L’affettività influisce i processi di apprendimento. Quale relazione?

 

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Per un bambino adottato e per qualunque bambino che ha dentro di sé delle zone buie e ancora irrisolte, l’apprendimento può diventare impegnativo e più complesso di quanto ci si possa aspettare. La madre è l’ancora a cui aggrapparsi quando le acque diventano tumultuose, il padre è colui che lo aiuta ad uscire dall’utero e ad affrontare il mondo. La mancanza di una delle due figure può provocare fragilità e carenze anche dal punto di vista comportamentale.

Il bambino adottato deve ricostruire dentro di sé entrambe le figure genitoriali, perché nessuno fino al momento dell’adozione le ha svolte nei suoi confronti, ha bisogno di costruire l’immagine di un padre e una mamma che riescano ad aiutarlo a sostenere e a elaborare tutto ciò che ha dentro, a costruire un pensiero e una riflessione su ciò che è accaduto, ma anche di sentirsi dire che è importante, che vale, che è amato, è un bambino che non è stato aiutato a superare le difficoltà e a gestire il conflitto. Allora può accadere che l’unico modo per affrontare il conflitto con l’autorità diventi quello di agirlo con aggressività, con forme di ribellione, oppure di chiudersi con paura e suscettibilità. Entrambi gli atteggiamenti sono inadeguati, ma spesso sono gli unici che ha imparato. Occorre pazienza, fermezza e rispetto per insegnargli una modalità differente di comportamento e tempo. E’ un bambino che ha bisogno di ricostruire dentro di sé l’immagine materna e paterna, come di persone su cui lui possa avere fiducia, ha bisogno di formarsi un concetto di stabilità familiare, prima di affrontare l’aula scolastica.

Nel percorso della vita niente viene perduto di ciò che viviamo: tutto rimane dentro di noi. Possiamo elaborare e risolvere, le ferite possono cicatrizzarsi e diventare pensieri su cui costruire un significato, un senso, un perché. Noi diventiamo quello che siamo grazie alle esperienze che abbiamo fatto. Non solo il fatto di essere o no amati, ma il modo in cui veniamo amati o accuditi ci condiziona e condiziona il modo in cui ci avviciniamo agli altri e alla realtà che ci circonda. Se io imparo che la realtà è un potenziale pericolo da cui devo proteggermi, con che spirito imparerò la lezione o le cose nuove che l’insegnante cercherà di insegnarmi?

Che tipo di approccio avrò nei confronti della vita? Il bambino adottato è portatore di sofferenze legate alla separazione dalla figura materna e a esperienze di vita pregresse, a qualunque età sia avvenuta la perdita delle figure genitoriali e a qualunque età sia avvenuta l’adozione. Viene minata la capacità di fidarsi dell’altro, la stabilità emotiva, la capacità di tollerare la frustrazione e la separazione e la capacità di stabilire relazioni di attaccamento funzionali e sicure. Arriva nella famiglia in una situazione di immaturità psico affettiva che costituisce un impedimento per un ottimale inserimento scolastico, se esso avviene prematuramente e in maniera inadeguata alle sue necessità profonde.

Quando arriva nella famiglia adottiva il bambino ha dentro di sé tante domande irrisolte, uno stato di smarrimento e confusione che gli impedisce di apprendere nuovi contenuti: la sua testa è piena di domande, di pensieri, più spesso inconsapevoli, che gli impediscono di essere disponibile a nuovi apprendimenti: non abbiamo fatto tutti noi esperienza di quanto sia difficile apprendere qualcosa quando siamo confusi, smarriti, addolorati?

Il bambino adottato, come qualunque bambino traumatizzato, ha bisogno di costruire un pensiero sulla sua storia e sulle sue esperienze di vita, dando un senso a ciò che gli è accaduto. Deve poter ritrovare la fiducia in se stesso e nel mondo attraverso la relazione positiva con l’adulto. Attraverso questa relazione il bambino imparerà a riappropriarsi delle emozioni che per tanto tempo ha dovuto negare e nascondere anche a se stesso e a riacquistare la necessaria autostima e serenità per affrontare le nuove informazioni e i nuovi apprendimenti che la vita e la scuola gli metteranno a disposizione. Spesso sono i bambini a parlare di sé, del proprio essere “adottati”.

Accade all’improvviso, per un’associazione mentale, per una catena di suggestioni che portano ad un ricordo lontano ad un pensiero su di sé. Accade anche perché i bambini che vengono adottati internazionalmente sono sempre più grandi, hanno ricordi netti e precisi. L’adozione non è un accadimento della vita che una volta passato si posiziona nel tempo come qualcosa con cui si ha avuto a che fare e con cui si sono regolati i conti.

Essere adottati è una condizione esistenziale. Per questo i bambini informati dell’essere adottivi o semplicemente consapevoli di esserlo, parlano spesso e volentieri di aspetti della propria vita squisitamente pertinenti all’adozione, che si tratti di ricordi di un primo vissuto anche solo per pochi anni, che si tratti di supposizioni o desideri su qualcosa di cui non si sa razionalmente nulla, che si tratti di un riferimento esplicito al fatto di aver subito un abbandono/ distacco dalla famiglia di origine. Talvolta non si tratta neanche di racconti veri e propri, bensì di “testimonianze” implicite: il colore della pelle (dal diafano all’ebano), i tratti somatici, il nome, dei segni fisici, un’età non corrispondente a quella della classe.

Dietro ad ogni adozione c’è sempre un abbandono, un disagio, un malessere, un male che hanno fatto si che dei bambini rimanessero soli, in balia prima di adulti che non potevano/volevano/ erano capaci di proteggerli e crescerli, poi di uno Stato che ha deciso il loro percorso successivo attraverso istituti e comunità ed infine la loro adozione (nazionale o internazionale). Sono spesso arrivati senza essere consapevoli di quanto accadeva loro. Con il carico di una vita che erano costretti a cambiare drasticamente, totalmente, per sopravvivere e trovare una possibilità di crescita. L’adozione coniuga, come ogni grande cosa della vita, un grande dolore, un grande male e la possibilità di un grande bene.

Ogni testimonianza ad essa collegata porta con se entrambi questi aspetti. Un bambino che racconti di essere adottato in classe, inevitabilmente si sentirà chiedere dove siano ora i suoi genitori che lo hanno fatto nascere. La curiosità sulle sue origini è naturale: “Chi erano? Come erano? Perché ti hanno lasciato? ” Tutte domande spontanee ed ovvie hanno a che fare col fatto che per essere adottati si è prima stati abbandonati. Cosa significa “madre” e cosa significa “padre” ad esempio? In ogni figlio adottivo c’è un” prima” e un “dopo” e tra questi il ponte è l’adozione. Quando si fa nascere e soprattutto quando si accoglie, si ama, si cura un bambino e lo si accompagna verso l’età adulta si è sempre genitori, senza aggettivi ulteriori (“veri”, “di sangue”, “adottivi”).

Per i bambini adottati ci sono stati dei “genitori di prima”che ora non ci sono più per motivi certamente gravissimi ma tutti legati al complicato mondo degli adulti; sono comunque le radici, le origini, hanno donato il proprio codice genetico. Sono stati genitori un tempo, ora i bambini hanno altri genitori che gli sono accanto. Dimenticare la nascita biologica ammonterebbe a svalutarne il passato. Nel bambino adottato c’è sempre un “prima” denso di significati e tracce. E’ proprio questo che rende l’adozione un atto vitale e pieno di meraviglia: la capacità di cucire assieme la realtà di un passato con una potenzialità di futuro, senza negare nulla nel percorso. Si tratta di un passaggio che spesso avviene anche attraverso il dolore. Primo fra tutti il dolore dell’abbandono (che avvenga alla nascita o tanto tempo dopo di dolore si tratta). Per questo pensare l’abbandono è difficilissimo, lo rifiutiamo, ci fa orrore e ci spalanca un vuoto dentro. Ed è il motivo per cui tante volte dei bambini adottati si sente dire: “Ancora questi pensieri sulla mamma di prima? Ma è stato adottato tanto tempo fa”. Come se l’adozione fosse una tale “fortuna” da poter cancellare il dato di fatto che si tratti invece di una “necessità” messa in atto per salvare la vita di un bambino.

L’adozione è l’ultima risorsa per questi bambini. Accade dove nessun altro progetto di recupero della famiglia di origine abbia funzionato. Forse aiuterebbe ricordare che il dolore è un talento, chi lo ha vissuto può avere una marcia in più nella comprensione delle cose della vita, nella lettura dei fatti. In questo senso i bambini adottati sono speciali e nel loro essere speciali, potrebbero essere valorizzati, potrebbero trovare con l’aiuto dell’adulto che gli sta accanto la carta in più da giocarsi anche in termini di rendimento scolastico.

In un processo di apprendimento/insegnamento che si fa creativo, non stereotipato, aperto a nuovi codici. Mentre si insegna si crea una relazione, con la classe e con ogni singolo alunno, si inseguono anche i propri sogni, i propri desideri, si tesse un dialogo che ha a che fare con la costruzione di una vita vivibile, un mondo migliore, si ascolta quello che i bambini raccontano e dicono di sé. E’ un atto che, nel caso di tanti bambini, non solo adottivi, deve partire dalla consapevolezza della realtà del bambino che si ha davanti, anche delle sue ferite. Per questo il clima di collaborazione e di reciproca comprensione tra famiglie e insegnanti è fondamentale e nella costruzione della relazione tra scuola e famiglia è importante ricordare che il dialogo costruttivo si fonda sulla sospensione del giudizio.

Il rapporto emotivo richiede che l’insegnante sappia relazionarsiadottivi, deve partire dalla consapevolezza della realtà del bambino che si ha davanti, anche delle sue ferite. Per questo il clima di collaborazione e di reciproca comprensione tra famiglie e insegnanti è fondamentale e nella costruzione della relazione tra scuola e famiglia è importante ricordare che il dialogo costruttivo si fonda sulla sospensione del giudizio. Il rapporto emotivo richiede che l’insegnante sappia relazionarsi oltre che con il genitore con le proprie reazioni emotive, le proprie incertezze e forse anche con le proprie paure: Paura delle critiche, dell’ostilità, di perdere il controllo, della sofferenza. In questo tipo di relazione dove l’uno è disponibile all’ascolto empatico e l’altro è disposto a raccontarsi con fiducia si può costruire un’alleanza tra scuola e famiglia che sia solida base di crescita per il bambino adottato accolto in classe. In questo senso c’è un importante aspetto che non va dimenticato nel rapporto tra la scuola e la famiglia adottiva: il diritto di cittadinanza della famiglia stessa. Il genitore adottivo ha dovuto superare nella maggioranza dei casi il dolore del “non procreare”. Non solo, ha dovuto esporsi al giudizio dei servizi sociali e del Tribunale per ottenere quella che si definisce “idoneità” e che risuona in modo forte, talvolta inquietante.

All’inizio il genitore adottivo fa fatica a sentirsi davvero genitore, è sempre un po’ in prova, è ancora al centro dell’attenzione, ancora attento a “far bene”. Deve poter essere accolto e aiutato dalla scuola, sentirsi rilassato, sentire che il giudizio è sospeso e che ciò che deciderà di fare, l’ insegnante in accordo con la famiglia, sarà qualcosa che serve ad aiutare e a sostenere il bambino.

L’adozione a scuola ha a che fare con l’accoglienza, del bambino, della sua famiglia, del dolore, del provare e riprovare dove nessuno degli attori può sentire di avere delle verità in tasca. Grazie a questa alleanza tra adulti che in classe può crearsi il clima giusto. Quello che permette di ascoltare senza stupirsi senza preoccuparsi eccessivamente. Per potersi raccontare bisogna avere la fiducia che dall’altra parte ci sia qualcuno che sappia ascoltare senza negare quel che diciamo, che sappia che quelle parole che usiamo non sono impensabili, ma parte della naturalezza delle cose.

Troppo spesso vengono attribuire ai bambini adottati sigle con diagnosi ben definite. Non medicalizziamo ogni difficoltà e mancanza di controllo. Definirli bambini con DDIA noto anche come ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività) affinchè sia fatta una diagnosi col DSM-5 (APA, 2013) non è sempre opportuno. Sono bambini con un loro vissuto, sono stati istituzionalizzati per un periodo se pur breve, ma sempre lungo della loro vita.

Marilena Pallareti

Docente, Forlì. Collaboratrice di Lavoro e Salute

www.lavoroesalute.org

 

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