Lo scrittore Mauro Baldrati parla di Valerio Evangelisti

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intervista a cura di Alberto Deambrogio

Mauro Baldrati, nato a Lugo di Romagna nel 1953, vive a Bologna. Collaboratore di Lotta Continua e redattore di Frigidaire a Roma, nei primi anni Ottanta si è trasferito a Milano, dove ha lavorato per circa un decennio come fotografo free-lance per le maggiori riviste e agenzie. Suoi racconti sono stati pubblicati in varie antologie, sul periodico Segretissimo. Ha pubblicato, con altri autori, il saggio La rivolta dello stile (Franco Angeli 1984), i romanzi Vita complicata di Jimi (Déjà vu, 1993), ha curato l’antologia Love Out (Transeuropa 2012), i romanzi Io sono El Diablo (Fanucci), Lo specialista (Fanucci), La città nera (Fanucci, con lo pseudonimo Shi Heng Wu), Un amore di Jimi (Clown Bianco) ed è redattore del sito politico-letterario Carmilla.

Alberto Deambrogio: Il primo libro di Valerio Evangelisti che ho avuto tra le mani non è stato un romanzo, ma un saggio: Sinistre eretiche. Dalla banda Bonnot al sandinismo. In effetti lui era un laureato in scienze politiche e questo suo orientamento era riscontrabile persino nelle note finali di alcuni suoi romanzi, laddove faceva emergere tutta la dovizia e la fatica messe in campo per la ricerca delle fonti storico documentali alla base del suo lavoro. Ci puoi parlare di questo connubio tra storia e narrativa, tra passato che parla al presente e possibile interpretazione del ruolo di scrittore?

Mauro Baldrati: Il romanzo storico, e Valerio Evangelisti ha dato grandi prove con Il sol dell’avvenire e con l’ultimo Gli anni del coltello, dedicati ai moti rivoluzionari del Novecento, ha la potenzialità di guidare il lettore negli eventi storici, con modalità diverse, e per certi aspetti più coinvolgenti, di un saggio. Questo perché dispone di maggiore libertà, di inventare, di riempire dei vuoti, pur rispettando la scansione della realtà, le date, i personaggi e le loro azioni. Valerio ha agito in questo contesto, con una meticolosa ricerca storica, viaggiando, quasi con l’ausilio di una macchina del tempo, negli ambienti dei rivoluzionari del secolo scorso e della mostruosa reazione del potere imperiale, ma senza fare sconti, spesso con un approccio spietato, mostrando speranze, sogni, ma anche miserie ed errori di chi si batteva per un mondo libero e migliore. Ha rispettato ogni scadenza, ogni evento verificato, ma ha introdotto l’umanità, con le sue contraddizioni. E in questo è assolutamente moderno.

A.D.: Subito dopo la morte di Evangelisti molti giornali e siti hanno costruito i loro pezzi intorno al “re del fantasy italiano”. Personalmente ho sempre fatto molta fatica ad inquadrarlo dentro quell’etichetta, persino quando si parlava del suo Nicolas Eymerich inquisitore. Tu che ne pensi? E come valuti l’operazione costruita intorno alla figura del domenicano spagnolo, alla sua acuta intelligenza, all’autoritarismo, ai miti, ai riverberi inconsci lungo il tempo storico?

M.B.: E’ una forzatura. Il ciclo di Eymerich potremmo forse inquadrarlo nella fantascienza, con varie sfaccettature e sottogeneri. Non dimentichiamo che Valerio ha spaziato dalla fantascienza al western, col ciclo di Pantera, al “metal” hard (I racconti di Metallo Urlante, Black Flag), alla rivoluzione messicana (Il collare di fuoco, Il collare spezzato), a una straordinaria opera su Nostradamus (Magus).
L’inquisitore è un personaggio “cattivo”, e proprio Evangelisti ha detto che coi cattivi la storia viaggia più veloce ed è più coinvolgente. La sua visione autoritaria, spietata e sanguinaria lo porta a investigare su eventi demoniaci e sulle bassezze umane che viaggiano nel tempo e arrivano ai giorni nostri, con segnali, visioni ed effetti disastrosi. Io credo che Valerio, che è stata la persona più generosa che abbia mai conosciuto, sempre disponibile ad ascoltare e a rispondere alle richieste di tanti lettori e aspiranti scrittori (esiste una grande quantità di libri con sue prefazioni), abbia proiettato una parte di se stesso, forse il suo lato oscuro, in Eymerich, e viceversa. Riconoscevo la sua umoralità, la sua insofferenza verso ciò che considerava ingiusto (nell’inquisitore tutto ciò che metteva in pericolo la “sua” chiesa, mentre Valerio è sempre stato un anticlericale convinto, proprio come Eymerich era un feroce fondamentalista).

A.D.: Valerio è stato un militante politico vero e di lungo corso sin dagli anni ’60. Si è impegnato fino alla fine dei suoi giorni all’interno di un campo di sinistra che potremmo definire “non arresa” e non si è mai pentito di ciò che ha fatto come attivista. Credo che molte di queste esperienze siano state alla base della sua narrazione, anche laddove uno non se lo aspetterebbe. Che tipo di esempio ha portato nel mondo della cultura e dell’intellettualità italiana di oggi una figura come la sua?

M.B.: Certo, ha frequentato i centri sociali, ma, l’ha sempre precisato, non come leader ma come militante-comparsa (faceva il barista). Io credo che la sua militanza sia stata anche una formazione letteraria, più o meno come Proust che frequentava i salotti aristocratici della Belle Epoque e intanto studiava, registrava, creava gli embrioni dei suoi personaggi. Oggi non sappiamo, e probabilmente neanche lui sapeva, quanto di quei tempi e di quei personaggi ha innestato nelle sue storie. C’è stata quindi una perfetta continuità tra i vari tempi più o meno perduti della sua vita, un recupero, un ritrovamento, e soprattutto una coerenza. Sono tristi quelle esibizioni di sensi di colpa di certi intellettuali di successo che hanno militato nelle formazioni extraparlamentari e si scusano, le rinnegano, come errori imperdonabili di gioventù. Evangelisti non ha mai perso la dignità in questo modo. Ha fondato, e diretto fino all’ultimo, una rivista on line come Carmilla, schierata senza ambiguità in un’ottica di opposizione radicale ai meccanismi del Potere, e di questi tempi una simile operazione non è a costo zero. Il Potere non tollera la critica strutturale, emargina, talvolta censura. E di solito gli scrittori di successo ne sono consapevoli, per cui cercano di moderare i toni, o tacciono del tutto. Valerio no. Non si è mai tirato indietro. Non gli è mai mancato il coraggio. E’ questo il suo esempio.

A.D.: In una intervista Evangelisti disse che la letteratura poteva avere anche un ruolo molto importante in alcuni frangenti storici, in particolare ricordava che tra i partigiani circolava una lista di libri da leggere tra cui c’era, per esempio, Il tallone di ferro di Jack London. Lui sapeva bene che il tempo in cui si è trovato a scrivere era ben diverso da quello di fuoco degli anni ’40 del secolo scorso.
Credo abbia voluto consegnare un’alta narrativa di intrattenimento in cui però, per chi lo volesse vedere, emergessero alcuni grandi spunti di riflessione. Ci vuoi parlare di questi ultimi, ci vuoi dire insomma quale è secondo lei l’eredità di Valerio Evangelisti?

M.B.: Non so dare una valenza precisa al concetto di “intrattenimento”. Forse tutta la letteratura, in particolare quella storica, lo è, con pesature e implicazioni diverse. Io ho in mente una definizione, che la scrittura se non è etica non è scrittura. A questo proposito in gennaio ho scritto, per il blog letterario Nazione Indiana, una recensione comparata dell’ultimo romanzo di Evangelisti, Gli anni del coltello, e M di Antonio Scurati. Il secondo, che resta un magnifico romanzo storico, contiene un’ambiguità, forse un errore, che rischia di inquadrarlo in un terzismo un po’ decadente, creando di fatto, e suo malgrado (lo stesso Scurati lo ha scritto), un’empatia coi fascisti, con Mussolini, che diventano, forzatamente, con lo spazio loro dedicato, degli eroi, anche se negativi. Evangelisti invece piazza la sua storia nel mondo antagonista dei rivoluzionari, degli idealisti, degli arrabbiati. È quello il mondo. Ne sviscera le speranze, le delusioni, le sconfitte. Traccia i profili dei personaggi, li fa interagire, li accompagna nella miseria e nella tragedia. Non entra nelle camerate degli austriaci, non canta con loro le canzonacce della soldataglia. Non impersona Radetzky, non lo descrive come un aristocratico raffinato, spadaccino provetto, esperto ballerino di valzer e seduttore di signore; no, il feldmaresciallo resta quello che è: il fucilatore, l’impiccatore, il torturatore dei ribelli e dei patrioti. E’ una scelta di campo precisa. Va bene un certo romanticismo letterario, possiamo accettare suggestioni ambigue, in nome della sfida al lettore, ma la quantità imprescindibile di etica non va intaccata. La verità parte da un dato incontrovertibile: se, come ha scritto uno studioso come Alberto Sebastiani, Eymerich è l’archetipo di un’ideologia totalitaria che viaggia nel tempo, avvelena e colonizza l’immaginario, la letteratura di Valerio è una “cura” per decolonizzarlo. Direi che questa potrebbe essere la sua eredità.

Alberto Deambrogio

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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