SANITA’ SENZA OPERATORI

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La crisi dei medici, degli infermieri delle altre tante figure che lavorano nelle strutture del SSN, non è solo legata alla carenza di organici, ma è dovuta anche a ragioni esistenziali e professionali dopo decenni di svilimento delle professionalità, del ruolo e anche della propria capacità di incidere. E’ forse questo il punto di maggior debolezza del nostro SSN.

  1. Lo scoppio della pandemia nei primi mesi del 2020 ha reso palese la mancanza di personale sanitario. Allora emersero pienamente gli effetti e i danni prodotti dai tagli effettuati nel decennio precedente, con la perdita di circa 63.000 infermieri, 15.000 medici e migliaia di altri operatori. Frutto dell’austerità imposta dai governi in seguito alla crisi finanziaria internazionale (la Germania a differenza dell’Italia non penalizzò la sanità). Gli effetti dei tagli, che si abbatterono sia sugli ospedali che sul territorio, contribuirono certamente alla elevata mortalità di pazienti, medici ed operatori, come successe in Lombardia, dove, rotto l’argine del territorio, la pandemia dilagò.

Fu allora che l’opinione pubblica realizzò che i servizi di Igiene pubblica, di assistenza da base, di tutela della salute sui luoghi di lavoro, di epidemiologia, erano stati praticamente smantellati o ridotti a poche unità e svuotati. Vennero a galla anche i danni della privatizzazione, che ora sembrano scordati: un po’ dappertutto era difficile trovare laboratori pubblici, mentre i privati, in condizioni di quasi monopolio, alzavano in modo indecente i prezzi.

Gli ospedali pubblici – i privati non diedero alcun contributo – apparentemente tennero attraverso lo spostamento di personale da altri reparti, ma si fece sentire fortemente la mancanza di varie professionalità: anestesisti, rianimatori, igienisti, pneumologi, radiologi, medici di laboratorio, medici di medicina generale, infermieri, assistenti sanitarie, tecnici di radiologia e di laboratorio, personale di supporto.
Ci saremmo aspettati che il SSN venisse rafforzato in vista delle future ondate, del resto previste, ma ciò non avvenne a parte la stabilizzazione alcune migliaia di medici, infermieri, operatori sociosanitari e altro personale.

Così quando la seconda/terza e la quarta ondata si ripresentarono, trovarono gli operatori allo stesso punto di inizio 2020, cioè a ranghi ridotti e in più stremati dai cicli pandemici. Più preparati rispetto a marzo 2020, ma più stanchi e provati dal lungo e faticoso periodo di emergenza. Che successe? Si rispose, come in precedenza, sovraccaricando gli operatori.

In ospedale, quando i reparti e le terapie intensive tornarono a riempirsi, si seguì la stessa strategia: rinvio delle operazioni programmate, annullamento delle ferie, aumento del lavoro straordinario, riconversione di reparti, quindi aumento a dismisura del lavoro.

Sul territorio, medici e infermieri si trovarono a fare quello che prima facevano interi servizi: tracciamenti, tamponi, vaccinazioni, certificati, segnalazioni e tutta una serie di nuove incombenze, molte di carattere amministrativo, richieste dagli organi regionali e ministeriali.

Tutto ciò, unitamente al fatto che non si coglie alcuna volontà di risolvere le carenze denunciate, spiega la frustrazione, talvolta disperazione, di chi lavora in sanità e porta ad atteggiamenti di esasperazione che si ripercuotono sui malati, a dimissioni, abbandono del pubblico a favore del privato.

Ciò che si prospetta per il futuro è drammatico: la FIASO (federazione delle aziende ospedaliere) stima che, tra il 2020 e il 2024, termineranno il loro lavoro 35.129 medici, 58.339 infermieri, 38.483 unità di altro personale.

  1. Gli infermieri hanno un ruolo decisivo nel garantire la sicurezza e l’assistenza sia in ospedale che sul territorio. La FP-CGIL scrive che oltre ai 63.000 infermieri che mancano per mantenere gli attuali standard, ne servirebbero almeno altri 140.000 per arrivare agli standard europei mentre, per garantire una media di 8.8 infermieri per 1000 ab (ora sono 6,2), come stabilito dall’OCSE, ne servirebbero 471.000. Sempre secondo l’OCSE, se in Europa vi è una media nel rapporto infermieri/medici di almeno 2-4 infermieri /medico, in Italia si arriva a stento a 1,4.

Anche i posti per la laurea nelle specialità infermieristiche sono aumentati di poco, +7.2% per il 2021 rispetto al 2020, che porta a un totale di 17.397 posti disponibili a fronte di una richiesta di 23.000 (da
parte della Conferenza Stato Regioni) e di 28.000 domande di ammissione presentate.

Nel comparto, oltre agli infermieri, mancano tecnici di radiologia, tecnici di laboratorio, assistenti sanitari e operatori socio-sanitari, tecnici per l’ambiente e per la tutela del lavoro.

L’Italia si è sempre distinta dal resto dell’Europa per la non centralità della professione infermieristica. Eppure infermieri esperti e formati possono migliorare l’accesso ai servizi e ridurre i tempi di attesa, fornendo la stessa qualità di assistenza dei medici per una vasta gamma di pazienti, come quelli con malattie minori e che necessitano di follow-up di routine.

  1. Rispetto al passato sta diventando critica anche la carenza di medici. A mancare sono soprattutto gli specialisti a causa dell’erronea programmazione degli anni passati, che sarà difficile recuperare. Negli ultimi dieci anni oltre 12.000 neolaureati sono rimasti esclusi dalle scuole di specializzazione, tanto che si stima che, ogni anno, circa 1.500 giovani medici preferiscano emigrare piuttosto che rimanere bloccati. A mancare sono sia medici ospedalieri che del territorio: anestesisti, rianimatori, medici d’urgenza, igienisti, pneumologi, medici di laboratorio, medici di medicina generale, di ostetricia e ginecologia, pediatria, radiodiagnostica; la criticità investe comunque trasversalmente tutte le branche.
    Il fabbisogno, tra ospedale e territorio, è di oltre 35.000 unità, tenuto conto di pensionamenti e abbandoni nei prossimi anni.

Medici di medicina generale (MMG) e pediatri di libera scelta. Negli ultimi anni è aumentato a dismisura il lavoro legato alla prevenzione e alla profilassi regionali oppure forniti dalle case farmaceutiche, dell’epidemia, ma il personale è rimasto quasi lo stesso, nonostante le strutture a ciò deputate, come i Servizi di Igiene Pubblica, siano stati smantellati o ridimensionati. Oltre all’incremento dell’attività si sono così aggiunte nuove incombenze – procedure di messa in quarantena, di isolamento e fine isolamento, certificazioni, tracciamenti etc. – che cambiano in continuazione in base a direttive che, talvolta, soprattutto nell’ultimo anno, non sono tanto motivate dalla cura e dalla prevenzione quanto dalla necessità di modulare e garantire presenze e attività nei diversi settori economici.

Altre difficoltà sono dovute a problemi di informatizzazione, per cui spesso le piattaforme regionali non riescono ad interfacciarsi con i sistemi di riconoscimento/tessera sanitaria dei pazienti.
I medici di base sono gli unici, In Europa, a non avere una formazione di carattere universitario. I corsi sono assolutamente inadeguati a fornire quella formazione e preparazione che si richiede per un sanitario che rappresenta il primo contatto per una persona con problemi di salute.

In base agli ultimi accordi tra Governo e Sindacati medici e al DM71 che fissa gli standard nelle Case di Comunità e nei distretti, MMG e Pediatri di libera scelta manterranno la posizione contrattuale libero professionale in convenzione ma dovranno prestare 18 ore di servizio presso le strutture distrettuali, di cui 6 presso le CdC (case di comunità), mentre 20 ore saranno dedicate allo studio tradizionale. Nella CdC la presenza medica sarà garantita per almeno 12 ore per 6/7 giorni che diventano 24 nelle CdC di tipo Hub.
Di fatto il MMG continuerà a considerare centrale il proprio studio privato e percepirà come tempo perso quello dedicato alle attività distrettuali e alla CdC in cui la presenza sarà molto limitata e priva di effetti concreti.

Ciononostante molti MMG e pediatri ritengono vada superato il modello organizzativo incentrato sullo studio dove il medico lavora da solo, senza figure professionali di supporto e senza poter integrarsi con gli altri operatori sanitari e sociali. Oltre a lamentare la mole di compiti che gravano su di loro, affermano che, con l’attuale organizzazione, il lavoro ha una scarsissima ricaduta sul piano assistenziale ed è poco efficace. Vedono quindi le case della salute, ovvero di Comunità, come il luogo dove poter integrarsi con le altre professionalità e disporre di quelle risorse (personale, strumentazione, organizzazione) a cui adesso non è possibile accedere.

. Vi sono poi alcune figure del territorio che sembrano sparite dalla Sanità: sono i medici igienisti e del lavoro, i tecnici d’igiene, dell’ambiente e del lavoro che si occupavano di prevenzione sul territorio, nelle fabbriche e nell’ambiente e su cui si fondavano, anni fa, i Servizi di Igiene Pubblica e dell’Ambiente e di Tutela della Salute sui luoghi di lavoro. Dove erano stati costituiti, come in Lombardia, ebbro un ruolo notevole fino ai primi anni 90, prima di essere smantellati o molto ridimensionati (Emilia Romagna, Toscana). Nel resto dell’Italia non furono mai davvero sviluppati. Fare prevenzione primaria significa mettere in discussione modelli di produzioni, di trasporto, di organizzazione dell’abitare, non utilizzare ed immettere nell’ambiente sostanze nocive, investire per la protezione dei lavoratori, monitorare permanentemente i fattori di malattia nei territori, negli alimenti, significa smetterla con gli allevamenti intensivi etc. Questo tipo di attività è sempre stata invisa a chi governa, anche ai Comuni, e quindi la si è lasciata decadere. Ora che la sensibilità per l’ambiente è cresciuta, ne va chiesto il rilancio e il rilancio e il rifinanziamento.

. Tra i medici ospedalieri mancano in particolare: anestesisti, rianimatori, medici d’urgenza, ma anche pneumologi, radiologi, medici di laboratorio, infettivologi.
Difficile recuperare le figure necessarie perché non è stata fatta una idonea programmazione e non sono state prese misure, per tamponare le carenze. Con gli anestesisti e infermieri attuali, secondo Vergallo, (presidente dell’associazione nazionale anestesisti) nelle terapie intensive degli ospedali italiani possono essere gestiti al massimo 7.500 posti letto. AGENAS (agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), dice che i posti sono 9.637, ma non ci sono gli anestesisti per gestirli tutti, quindi oltre 2000 letti è come se non ci fossero. Questo numero, peraltro, è stato raggiunto, per un trucco, quando le regioni, hanno deciso un aumento dei posti letto per non dovere passare nelle zone più restrittive secondo i criteri stabiliti dal governo. Col risultato che nelle regioni, aumentati i posti “teorici”, si sono allentate le restrizioni e questo ha fatto circolare la malattia, anche grave, continuando a sovraccaricare l’intero sistema ospedaliero, compresi i pronto soccorso.

Tra i servizi di emergenza urgenza i più colpiti sono Pronto Soccorso e 118, dove a causa dell’emorragia di personale i pochi rimasti in servizio sono sottoposti a turni massacranti, mancato rispetto delle pause e dei riposi e delle minime tutele contrattuali.
Solo recentemente il Ministero della Salute ha finanziato 17.400 contratti di formazione specialistica post laurea, insufficienti comunque rispetto al fabbisogno stimato. I problemi, però, non sono stati risolti del tutto perché a questo aumento di professionisti deve seguire un accurato lavoro di programmazione delle regioni che finora, su questo come su altre questioni, hanno dimostrato di essere alquanto approssimative. Il rischio è che alcune specializzazioni, restino scoperte. Mancano comunque gli spazi formativi, aule, laboratori sia nelle Università che negli ospedali pubblici.

  1. Quali aspettative per rispondere alla mancanza di personale e alla sua qualificazione.
    Nei prossimi mesi/anni si darà attuazione alle opere previste dal PNRR che, in Sanità, destina i finanziamenti quasi esclusivamente alla costruzione di nuove Case e Ospedali di comunità. Per quanto riguarda il personale si sono calcolati gli standard ma non il fabbisogno, che in base alle stime, dovrebbe essere di 1350 coordinatori infermieristici, 16.200 infermieri e 10.800 figure di supporto, solo in parte compensabili col personale esistente. E’ necessario precisare che le strutture sanitarie territoriali corrispondono e coprono oltre il 50% della domanda di salute: senza personale gli stessi investimenti del PNRR rischiano quindi di essere compromessi, col rischio che naufraghi la riorganizzazione dell’assistenza territoriale.

In generale, non vi è alcun segnale che faccia ben sperare in un aumento della spesa corrente per il personale sanitario sia intra che extra-ospedaliero, nonostante che le carenze ed insufficienze delle dotazioni organiche siano palesi, numerose siano le sollecitazioni da parte di sindacati e cittadini e continui il flusso di professionisti ed operatori verso il privato o all’estero. Certo non è sufficiente l’incremento di 2 mld per 3 anni realizzato dal Ministro della salute, un’inversione di rotta rispetto al passato ma non un cambio di prospettiva.

Manca una programmazione del fabbisogno del personale ed una programmazione ragionata dei posti da istituire negli anni per i corsi specialistici. Se questo è demandato alle regioni, magari attraverso la conferenza Stato-Regioni, dobbiamo aspettarci che le differenze tra territori si accentuino.

Nemmeno la formazione specialistica e degli operatori del comparto sembra essere tra le priorità del Ministero e delle regioni, che sembrano non preoccuparsi della mancanza di strutture e scuole: eppure la formazione è essenziale per il funzionamento delle stesse CdC e dei vari servizi e per l’organizzazione/integrazione tra servizi ospedalieri, territorio e prevenzione.
Infine anche salari e stipendi sono, di fatto fermi a qualche decennio fa.

Poiché non è pensabile, dopo quanto successo, che ci sia una sottovalutazione così grave del fabbisogno di personale, da parte dei vari decisori, tutto fa pensare che governo e regioni siano intenzionate a rivolgersi sempre di più al privato anziché investire nel pubblico.
Oltre a questo, risulta dal “Documento programmatico Fabbisogni di personale sanitario” delle Regioni, che si intende fronteggiare la carenza di personale avviando lo smantellamento dell’attuale sistema di inquadramento del personale per quanto riguarda disciplina, orario di lavoro e compatibilità; aumentando la flessibilità; consentendo l’attività anche fuori dai reparti di appartenenza; espandendo la libera professione; superando l’età pensionabile. L’unico interesse è di superare in qualche modo le carenze di organico ma trascurando completamente gli atri aspetti di crisi della sanità pubblica: lo svilimento professionale, la mancanza di etica, la sudditanza nei confronti di un management a cui non interessa il destino delle strutture che governa e che, nel suo complesso, non ha saputo né gestire conti e bilanci né migliorare la qualità del sistema, in breve che ha dimostrato di non saper governare.

Quindi, le risposte che stanno arrivando non vanno nelle direzioni auspicate come si era sperato nella prima fase della pandemia. Non si va nella direzione di rafforzamento delle dotazioni organiche, nonostante lo stesso Ministro avesse detto che investire sulle risorse umane non è un costo ma un investimento per il futuro, e non si intende investire sulla qualità del personale, affinché recuperi fiducia nel pubblico, partecipi alla ricostruzione del SSN e al recupero dei valori della legge 833/78.

Loretta Mussi

Medico Sanità Pubblica. Collaboratrice di Lavoro e Salute

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