Trent’anni e li dimostra

Il 18 dicembre del 1990 veniva ratificata alle Nazioni Unite la “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, entrata poi in vigore nel 2003. Si tratta di un testo estremamente moderato nei toni e negli obiettivi che mirava, in origine, unicamente a tutelare, indipendentemente dal loro statuto migratorio (regolarità o meno dei documenti), le lavoratrici e i lavoratori migranti dallo sfruttamento e dalle violazioni dei diritti umani. Con molta coerenza, la Svizzera all’Onu, né firmò né quindi ratificò la convenzione. Eppure il testo non fa altro che ribadire i diritti fondamentali contemplati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nelle convenzioni internazionali sui diritti umani. Si limita a garantire i diritti civili e politici di chi lavora, come quello ad informare le autorità consolari in caso di arresto e contiene disposizioni riguardanti le violazioni della legislazione in materia di immigrazione nonché divieti come quello di espulsione collettiva. Sancisce alcuni diritti economici, sociali e culturali delle lavoratrici e dei lavoratori come il diritto ai servizi medici minimi necessari o all’istruzione dei minori, sempre tenendo conto della loro condizione. Si proponeva per questo di creare un meccanismo di controllo.

Il Comitato per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie doveva poter vigilare sull’attuazione degli obblighi da parte degli Stati che aderivano alla Convenzione. Questi dovevano presentare rapporti periodici sui provvedimenti adottati per attuare le disposizioni della Convenzione nonché documentare i progressi compiuti quanto le difficoltà incontrate. La Convenzione prevedeva l’invio di un rapporto sulla sua attuazione ad un anno dall’entrata in vigore e poi, a seguire a cadenza quinquennale, ulteriori per dimostrare quanto si andava facendo. Gli Stati aderenti potevano anche riconoscere al Comitato la competenza in materia di procedura di comunicazione individuale e interstatale ma pochissimi sono gli Stati che hanno voluto riconoscere tale competenza “esterna”. Nel frattempo tanto il mondo del lavoro quanto le questioni legate all’immigrazione subivano mutamenti epocali. Aumentavano negli anni le cosiddette “migrazioni forzate”, indotte non solo dal bisogno di un miglioramento delle condizioni economiche ma dall’aumento delle diseguaglianze, dall’esplodere di conflitti (si pensi solo che la fuga dalla Siria iniziata nel 2011 è considerato il più grande esodo di massa dalla Seconda guerra mondiale), dai disastri determinati dai cambiamenti ambientali. C’è un numero enorme di persone in movimento, in pochi diretti in Europa, quindi, utile ripeterlo, risulta sempre più assurdo parlare di sostituzione etnica o di invasione per quanto riguarda il Vecchio continente, peraltro il più opulento del pianeta.

Eppure, soprattutto negli ultimi 12 anni, sono cresciute le barriere per vietare ogni ingresso, per limitare anche il diritto d’asilo per rendere impermeabile l’Europa. Assurdo anche economicamente, perché Paesi come Italia e Germania rischiano in pochi anni di non avere più forze sufficienti a garantire il fabbisogno produttivo minimo – si tratta dei due Paesi UE in cui l’età media è più alta – quindi la questione non vale soltanto da un, per chi scrive, prioritario, motivo etico e politico. Fatto sta che il “migrante economico” è considerato indesiderato e fatto sta che anche il richiedente asilo che una volta ottenuta protezione o lo status di rifugiato, si pone il problema di rendesi indipendente con il lavoro, di mandare soldi a casa quando non di poter ricongiungersi con la propria famiglia.

Ebbene in questo contesto, ad oggi, a 30 anni dalla Convenzione, solo 51 Paesi l’hanno ratificata e fra questi nessuno di quelli che compongono l’Unione Europea, Italia compresa.

Ritrovarsi a dover considerare chi lavora soggetto al diritto internazionale e quindi a minimi livelli di garanzie è inaccettabile per chi persegue logiche di profitto.

Proprio in questi giorni, in un Comune dell’Alto Lazio, gli inquirenti, dopo il ritrovamento di un cittadino albanese lasciato morto su una strada, hanno scoperto l’ennesimo caso di vera e propria riduzione in schiavitù di un gruppo di persone, impegnate in agricoltura, con un salario di 1 euro e mezzo l’ora e costretti a vivere in condizioni inenarrabili. I proprietari dell’azienda sono stati tratti in arresto e il caso sta esplodendo ma per uno che se ne scopre chissà quanti restano nell’ombra.

La convenzione mai ratificata avrebbe protetto questi e altri lavoratori e lavoratrici e condannato i paesi che permettevano tali trattamenti.

Si è ancora in tempo – ma c’è un ritardo colpevole di governi e sindacati – per riparare ad un torto che dura da trenta anni.

Stefano Galieni

Responsabile nazionale PRC Immigrazione

18/12/2020 https://transform-italia.it

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