Tassi di interesse, salari, profitti nella guerra all’inflazione e per il dominio globale

L’alta inflazione e gli strumenti utilizzati per domarla dalle banche centrali minacciano di portare milioni di persone nella povertà. Come già negli anni ’70, l’establishment neoliberista punta su una stretta monetaria, sull’aumento della disoccupazione e sul congelamento di salari e stipendi. Inoltre, la FED utilizza tale politica per rilanciare l’egemonia globale del dollaro. Invece di alzare i tassi di interesse, governi e Unione Europea devono imporre alle grandi imprese controlli sui prezzi, la tassazione degli extra profitti e l’applicazione delle norme antitrust. Resta ora da vedere come si muoverà il nuovo governo italiano di destra all’interno di questo scenario complicato e fosco che lascia pochi margini di manovra e ci sta portando verso una grave recessione economica e una conseguente drammatica crisi sociale.

Il tema sarà discusso il 4 ottobre prossimo in un incontro dell’Osservatorio Europeo che sarà trasmesso sulla pagina Facebook di transform!Italia dalle 17.00 alle 19.30

Inflazione, banche centrali e recessione economica

L’inflazione elevata sta spingendo le banche centrali, le ultime fortezze a difesa del neoliberismo, – terrorizzate da un possibile innesco della “spirale salari-prezzi” in stile anni ‘70 – ad operare una stretta monetaria (rialzo dei tassi di interesse e fine delle politiche di quantitative easing), a schiacciare la domanda dei consumatori, a deprimere i valori dei titoli azionari e a progettare un forte rallentamento e, se necessario, una forte contrazione economica.

La prospettiva a breve, paventata anche dalla Banca Mondiale, sembra dunque essere quella di un mondo nel caos e di una recessione economica globale – o quanto meno dell’area euro-americana (con un’economia in stagflazione) – entro il 2023, con pesanti contrazioni dei redditi reali delle famiglie, perdite di posti di lavoro, chiusure di imprese e brutali onde d’urto verso le economie emergenti e povere che non si sono ancora riprese dal CoVid-19 (tanto che per loro si parla di un altro possibile “decennio perduto”).

Nei primi anni ’80, Stati Uniti e Paesi europei sono riusciti ad azzerare l’inflazione (allora definita stagflazione) aumentando di molto i tassi di interesse (il cosiddetto Volcker shock, con i tassi di interesse a breve al 20%1). Ma, hanno potuto farlo solo perché la Cina e altri Paesi dell’Asia orientale hanno fornito al mondo, compresi gli Stati Uniti, enormi quantità di prodotti di alta qualità a prezzi relativamente bassi, e quindi hanno contribuito ad assicurare i mezzi di sussistenza delle popolazioni americane ed europee.

Oggi, un’altra Cina non c’è, nonostante vi sia un’esaltazione di Paesi come Vietnam, Malaysia, India o Messico, oltre che delle possibilità di reshoring, near-shoring e friend-shoring (gli sforzi per allineare i legami economici transfrontalieri con le alleanze geostrategiche) grazie alle sovvenzioni pubbliche e alle nuove “politiche industriali” degli Stati. Non è chiaro chi pagherà il passaggio dalla ”efficienza” (bassi costi economici) alla “resilienza” delle supply chains. In ogni caso, si tratta di un percorso che richiederà anni e molte risorse pubbliche (si vedano i programmi di UE e USA per un rilancio delle produzioni di semiconduttori).

L’insistenza di FED, BCE e altre banche centrali nell’aumentare i tassi di interesse per cercare di tornare alla “normalità” economica è perversa e mirata contro il movimento dei lavoratori, ossia ad usare “la politica monetaria come frusta del movimento operaio2. Presumono (o per lo meno questo è ciò che affermano) che il problema economico di fondo sia un mercato del lavoro teso (da piena occupazione), che causa l’aumento dei salari e, di conseguenza, l’aumento dei prezzi. E sostengono che gli aumenti dei tassi di interesse siano necessari per rallentare questa inflazione dei prezzi salariali.

Una balla colossale! Gli aumenti salariali che sono stati ottenuti solo da alcuni lavoratori, infatti, non hanno nemmeno tenuto il passo con l’inflazione. La maggior parte degli stipendi dei lavoratori si sta riducendo in termini di potere d’acquisto reale. Piuttosto che causare inflazione, i salari stanno effettivamente riducendo le pressioni inflazionistiche.

Il vero obiettivo delle banche centrali è quello di estendere questa riduzione, inducendo una contrazione economica in modo da sopprimere le richieste salariali dei lavoratori, abbassare i costi di produzione e ricreare le condizioni per un rilancio del processo di accumulazione da parte delle imprese.

D’altra parte, le massicce interruzioni globali della produzione, logistica e vendita di beni e servizi, il proseguimento della pandemia da CoVid-19, della guerra tra Russia e Ucraina, della carenza di cibo e della crisi climatica, sono tutti fenomeni scioccanti che le banche centrali non possono controllare, per cui l’insistenza delle banche centrali ad attuare politiche monetarie restrittive, aggiunge ai maggiori costi e carenze derivanti da questi shock, l’aumento del prezzo dei prestiti (per carte di credito, mutui, investimenti). Non ci sono tassi di interesse a Washington, Francoforte o Londra che riducano il prezzo del gas dal Qatar o facciano crescere più grano in Canada o in Argentina. Tutto quello che l’aumento dei tassi di interesse può fare è aumentare il rischio di una recessione, poiché la domanda viene schiacciata e famiglie e piccole imprese vengono ulteriormente spremute. Allo stesso tempo, una parte dell’establishment europeo (a cominciare dai governi olandese e tedesco) sta alzando la sua voce in favore di un ritorno a politiche di austerità con politiche fiscali restrittive tese proprio a colpire i salari (la riattivazione del Patto di Stabilità e Crescita e della normativa sugli aiuti di Stato e gli scostamenti di bilancio)3.

I tecnocrati che dirigono le banche centrali sono anche ossessionati dall’idea che “più a lungo l’inflazione rimane alta, maggiore è il rischio che il pubblico perda fiducia nella nostra determinazione e capacità di preservare il potere d’acquisto“. Che, quindi, si possa verificare un danno alla loro credibilità di difensori del neoliberismo e “un disancoraggio delle aspettative di inflazione dall’obiettivo del 2% nel medio periodo”. Di recente, Lagarde ha detto: “Non permetteremo che questa fase di alta inflazione si trasmetta ai comportamenti economici creando un problema di inflazione persistente. La nostra politica monetaria perseguirà un chiaro obiettivo: assolvere il nostro mandato di stabilità dei prezzi“. I banchieri centrali sono costantemente preoccupati delle aspettative inflazionistiche di imprenditori, uomini d’affari e cittadini perché ritengono che una volta che questi attori assumono un’alta inflazione come scenario per le loro decisioni, non ci sia quasi nessuna possibilità di domarla senza imporre dolore4.

Questo, mentre de-globalizzazione, riallineamento delle alleanze a causa della guerra russa, cambiamenti demografici e produzione più costosa nei Paesi emergenti potrebbero rendere più permanenti i vincoli delle catene di fornitura, rendendo le pressioni inflazionistiche più persistenti nel tempo.

Le politiche egemoniche degli Stati Uniti e l’Unione Europea

Come spiega bene Ernesto Screpanti in un paper non ancora pubblicato5, dietro alle politiche monetarie restrittive e al rialzo dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali si combatte una guerra – soprattutto tra USA e UE – che ha l’obiettivo di rilanciare, anche a spese dell’Unione Europea, il dominio economico-politico globale degli Stati Uniti ormai da anni in declino, facendo leva su un rinnovato potere del dollaro6. Anche il New York Times riconosce che il dollaro forte fa bene agli Stati Uniti, ma fa male al resto del mondo. La rilanciata primazia del dollaro andrebbe a fare il paio con la supremazia militare di cui ancora godono gli Stati Uniti7.

Le decisioni della FED sul rialzo dei tassi di interesse per contenere l’inflazione vanno inquadrate all’interno di questo macro scenario geopolitico e geoeconomico per il dominio globale, dove centrali sono, da una parte, la nuova Guerra Fredda tra gli USA e la Cina e dall’altra la “guerra calda” in corso tra Russia e Ucraina/NATO. L’idea è di “imporre dolore a breve termine” (indurre una recessione globale), “per ottenere un guadagno a lungo termine” (la primazia globale americana). Il rialzo deciso dei tassi da parte della FED, infatti, influisce negativamente sull’economia globale (colpendo i Paesi dell’Unione Europea e la Cina, in primis), mentre il valore del dollaro si rafforza, anche se il suo ruolo monopolistico come valuta di riserva di banche centrali e scambi internazionali sta apparentemente scricchiolando soprattutto a seguito della politica USA incentrata su l’imposizione di sanzioni contro quei Paesi che identificano come nemici (Iran, Cuba, Libia, Venezuela, Afghanistan, Siria, Russia e Bielorussia)8.

Dall’inizio dell’anno, la FED ha rapidamente liquidato le politiche monetarie non convenzionali (il quantitative easing) e innalzato in modo deciso i tassi di interesse – ora al 3-3,25% -, con la prospettiva di arrivare al 4,5-5% entro la fine dell’anno9 L’economia americana non ha visto tassi così alti da prima della crisi finanziaria del 2008. La scorsa settimana, il tasso medio di un mutuo fisso ha superato il 6%, il punto più alto degli ultimi 14 anni. Secondo Bankrate.com, i costi di prestito delle carte di credito hanno raggiunto il livello più alto dal 1996.

La BCE ha proceduto con minore decisione (anche se sta recuperando terreno, con aumenti dello 0,75%10), arrivando ad un tasso dell’1,50%, sia perché è del tutto evidente che gran parte dell’inflazione europea è dovuta all’aumento del prezzo dell’energia (conseguenza della guerra in Ucraina e della speculazione sul mercato del gas spot di Amsterdam) sia perché deve far fronte alla speculazione sull’alto debito pubblico di alcuni Paesi, in particolare l’Italia. Per mantenere sostenibili le operazioni di Transmission Protection Instrument (TPI) con cui vuole cercare di impedire l’aumento degli spread, deve tenere bassi i tassi d’interesse, anche se in questo modo manda ai mercati segnali contraddittori riguardo alla sua determinazione di combattere l’inflazione. Nelle ultime settimane, i “falchi” sembrano aver preso il sopravvento e la BCE ha deciso di rialzare i tassi con maggiore decisione, rischiando di scatenare una crisi del debito simile a quella del 2011 e forse anche molto peggiore.

Il fatto è, come argomenta Screpanti, che “l’aumento dei tassi d’interesse è necessario per domare l’inflazione, ma non con il meccanismo raccontato dalla favoletta che fa dipendere la domanda aggregata di merci dalla ricchezza monetaria e che quindi spiegherebbe il rallentamento della crescita dei prezzi come conseguenza dalla diminuzione dell’offerta di moneta. I meccanismi reali sono altri. Da una parte, c’è un effetto-cambio: il rialzo dei tassi d’interesse fa rivalutare il cambio e quindi riduce l’inflazione importata. Dall’altra, un effetto-salari: il rialzo dei tassi d’interesse scatena la recessione in quanto riduce i consumi di beni durevoli (case, automobili, eccetera, che sono finanziati in debito) e quindi scoraggia gli investimenti; la disoccupazione aumenta e di conseguenza la combattività degli operai si riduce poiché cresce la paura di perdere il posto di lavoro; rallentano i salari monetari; l’inflazione ha ridotto quelli reali, la recessione impedisce il recupero; a quel punto le imprese possono smettere di alzare i prezzi. In sintesi, il rialzo dei tassi d’interesse riduce l’inflazione perché consente di redistribuire il reddito dai salari ai profitti bloccando la spirale inflazionistica a spese dei lavoratori”.

Attualmente, un’importante conseguenza del differenziale dei tassi di interesse FED-BCE è stata che l’euro si è rapidamente svalutato rispetto al dollaro, passando dal cambio di 1,17 dollari per 1 euro (20 settembre 2021), a quello di 0,96 (26 settembre 2022) – una svalutazione di oltre il 19%. A settembre il cambio euro/dollaro è oscillato intorno alla parità, ma la tendenza è al ribasso.

Per gli europei questo significa un “boost” per le esportazioni pagate in dollari, ma anche, e soprattutto, l’importazione di maggiore inflazione, dato che tutto quello che viene importato (dalle materie prime energetiche ai prodotti finiti) costa di più perché viene pagato in dollari. In particolare, in conseguenza della guerra in Ucraina, i Paesi europei devono e dovranno importare maggiori quantità di gas, petrolio, beni agricoli e risorse minerarie dagli Stati Uniti e da altri Paesi. Tutte merci che costano e costeranno di più di quelle russe. Inoltre, gli europei hanno inviato armi all’Ucraina, svuotando i loro arsenali, e si sono impegnati nell’ambito del sistema di difesa NATO ad aumentare le spese militari al 2% e oltre del proprio PIL, con la prospettiva di comprare le ultime versioni delle armi prodotte dalle aziende del military-industrial complex americano. Pertanto, la bilancia commerciale USA-UE peggiorerà grandemente per l’Europa, cosicché la svalutazione dell’euro assumerà le caratteristiche di una tendenza di lungo periodo.

L’entrata dell’economia reale in recessione, con i tassi d’interesse che continuano a crescere, farà aumentare il disavanzo pubblico: sale la spesa per il servizio del debito e scendono le entrate fiscali. Pertanto, come nota Screpanti: “L’inflazione potrebbe mantenere alto il tasso di crescita del PIL nominale (quello che conta nel calcolo del rapporto debito/PIL), e quindi questo rapporto potrebbe non aumentare per un po’ di tempo. Ma non appena l’inflazione comincerà a ridursi cospicuamente si scateneranno le aspettative di una crescita del rapporto debito/PIL. Debito alto e crescente in un’economia in recessione vuol dire altissima probabilità di default. È facile immaginare l’inferno che si scatenerebbe in un Paese [come l’Italia] con un debito pubblico al 150%. È uno scenario tutt’altro che inverosimile. Dall’Italia potrebbe partire una crisi devastante per tutta [l’Unione Europea]. Insomma dalla crisi ucraina, non solo l’economia russa, anche quella europea potrebbe uscire malconcia”.

Controlli su prezzi e profitti per domare l’inflazione

Invece di lasciare che l’inflazione sia affrontata solo dai tecnocrati delle banche centrali con l’aumento dei tassi di interesse, i governi e l’Unione Europea dovrebbero intervenire ed esplorare una gamma più ampia di opzioni, comprese le tasse sui profitti delle società, in primis di quelle energetiche, e il controllo dei prezzi. Questo perché sappiamo che sono le grandi aziende che utilizzano l’aumento dei costi come scusa per aumentare ulteriormente i propri prezzi, ottenendo profitti record. Abbiamo bisogno di controlli limitati sui prezzi per interrompere questo ciclo perverso.

Il problema economico di fondo non è l’inflazione da “spirale salari-prezzi”, ma da “spirale profitti-prezzi”, causata dalle grande aziende che aumentano i loro prezzi al di sopra dei loro costi crescenti. Le grandi aziende stanno usando questi costi crescenti – di materiali, componenti e manodopera – come giustificazioni per aumentare i loro prezzi ancora più in alto, con conseguenti maggiori profitti. Questo è il motivo per cui i profitti aziendali sono vicini a livelli che non si vedevano da oltre mezzo secolo.

Molte grandi aziende hanno il potere (monopolistico o oligopolistico) di aumentare i prezzi senza perdere clienti perché devono affrontare poca concorrenza. Un potere spesso legittimato dai diritti “di proprietà intellettuale”, come nel settore farmaceutico, attraverso brevetti, trade-mark, copyright di progetti industriali che giustificano un “diritto di rendita” che viene finanziarizzato. Dagli anni ’80, due terzi di tutti settori industriali euro-americani si sono concentrati.

Perché i prezzi dei generi alimentari sono alle stelle? Perché solo pochissime aziende controllano la gran parte della produzione e distribuzione di cibo11. Ma il discorso vale anche per le aziende farmaceutiche, il trasporto aereo, le banche, le aziende che forniscono la banda larga, quelle che producono e vendono automobili, quelle che vendono la benzina alla pompa e il gas nelle case. E così via. Tutte le grandi aziende stanno alzando i prezzi e aumentando i profitti perché possono farlo senza incorrere in conseguenze negative da parte di alcuna autorità pubblica.

Questo è il motivo per cui i governi italiano ed europei e l’Unione Europea devono intraprendere un’azione diretta contro l’inflazione da profitti-prezzi, imponendo tasse sui profitti delle aziende che operano nei settori che presentano tassi di inflazione particolarmente elevati, il che ridurrebbe le forme di incentivo all’aumento dei prezzi, piuttosto che affidarsi esclusivamente alla BCE che aumenta i tassi di interesse e pone l’onere della lotta contro l’inflazione sui lavoratori che non ne sono responsabili.

È essenziale una decisa applicazione antitrust. Anche solo una credibile minaccia dell’applicazione dell’antitrust può dissuadere le aziende dall’aumentare i prezzi oltre i loro costi. È utile anche una tassa sugli utili eccessivi inaspettati (una tassa temporanea sugli aumenti di prezzo che superano i costi di produzione dei beni di consumo dell’indice dei prezzi alla produzione).

Inoltre, senza misure di compensazione – interventi fiscali (“politiche dei redditi” e “dei salari”), introduzione di un salario minimo, nuove forme di indicizzazione delle retribuzioni – sarà inevitabile che l’aumento dei prezzi faccia contemporaneamente aumentare la platea degli indigenti. Non avendo la forza politica di fare alcun intervento strutturale di questo tipo, nel 2022 il governo Draghi è intervenuto contro il carovita distribuendo “a pioggia” (con i decreti Aiuti) a famiglie e imprese 66 miliardi soprattutto per far fronte agli straordinari aumenti del costo dell’energia. È assai probabile che anche il nuovo governo di destra sarà costretto, nonostante le parole d’ordine contro uno strumento come il reddito di cittadinanza, a trovare risorse da impegnare per provare ad alleviare la grave crisi sociale ed economica verso la quale il nostro Paese appare diretto a breve.

Analogamente, il governo francese prevede di spendere 45 miliardi di euro per proteggere famiglie e imprese dagli shock dei prezzi dell’energia con un bilancio incentrato sulla riduzione dell’inflazione. Il ministro delle finanze, Bruno Le Maire, ha affermato che da gennaio 2023 sarà messo un tetto del 15% all’aumento del costo di gas e elettricità. In Francia, l’aumento dei prezzi di gas ed elettricità è attualmente limitato al 4% fino alla fine dell’anno grazie al bouclier tarifaire (lo scudo tariffario). Misure analoghe sono state prese in Germania e in quasi tutti gli altri Paesi della UE.

L’imposizione di controlli sui prezzi, con limiti di prezzo mirati, rappresenta una barriera contro l’inflazione e dovrebbe essere estesa a tutti quegli articoli particolarmente essenziali per le classi popolari. L’attuale inflazione è analoga all’inflazione dopo la seconda guerra mondiale12 e durante gli shock petroliferi degli anni ‘70, quando economisti e governi hanno messo in campo controlli temporanei dei prezzi per guadagnare tempo per superare i colli di bottiglia dell’offerta e prevenire la realizzazione di enormi profitti aziendali. Per le stesse ragioni limitati controlli sui prezzi dovrebbero essere presi in considerazione ora. Un approccio adottato da molti governi asiatici che sembra funzionare almeno per ora13. L’inflazione che stiamo vivendo ora non è dovuta agli aumenti salariali dovuti all’eccessivo potere dei lavoratori. È dovuta ai guadagni derivanti dall’eccessivo potere delle grandi aziende. Sono i profitti, non i salari, che devono essere controllati.

Alzare i tassi di interesse e rendere più costosi i prestiti non farà altro che vincolare ulteriormente economie pressoché stagnanti, frenando i consumi e gli investimenti, e quindi salari e la creazione posti di lavoro. Le aziende licenzieranno i lavoratori e taglieranno gli investimenti; alcune falliranno. Alti tassi di interesse spingeranno anche i governi verso l’austerità, poiché il loro debito diventerà più difficile da servire e ripagare. Gli aumenti dei tassi costituiscono uno strumento contundente che fa grandi danni sociali ed economici e che soprattutto non prende di mira i fattori trainanti dell’attuale ondata inflazionistica.

  1. Questa politica ha avuto effetti distributivi significativi e duraturi aumentando la disoccupazione negli Stati Uniti al 10,8% che ha tenuto bassi i salari mentre aumentava la produttività, trasferendo il reddito dai lavoratori alle imprese. È stata accompagnata dalle politiche non monetarie di tagli ai programmi sociali, deregolamentazioni, ostilità verso i sindacati e accordi di libero scambio, dando vita ad una nuova era della disuguaglianza definita dai critici “neoliberlismo“.[]
  2. La FED dovrebbe avere il duplice mandato di “massima occupazione e stabilità dei prezzi“. Tuttavia, uno sguardo da vicino alle sue politiche dal 1980 mostra che è molto disposta a sacrificare la prima per la seconda. La BCE non deve nemmeno pretendere di preoccuparsi dell’occupazione, dato che ha solo un unico mandato, quello della stabilità dei prezzi.[]
  3. Il conflitto in Ucraina e la lotta contro l’inflazione hanno messo allo scoperto per l’ennesima volta le debolezze di un’Unione Europea disunita. A questo proposito, Fabio Masini ha notato che: “Se oltre a una Banca centrale che si occupa di stabilizzare le aspettative sui prezzi, vi fosse un Tesoro europeo in grado di decidere reattivamente, come ha fatto il Tesoro statunitense, con una politica fiscale fortemente espansiva, possibilmente orientata alla costruzione di una più stabile struttura industriale europea, nella quale oltre a tutelare la concorrenza sul mercato interno si pensasse anche ad assicurare la competitività della nostra industria nel mercato globale… anche la politica restrittiva della Bce acquisirebbe maggiore senso. E potrebbe essere accompagnata da minore ansia fra le famiglie e le imprese europee, soprattutto in vista di possibili ulteriori manovre restrittive, se i dati sull’inflazione, il prevalere dei falchi del rigore e ulteriori rialzi dei tassi da parte della Fed li rendessero difficilmente evitabili”.[]
  4. Nonostante la sua formulazione neutra, “raffreddare l’economia” non è indolore e il dolore è sentito molto più da alcuni gruppi che da altri. L’aumento dei tassi di interesse riduce la domanda e dovrebbe spingere verso il basso l’inflazione, ma in tal modo lo fa creando disoccupazione. Come avveniva negli anni ’80, questo spinge verso il basso i redditi dei lavoratori. Quindi, nonostante il fatto che l’inflazione non sia stata causata dalla crescita salariale, sono i lavoratori, specialmente quelli a basso reddito che hanno maggiori probabilità di essere licenziati, a sopportare il peso maggiore della guerra delle banche centrali contro l’inflazione.[]
  5. Il paper verrà presentato e discusso il 4 ottobre prossimo in un incontro dell’Osservatorio Europeo che sarà trasmesso sulla pagina Facebook di transform!Italia dalle 17.00 alle 19.30.[]
  6. Anche la Bank of England, la Reserve Bank of Australia e la Bank of Canada hanno tutte effettuato forti aumenti dei tassi negli ultimi mesi e settimane. La sterlina è scesa ad un cambio di 1,054 dollari per una sterlina (28 settembre 2022), raggiungendo livelli che non si vedevano dal 1985.[]
  7. La spesa per difesa e sicurezza nazionale – uno dei pochi temi su cui Democratici e Repubblicani concordano – è enorme ed aumenta di anno in anno, alimentando il gigantesco military-industrial complex già criticato dal sociologo C. Wright Mills negli anni ’50 e dal presidente Eisenhower nel suo farewell address del 17 gennaio 1961. Gli USA rimangono la superpotenza militare dominante con 750 basi all’estero in 80 Stati. Dalla fine della Guerra Fredda hanno compiuto quasi 400 interventi militari, il 34% in America Latina e nei Caraibi; 23% in Asia orientale e nella regione del Pacifico; 14% in Asia occidentale e Nord Africa; e il 13% in Europa e Asia centrale. Si discute di “grand strategy” e il presidente Biden sostiene che “faremo del XXI secolo un altro secolo americano, perché il mondo ha bisogno di noi”.[]
  8. Da questo punto di vista, l’Unione Europea dovrebbe temere molto l’autoreferenzialità e l’unilateralismo degli Stati Uniti. Le forze politiche che animano la gigantesca macchina dello Stato americano sono diventate faziose ed incoerenti all’interno di una battaglia tra il pluralismo della liberal-democrazia e il fascismo autoritario proposto dal Partito Repubblicano dominato da Trump. Potrebbe essere solo questione di tempo prima che quell’incoerenza politica cominci a colpire le maggiori leve del potere economico e militare. Ora che gli Stati Uniti entrano nel lungo ciclo elettorale 2022-2024 dovremmo aspettarci che le disfunzioni diventino ancora più evidenti. L’enigma che devono affrontare gli alleati dell’America – a cominciare dagli europei che fanno parte della NATO, un’alleanza difensiva rilanciata dagli USA come strumento per restaurare il proprio dominio globale – è come far fronte al declino (e alla possibile implosione) di una grande potenza imperiale che è ancora una grande potenza imperiale, il garante dell’ordine mondiale che è la più grande fonte potenziale del suo disordine. Cfr. McTagu T., What America’s great unwinding would mean for the world, The Atlantic, 8 August 2022, https://www.theatlantic.com/international/archive/2022/08/europe-america-military-empire-decline/670960/; McGreal C., US political violence is surging, but talk of a civil war is exaggerated – isn’t it?, The Guardian, 20 August 2022, https://www.theguardian.com/us-news/2022/aug/20/us-political-violence-civil-war.[]
  9. Dal 16 marzo, la FED ha rialzato i tassi cinque volte (da ultimo il 21 settembre, dello 0,75%), portando il federal funds rate a un intervallo 3-3,25%, e si prevedono ulteriori rialzi per portarlo a 4,5-5% nel 2023.[]
  10. La BCE ha alzato i suoi tassi di 0,50% a luglio e di 0,75% a settembre, portando il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale all’1,50%. Ulteriori rialzi sono previsti nei prossimi mesi.[]
  11. Solo due società controllano il 40% del mercato globale delle sementi commerciali, rispetto alle 10 società che controllavano la stessa quota di mercato 25 anni fa, secondo il rapporto sui “Baroni dei cibo” di ETC Group, un’organizzazione di eco-giustizia. Il commercio di materie prime agricole è concentrato in modo simile, con 10 commercianti di materie prime che dominano un mercato del valore di mezzo trilione di dollari. I prezzi dei generi alimentari sono aumentati notevolmente negli ultimi mesi, dopo le interruzioni causate dalla guerra in Ucraina e i continui impatti della pandemia di CoVid-19, facendo salire vertiginosamente i profitti dei principali commercianti di materie prime e produttori di grano.[]
  12. I controlli sui prezzi sono stati utilizzati con successo in passato. Il defunto economista di Harvard, John Kenneth Galbraith, è stato accusato di controllare i prezzi durante la seconda guerra mondiale, un periodo di disoccupazione quasi nulla e di enorme domanda a causa degli sforzi bellici. Ha utilizzato il controllo generale dei prezzi sulle più grandi aziende accompagnato da un portafoglio di misure per aumentare l’offerta. Durante l’inflazione degli anni ’80, Galbraith si oppose alla rovinosa politica dei tassi di interesse di Volcker, chiedendo invece il controllo dei prezzi come parte di una strategia per contenere l’inflazione assicurando un pieno utilizzo delle risorse.[]
  13. Sebbene l’inflazione rimanga una seria sfida economica in Asia, in molti Paesi queste misure hanno aiutato a proteggere le popolazioni da alcuni aumenti dei prezzi e hanno significato che la maggior parte delle banche centrali della regione non ha dovuto aumentare i tassi di interesse così rapidamente come negli USA e UE.[]

Andrea Scassellati

29/9/2022 https://transform-italia.it

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