Reddito minimo, quel che Renzi non sa (o finge di non sapere)

Reddito di cittadinanza, 600 euro a chi non ha lavoro: il disegno di legge M5S

Siamo alle solite: bordate senza senso e costrutto contro la previsione di un reddito minimo. Senza sapere di cosa si parla, per giunta. Confondendo una misura come il reddito minimo garantito, strumento che la gran parte dei Paesi della vecchia Europa conosce da innumerevoli decenni, con la tematica del reddito di cittadinanza, che è spesso più una discussione teorica, che una realtà politica. Tant’è che la stessa iniziativa legislativa del Movimento 5 Stelle, seppure usa la definizione “reddito di cittadinanza”, prevede uno strumento di reddito minimo garantito.

E questa volta le bordate escono dalla bocca del logorroico Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pare così si sia pronunciato:

“Nella grande discussione sulla sinistra sarebbe interessante ragionare sul reddito di cittadinanza che secondo me è incostituzionale. L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Affermare che il compito della politica sia dare un assegno a chi non ha lavoro per me è la cosa meno di sinistra che esista. Il compito della sinistra è creare le condizioni perché ci sia un lavoro per tutti, non l’assistenzialismo per tutti. Ovviamente se uno perde il lavoro è giustissimo farsene carico… L’idea che siccome sono cittadino ho diritto a un reddito è sbagliata. Dobbiamo ritornare allo spirito dei nostri padri: a costruire una comunità in cui tutti possano avere un lavoro”.

Con l’aggiunta che il reddito minimo è una “roba da furbi”.

È un campionario di odiosi e faziosi luoghi comuni, utile, se non altro, a dimostrare l’italica arretratezza del dibattito politico, oltre che delle previsioni normative, riguardo il tema del Welfare universale. Bisognerebbe infatti ricordare al prode Renzi, e ai suoi ministri del Welfare e del lavoro, che misure universali di tutela delle persone lungo tutto l’arco della loro vita furono pensate in Inghilterra da Lord Beveridge nel 1942, certo non un radicale estremista, e poi attuate dai governi laburisti tra il 1946 e il 1951. Si basano proprio sulla previsione di un sussidio universale di disoccupazione e un reddito minimo garantito. Con il primo si prevede un sostegno monetario temporaneo per tutte le persone che perdono il lavoro, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro precedente (dipendente, autonomo, temporaneo, a tempo indeterminato, etc.), cui si aggiunge una serie di altri benefit. Con il secondo, il reddito minimo garantito, si sostengono quelle persone che non arrivano a una determinata soglia di reddito, quantificata dalle istituzioni europee nel 60% del reddito mediano di ciascun Paese, al quale normalmente si affianca la previsione di specifici benefit.

È una misura volta a tutelare le persone non solo dalla mancanza di una retribuzione, ma anche dai ricatti del lavoro povero (Working Poors). Per mettere le persone nelle condizioni di poter condurre un’esistenza degna, libera e attiva, come nelle intenzioni del citato rapporto di Lord Beveridge del 1942: non a caso ancora a fondamento dell’attuale Welfare anglosassone, che tuttora ruota intorno agli strumenti del sussidio universale di disoccupazione, Jobseeker’s Allowance (comunemente definito The Dole, le cui origini si perdono negli anni Venti) e dell’Income support, per le persone che hanno un reddito al disotto di una certa soglia. Sono strumenti che dimostrano l’investimento delle istituzioni nel favorire l’autonomia delle persone: non lasciare da soli gli individui, accompagnandoli a riconquistare gli spazi di autodeterminazione e indipendenza, garantendo le condizioni fondamentali di una vita degna (assistenza abitativa, supporto economico, istruzione e formazione professionale, etc.).

E nel corso degli anni ’50, ’60, ’70 del Novecento la gran parte dei Paesi della vecchia Europa ha introdotto misure analoghe. Mentre da noi si affermava un sistema diWelfare sempre più selettivo, burocratico, assistenzialista, clientelare, paternalistico, vessatorio e corrotto. Che costa quanto gli altri sistemi di Welfare, ma esclude dalle garanzie di base tutti i lavoratori indipendenti e autonomi, così come la gran parte dei lavoratori precari, intermittenti, temporanei. Per tacere di inoccupati, disoccupati di lungo corso, giovani che né lavorano, né sono in processi formativi (NEET generation), oltre a tutte le persone costrette in lavori e “lavoretti” gratuiti e sottopagati, quasi neo-servili: dalla cura e assistenza alle persone, ai lavori domestici, etc.

Mentre la garanzia di un reddito e di un Welfare universalistico favorirebbe l’autonomia e il benessere delle persone e di una società. Perché non si tratta (solo) di lotta alla povertà, ma di promozione della libertà individuale e di migliori condizioni di vita per tutti. È un investimento che le istituzioni pubbliche fanno sulle persone e sulla collettività. Per evitare i ricatti della miseria e della povertà, che altrimenti generano paternalismi, dipendenza, clientelismi, corruzione, sfruttamento, malavita.

Ma tutto questo Renzi non lo sa. O finge di non saperlo. Ripiegando in accuse di assistenzialismo e furberia tipiche di quei due opposti schieramenti ideologici (il lavorismo filo-Pci e il paternalismo delle mentalità caritatevoli) che hanno prodotto l’iniquità dell’attuale modello di Welfare italiano, nella crisi della società salariale, quando il lavoro non basta più, come ricorda nel suo ultimo libro Chiara Saraceno (che sarà presentato a Roma il prossimo 12 giugno).

Eppure nell’XI Commissione permanente del Senato, Lavoro e previdenza sociale, giace il DdL S. 1148 che permetterebbe di unificare i tre progetti di legge (M5S, SEL e Pd) presenti nelle Camere per l’introduzione del reddito minimo garantito.

Ce lo chiede l’Europa, dal 1992, con la Raccomandazione 92/441/CEE.

Ma anche questo Renzi non lo sa.

La Furia dei Cervelli 

Giuseppe AllegriRoberto Ciccarelli

9/6/2015 Fonte: Micromega

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