La linea nera della violenza ambientale

«I difensori dell’ambiente in prima linea nel conflitto di risorse naturali vengono uccisi a un ritmo allarmante»- A confermarlo, dopo il recente rapporto “Enemies of the State? / ¿Enemigos del Estado?” di Global Witness è lo studio “The supply chain of violence”, pubblicato su  Nature Sustainability  da un team di ricercatori australiani e britannici guidato da Nathalie Butt della School of biological sciences dell’università del Queensland e della School of geography and the environment dell’università di Oxford.

Secondo la Butt,  «I 1.558 morti registrati tra il 2002 e il 2017 erano in gran parte dovuti alla domanda esterna delle stesse risorse che stavano cercando di proteggere. Il numero di decessi segnalati di difensori dell’ambiente è aumentato, così come il numero di Paesi in cui si verificano (50, ndr)». SI tratta di un numero maggiore di quello dei soldati britannici e australiani che sono stati uccisi in servizio attivo all’estero nelle zone di guerra durante lo stesso periodo. Ed è quasi la metà del numero di soldati statunitensi che sono morti combattendo in Iraq e in Afghanistan dal 2001. Molto, molto di più dei soldati italiani uccisi in missioni all’estero.  Secondo Global Witness, solo nel 2017 sono state uccise almeno 185 persone  colpevoli di difendere l’ambiente e nel 2018, anno non compreso nello studio, gli ambientalisti assassinati sono stati almeno 164.

La Butt fa notare che «I difensori dell’ambiente aiutano a proteggere terra, foreste, acqua e altre risorse naturali. Possono essere chiunque – attivisti comunitari, avvocati, giornalisti, membri dei movimenti sociali, personale delle ONG e popolazioni indigene – chiunque resista alla violenza. E, soprattutto, le popolazioni indigene stanno morendo in numero maggiore rispetto a qualsiasi altro gruppo». Nel  2015 e nel 2016 gli indigeni rappresentano il 40% di tutti i decessi e nel 2017 il 30%, la maggior parte di questi omicidi è avvenuta nelle Filippine e in Colombia. L’America centrale è la regione più pericolosa, con il 36% di tutti i decessi tra il 2015 e il 2017, seguita dal Sud America (32%) e dall’Asia (31%).

Le ragioni di questa violenza mortale sono legate principalmente ai conflitti per le risorse naturali, come acqua, legname, terra per agricola, espansione edilizia o minerali. Tra il 2014 e il 2017 un terzo di tutte le morti dei difensori dell’ambiente – oltre 230 – sono collegati alle industrie mineraria e agro-alimentare.

Il maggior numero di assassinii legati all’agroindustria tra il 2014 e il 2017 è avvenuto in Brasile e nelle Filippine. Il Brasile è anche responsabile della maggior parte degli omicidi legati alla deforestazione. Il numero di morti ammazzati perché si opponevano all’industria estrattiva è più alto nelle Filippine, in Colombia e in India, mentre i decessi legati al bracconaggio sono più frequenti in Vietnam e nella Repubblica democratica del Congo.

I ricercatori evidenziano che «Queste morti rappresentano la punta dell’iceberg della violenza che affrontano i difensori dell’ambiente. Per ogni difensore ucciso, altre migliaia affrontano violenza diretta, minacce e intimidazioni psicologiche e violenza culturale e strutturale più invisibile».

La diversa possibilità di utilizzare i social network e di effettuare indagini sulla violazione dei diritti umani in alcuni Paesi, limitano la quantità di dati disponibili: alcuni omicidi potrebbero non essere mai stati registrati ufficialmente o attribuiti ad altre cause.

La Butt sottolinea: «Sebbene il conflitto per le risorse naturali sia la causa alla base della violenza, le analisi spaziali hanno dimostrato che la corruzione è stata la correlazione chiave per gli omicidi. A livello globale, il 43% di tutti gli omicidi si traduce in una condanna, mentre per i difensori dell’ambiente questa cifra è solo del 10%. In molti casi, uno stato di diritto debole significa che i casi in molti Paesi non vengono adeguatamente investigati e, talvolta, i responsabili della violenza sono la polizia o le stesse autorità. Ad esempio, a Pau D’Arco, in Brasile, nel maggio 2017dieci difensori della terra sono stati uccisi dalla polizia».

Molti di questi assassinii avvengono in aree remote, con scarsa presenza del governo o della polizia, il che significa che è molto più difficile raccogliere prove e, come ha detto a Scientific American, Mary Menton, ricercatrice in giustizia ambientale all’università britannica del Sussex e co-autrice dello studio, «In un modo o nell’altro, questo crea una situazione in cui gli assassini sanno che, essenzialmente, non verranno catturati».

Lo studio indica due leader politici che hanno precedenti particolarmente pericolosi: il  presidente neofascista delle Filippine Rodrigo Duterte, popolarissimo nel suo Paese dove tra il 2016 e il 2017 c’è stato un aumento del 71% di omicidi dei difensori dell’ambiente. Poi c’è un altro neofascista: il presidente del Brasile Jair Bolsonaro che, dopo la sua elezione, ha messo in campo politiche che fanno aumentare i timori per le popolazioni indigene che difendono il loro ambiente. LO studio fa notare che «Il Brasile è costantemente il Paese con il più alto numero di di difensori ambientali morti – in particolare tra i popoli indigeni – e Bolsonaro ha promesso di allentare sia le leggi sulle armi da fuoco che le protezioni ambientali, oltre a etichettare le ONG e gli attivisti come terroristi», diventando, in questo senso, uno degli ispiratori di Matteo Salvini e del governo italiano.

Infatti anche nelle democrazie occidentali il clima sta diventando pesante per gli ambientalisti, tralasciando la tormentata storia dei NO Tav italiani, il rapporto ricorda che anche negli Usa e in Gran Bretagna sono state represse manifestazioni ambientaliste non violente e i difensori dell’ambiente sono finiti in galera, Nel Regno Unito era dal 1932 che non succedeva qualcosa di simile.

Negli Usa, le proteste di indiani e ambientalisti contro la Dakota Access Pipeline sono finite con numerosi manifestanti ricoverati in ospedale dopo che le autorità hanno usato un cannone ad acqua a temperature inferiori allo zero per disperdere la folla. E il presidente Donald Trump e i repubblicani propongono continuamente nuove leggi, sia a livello statale che federale, per reprimere i manifestanti ambientalisti, compresi un forte aumento delle multe e delle condanne detentive o la criminalizzazione per legge delle manifestazioni di protesta (vi ricorda qualcosa?).

La Butt conclude chiedendo maggiore trasparenza e responsabilità da parte di multinazionali e governi e consapevolezza da parte dei consumatori: «L’ecologia del pianeta è fondamentale per la produzione di cibo e risorse – da cui dipendiamo tutti – e alla fine siamo tenuti a difenderla, altrimenti non ci sosterrà. Proteggere le persone che la proteggono fa parte di questo sostegno. Come consumatori dei Paesi ricchi – che stiamo effettivamente esternalizzando il nostro consumo di risorse – condividiamo la responsabilità di ciò che sta accadendo. Le imprese, gli investitori e i governi nazionali, alle due estremità della catena della violenza, devono essere più responsabili».

7/8/2019 www.numeripari.org

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