Lo scandaloso sciopero generale

Undicesimo, non scioperare. Nelle ore successive alla proclamazione dello sciopero generale, chi avesse voluto informarsi sulle ragioni di Cgil e Uil avrebbe dovuto evitare con cautela i media mainstream. Il sottoscritto non lo ha fatto e si è imbattuto in un servizio del TG di Mentana secondo il quale i sindacati avevano fatto male i conti: i redditi inferiori sono quelli che davvero beneficiano degli sconti fiscali, molto più dei redditi alti. Fonte: un grafico del Sole 24 ore opportunamente tagliato, cioè eliminando arbitrariamente le classi superiori ai 38 mila euro, quelle più avvantaggiate dai tagli. Stessa svista è stata compiuta l’indomani dal Corriere della Sera (che per la cronaca ha lo stesso editore de La7).

Poche ore dopo la dichiarazione dello sciopero, sono andato a dormire convinto che i sindacati stessero difendendo le sacrosante ragioni del popolo dei villoni contro l’avidità insaziabile della classe lavoratrice in Italia. E che il Corriere della Sera, insieme alla Cisl, fosse diventato il baluardo del socialismo. Una prospettiva rassicurante. Poi ho visto le tabelle complete, sono disponibili qui.

Perché (solo ora)?

C’è stata una goccia che ha fatto traboccare il proverbiale vaso e portato i sindacati allo sciopero generale. Secondo le ricostruzioni giornalistiche, la scorsa settimana il presidente del consiglio Draghi si sarebbe reso conto che questa riformina fiscale, parto della maggioranza trasformista e del «governo dei migliori», gridava vendetta e che i sindacati confederali non l’avrebbero presa bene. Come rimediare? Con una concessione graziosa. Poiché quasi tutti, finora, lo hanno dipinto come un sovrano illuminato, il Presidente si illudeva che una sua proposta in consiglio dei ministri sarebbe passata senza colpo ferire. E così ha suggerito di congelare i vantaggi fiscali per i redditi superiori ai 75 mila euro per finanziare le riduzioni delle bollette ai redditi inferiori. Solo per quest’anno. E invece buona parte dei ministri e i partiti della maggioranza, sappiamo tutti quali, hanno detto chiaramente no. La minoranza si è ben guardata dal fare le barricate.

È stata la rappresentazione più eloquente di un ceto di governo e di una classe dirigente non in grado anche solo di rendersi conto della gravità della situazione sociale in Italia. Incapaci di affrontare i problemi cronici delle disuguaglianze sociali e territoriali, della mancanza di investimenti pubblici (vedasi il Pnrr), della carenza di lavoro degno condita con abbondanza di salari da fame, del flagello della precarietà che colpisce lungo linee generazionali, di genere, razza e cittadinanza, della piaga endemica dell’evasione fiscale. Di fronte a questo si continuano a proporre le solite ricette: aumentare ancora l’età pensionabile, e invece di creare lavoro stabile e remunerato ridurre il famigerato cuneo fiscale (un’idea geniale che riduce il «costo del lavoro» per le imprese scaricandolo sulla fiscalità generale, cioè sui soliti lavoratori e lavoratrici che pagano le tasse). Persino la flat tax di Salvini sta per diventare realtà, con il passaggio da 5 a 4 scaglioni (per apprezzarne la «regressiva» riduzione negli ultimi quarant’anni vedere questo grafico). Tutto questo con un governo sostenuto dal Partito democratico (oltre che dal Movimento 5 Stelle) che a quanto pare è al governo solo per esprimere rammarico se qualcuno prova a disturbare il manovratore.

Di fronte a tutto ciò uno sciopero è fin troppo poco ma ha scatenato un attacco mediatico e politico degno della peggiore demagogia conservatrice. Sono state pubblicate interviste a ex sindacalisti alla Fiat che dichiarano di non scioperare. È stato insinuato, lo abbiamo già visto, che Cgil e Uil scioperano contro i tagli fiscali ai poveri. Ci sono stati editoriali autorevoli per spiegare che questo non è il momento di scioperare perché c’è l’elezione del presidente della Repubblica. Come se esistesse un semestre bianco anche per il diritto di sciopero…

Non si sono risparmiati gli attacchi da parte dei partiti. Anche di settori del centrosinistra che rimpiangono la cinghia di trasmissione dal partito al sindacato, ma che oggi non hanno più nulla da trasmettere.

Cosa fare di questo sciopero?

L’aggressività della stampa padronale è il sintomo di un’arroganza di classe a cui negli anni è stato concesso troppo, anche da parte del sindacato. Come tutto questo ha trasformato le condizioni della moderna working class lo abbiamo approfondito nell’ultimo numero di Jacobin Italia

Negli ultimi trent’anni le nostre classi dirigenti hanno imposto un modello basato su scarsi investimenti e precarietà e il sindacato non solo non è stato in grado di frenare questo processo, ma lo ha in parte assecondato. A cominciare dai protocolli Amato del 1992 e Ciampi del 1993 che hanno abolito la scala mobile e posto le basi per un mercato del lavoro segmentato e impoverito. Il sistema di relazioni industriali nato da quella svolta ha favorito un’integrazione dei sindacati nei processi decisionali di politica economica ma il più delle volte questa inclusione è stata costruita su un rapporto di forza sfavorevole al lavoro. D’altra parte, questa inclusione subalterna è stata anche accompagnata da un cambiamento ideologico dei sindacati, che hanno rinunciato a una prospettiva conflittuale e hanno aderito anche linguisticamente al nuovo paradigma della flessibilità, del welfare aziendale invece che universale, della competizione internazionale, dello scambio di diritti e salario per maggiore occupazione. 

La scelta di proclamare uno sciopero generale non era quindi scontata, ma allo stesso tempo non indica necessariamente un cambio di strategia. Tali cambiamenti si sono prodotti sempre grazie a forti spinte dal basso e al momento non sembra questo il caso. Negli ultimi anni l’Italia ha conosciuto delle forti mobilitazioni settoriali, in particolare nella logistica, nel tessile e nel settore delle carni, dove però le punte più avanzate del movimento, quelle dei sindacati di base, sono entrate in conflitto con l’approccio concertativo dei sindacati confederali. Le direzioni della Cgil sembrano essersi tenute molto alla larga anche dalle iniziative del collettivo di fabbrica della Gkn che provano a rispondere ai licenziamenti di massa con una proposta di politiche industriali pianificata e democratica. 

Per ora questo sciopero non si discosta troppo da quello del 2014 contro il jobs act (anch’esso proclamato da Cgil e Uil senza la Cisl) che non portò alla cancellazione della riforma Renzi-Poletti e dopo il quale non ci fu nessuna svolta nelle politiche economiche e sociali. Questa volta fino a quando durerà la mobilitazione, e quali concessioni saranno considerate sufficienti per sospenderla? Ci saranno emendamenti alla legge finanziaria? E potranno portare a un accordo dell’ultimo minuto? Al momento sembra di no, e che lo sciopero si faccia. Nel frattempo però, la commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali ha posto ulteriori paletti per i servizi postali e per l’igiene ambientale. Cgil e Uil, quindi, non chiameranno lavoratrici e lavoratori di questo settore a scioperare (oltre a quelli della sanità che già avevano previsto di rimanere al lavoro per via dell’emergenza pandemica). Sarà insomma uno sciopero generale «morbido» che non punta a paralizzare il paese, ma a lanciare un messaggio di avvertimento da parte di lavoratrici e lavoratori a un esecutivo che pensa di governare senza di loro e contro di loro.

Generalizzare lo sciopero

Rimane il punto interrogativo sul dopo. La buona riuscita dello sciopero generale è una condizione necessaria ma non sufficiente per capovolgere l’oppressione di classe che da troppo tempo ci schiaccia. Molte delle rivendicazioni sindacali si proiettano, giustamente, sul medio-lungo periodo: la riforma del sistema pensionistico, la lotta alla precarietà, gli investimenti pubblici. Ma non è chiaro come il sindacato intenda organizzarsi e mobilitare la maggioranza sociale che può supportare questo programma. La «lotta alla precarietà» se non viene declinata in obiettivi concreti rischia di rimanere uno slogan inoffensivo. Inoltre altre questioni rimangono drammaticamente fuori dal perimetro di discussione, ad esempio il salario minimo, lo stop agli appalti privati e all’esternalizzazione dei servizi pubblici, l’espansione del welfare universale, l’abolizione di forme anticostituzionali di lavoro come i tirocini. 

Il casus belli di questo sciopero è stata la redistribuzione del carico fiscale e la condizione di larghe fasce della popolazione con redditi inferiori ai 15 mila euro annui. Ma il fenomeno strutturale da aggredire è che non possiamo permetterci una tale sperequazione salariale. Un’altra parte del paese pensa che tutto ciò sia normale ed è quella che detiene il potere politico, economico e mediatico. Invoca l’ordine e la pacificazione, ma questa pax draghiana non è altro che deserto sociale. 

Lo sciopero generale può rompere questo incanto se viene generalizzato, come ha sintetizzato il collettivo di fabbrica Gkn. Se riesce, cioè, a ispirare la ripresa del conflitto in coloro che finora il conflitto dall’alto lo hanno subito.

Francesco Massimo è membro della redazione di Jacobin Italia. Ha scritto per Dinamopress e il Manifesto. Attualmente vive in Francia dove fa ricerca e insegna a Sciences Po, Parigi. Ha collaborato alla redazione di un rapporto su conflitti e relazioni industriali in Amazon pubblicato dalla Rosa Luxemburg Stiftung.

14/12/2021 https://jacobinitalia.it

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