte. Alcuni passi sono stati fatti, molti ne restano da fare e anche i dubbi su diversi profili aumentano. Nelle scorse settimane è stato il Presidente dell’Ordine dei Medici Giustetto a lanciare una pietra nello stagno elencando alcuni nodi a suo avviso irrisolti e che andrebbero sottoposti ad una discussione più ampia. Vedremo quasi subito il merito e anticipiamo che si tratta di problemi veri e seri. Prima di tutto, però, non è proprio possibile eliminare dal terreno della discussione la pesante dimensione privatistica che accompagna la realizzazione del nuovo ospedale d’eccellenza. Giustetto non ne fa parola, ma è proprio questa la vera ipoteca sul suo futuro.

Il tema delle risorse per investimenti continua ad essere assai spinoso e la stessa Misura 6 del PNRR non lascia spazio all’immaginazione anche per i prossimi anni. Di più: non solo non ci sono risorse, ma la stessa strategia per quanto riguarda gli ospedali parte dal famigerato DM70, cioè dall’idea di ospedale minimo. In questi anni di crisi ed austerità abbiamo assistito a tagli molto dolorosi sulla spesa ospedaliera, forse anche perché era la più facile da “aggredire” rispetto, ad esempio, a quella farmaceutica.

Come giustamente ci ricorda Ivan Cavicchi, servirebbero non solo più risorse (che non si mettono), ma anche una strategia riformatrice in grado di andare oltre gli scarni principi del DM70, dei bacini di utenza, dei posti letto per abitante… L’ospedale dovrebbe essere ripensato in termini più complessi, valorizzando i professionisti che vi operano, ricercando le giuste interconnessioni con il territorio e con la diagnostica. Oggi da più parti arrivano voci insistenti rispetto ai “conti” fuori controllo della sanità piemontese, forse, per ora almeno, mascherati dalle risorse aggiuntive prodotte a seguito della crisi pandemica. Con lo spettro di nuovi piani di rientro e con l’impossibilità di manovra effettiva sul terreno complessivo degli investimenti, per realizzare la nuova Città della Salute si è scelto il coinvolgimento dei privati. Il problema è duplice perché rimanda a un effettivo bisogno di risorse che non ci sono e che non ci saranno (si veda appunto lo specifico del PNRR) e la propensione ideologica e pratica verso il soggetto privato come risolutore efficace ed efficiente di problemi.

Se si intende realizzare un ospedale di insegnamento, i cui cardini sono didattica, ricerca e assistenza, e si intende coinvolgere l’elemento privatistico, occorre sapere bene che quest’ultimo vorrà rientrare il più velocemente possibile dalla spesa sostenuta. L’unico settore del nuovo ipotetico ospedale in grado di assicurare questo rientro attraverso la produzione e le tariffe è quello dell’assistenza (o della diagnostica, tecnologie biomediche). Non si tratta, per essere chiari, di farsi prestare soldi dal privato per fare parcheggi e di dare ad esso la gestione dei medesimi, si tratta qui di indirizzare investimenti ad alto costo per la sanità. La perplessità è fortissima in questo caso perché, appunto, il privato, per il danaro che ci dovrà mettere, non si ripagherà con dei semplici servizi (pulizie, lavanderia ecc.). Raccattare risorse private pone serissimi problemi di governance, come è ormai acclarato da più esperienze realizzate. Chi deciderà cosa? Se ci saranno, ad esempio, prestazioni inappropriate chi avrà il coraggio di fermarle? Se la logica è quella del rientro con interessi dei capitali non rimarranno molti margini per limitare la mano privata. Bisogna sapere che finanziare un’opera di questo tipo con queste modalità significa né più, né meno “mettere la testa in bocca al leone”.

Veniamo agli altri temi posti da Giustetto. Il primo è la non chiara destinazione del CTO, il suo possibile inquadramento come ospedale di territorio all’interno di una incerta visione in cui dovrebbe sorgere un nuovo ospedale unico nell’ASL TO 5 nei pressi di Santena. Il ragionamento è molto serio, però a questo punto varrebbe la pena di estenderlo al complesso della rete ospedaliera. Se la nuova Città della Salute è calibrata su 1040 posti letto secondo standard acclarati per strutture di questo tipo, occorre capire bene dove redistribuire i circa 1500 posti letto prima ricompresi nell’ “area Molinette”. Se l’espansione urbanistica di Torino è decisamente orientata verso nord e i posti letto sono per lo più concentrati nel sud della città, occorrerebbe fare una doppia operazione. Da una parte, appunto, portare dei letti di territorio a nord per non costringere gli abitanti (specie i molti anziani) a spostarsi, dall’altra evitare l’ingresso in città da parte di altri pazienti provenienti dall’area sud. Moncalieri ha un ospedale fatiscente nel centro storico ed è del tutto evidente che andrebbe chiuso il prima possibile. Ancora, dunque, in una logica di rete, andrebbe costruito un nuovo ospedale territoriale al servizio della zona sud, nonché verificate le effettive possibilità di potenziamento di “Giovanni Bosco” e della ristrutturazione di “Maria Vittoria” e “Martini”.

Il secondo tema posto dal Presidente dell’Ordine dei Medici riguarda i posti letto, che secondo lui sarebbero troppo pochi per Città della Salute dopo quel che l’esperienza Covid ha insegnato. Il numero di 1040 posti, come già sostenuto più sopra, pare essere in linea con le ultime esperienze comparabili realizzate. Forse però il problema andrebbe posto diversamente. Intanto i conti sui posti letto non si possono fare su un singolo ospedale. Il fabbisogno del Piemonte, stabilito dal famigerato DM 70, non indica il bisogno di andare a comprimere ulteriormente i posti in acuzie. Se dopo il Covid ci fosse la determinazione, che però attualmente non vedo, per andare ad aumentare il rapporto dei posti letto per numero di abitanti, allora si aprirebbe un discorso diverso non solo riferibile al nuovo ospedale di insegnamento, ma necessariamente da implementare su tutta la rete ospedaliera. Quello che però, a mio avviso, Giustetto non fa è di individuare i giusti interlocutori per la sua richiesta. Bisognerebbe andare oltre la Regione e chiedere a questo Governo, alle forze politiche che lo compongono (alcune alla guida pure del Piemonte) quali sono gli insegnamenti che traggono dal doloroso percorso imposto dal Covid. Sinora paiono non aver capito molto e hanno i cordoni della borsa molto stretti.

Il terzo nodo avanzato dal dott. Giustetto è relativo ai due pronto soccorso previsti alla nuova Città della salute (uno per i casi piò complessi, uno per i casi “normali), con un prevedibile disorientamento dei pazienti in fase di accesso. E’ senza dubbio un problema vero. In realtà un ospedale di eccellenza non dovrebbe avere un accesso diretto dal pronto soccorso, ma dovrebbe invece avere accessi indiretti da pronto soccorso di altri ospedali. Ci potrebbe essere anche un’altra soluzione, certo di non facile fattibilità. Si tratterebbe di costruire accanto a Città della Salute un piccolo ospedale generalista (70/80 posti letto?) dotato di pronto soccorso. Da lì, una volta individuata la patologia e la sua gravità, il paziente sarebbe indirizzato o verso l’ospedale d’eccellenza o verso un altro ospedale di territorio.

L’ultimo argomento critico presentato dal Presidente dell’Ordine dei Medici è relativo alle relazioni tra nuovo ospedale di eccellenza e altri ospedali, con la sanità territoriale e la didattica. Quello che egli paventa è che si pensi solo a una sorta di “nuove Molinette”. Anche qui i dubbi paiono legittimi, anche se Giustetto ha probabilmente avuto accesso a più documenti di quanti ne possono avere i comuni cittadini. Il pericolo che qualcuno si porti la “good company” delle Molinette nella nuova struttura lasciando il resto a derive più o meno evidenti c’è. Ancora una volta la politica dovrebbe pretendere, oggi per domani, un ragionamento di rete chiaro. Certo si andrà per stadi, non si farà tutto in un sol colpo. Però, per ribadire un’esigenza già citata, andrebbe definito prima di partire con la nuova struttura cosa si intende fare dopo l’auspicabile chiusura di Moncalieri. E’ giusto fare un ospedale universitario “piccolo”, ma ci devono essere ospedali di territorio che supportano l’eccellenza (potenziamento del Mauriziano e degli ospedali del nord Torino).

Giustetto ha chiesto la possibilità di un confronto pubblico ampio sui temi da lui posti. Sono d’accordo e aggiungo che andrebbe assolutamente inserito il problema del finanziamento privato. In realtà l’occasione offerta da Città della Salute è semplicemente una delle tante che andrebbero colte per risocializzare e ripoliticizzare la discussione intorno al tema del diritto alla salute. Bisogna riconoscere che oggi questo non sta riuscendo a diventare un prevalente in grado di contribuire alla formazione di una soggettività politica con sufficiente massa critica. Occorre non perdersi d’animo e intanto valorizzare le piccole o grandi esperienze in campo su questo versante, dal lavoro di Medicina Democratica a quello di Vittorio Agnoletto con la trasmissione radiofonica “37 e 2”, ai vari comitati di lotta locale. Di salute se ne parla in modo distorto e inaccettabile, una motivazione in più per tenere la barra del discorso dritta tra invarianza della politica e chiasso da stadio della discussione pubblica.

Alberto Deambrogio

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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