Un clima di ipocrisie

Non è servito un anno di mobilitazioni per il clima senza precedenti dei Fridays For Future e degli ambientalisti in tutto il Pianeta per spingere i governi a raggiungere un accordo, nell’ultima Conferenza sul clima a Madrid.

Per molti osservatori è stato chiaro il ruolo di disturbo non solo di alcune delle più grandi economie del pianeta, a partire dagli Stati Uniti, che non si vogliono impegnare a maggiori tagli delle emissioni responsabili del riscaldamento globale, ma anche delle forti lobby delle imprese dei combustibili fossili e delle utility che non vogliono cambiare né business né modello di sviluppo.

Non si è raggiunto alcun accordo nemmeno sulla creazione dei mercati globali dei permessi di emissione, che si prefigurano di per sé come una frode per evitare i vincoli di riduzione delle emissioni stesse. Alcuni esecutivi, insieme a imprese “di peso”, non paghi delle scappatoie già offerte a loro, chiedono che si includa anche una mole immensa – e spesso conteggiata due volte – di emissioni risparmiate associate alle conservazione delle foreste ed altre azioni virtuose o presunte tali.

In questa debacle, l’ipocrisia della lotta ai cambiamenti climatici da parte di molti attori è emersa in maniera palese nei giorni della conferenza di Madrid. L’ad di Enel, Francesco Starace, ha ricevuto dall’Università di Berkeley in California l’ambito premio Global Leadership Award. La multinazionale italiana viene considerata in prima linea nell’innovazione tecnologica per portare sostenibilità sul pianeta.

Peccato che in una recente missione di campo Re:Common ha potuto toccare con mano una situazione drammatica dal punto di vista ambientale, sanitario e sociale nella città di Coronel, in Cile, dove Enel opera due impianti a carbone che utilizzano tecnologie obsolete proprio nel bel mezzo del centro abitato (leggi il reportage di Marina Forti sulle centrali Enel in Cile). La società ha dovuto patteggiare con una procura cilena riguardo alle eccessive emissioni degli impianti, ciononostante è ben contenta di continuare con la centrale più grande fino al 2040, in barba ad ogni impegno di decarbonizzazione preso dall’azienda con i suoi azionisti sin dal 2015.

Inoltre pochi giorni fa la società Standard Ethics ha abbassato il rating etico di ENEL perché “il perimetro e la tipologia dei rischi Esg e di quelli reputazionali di Enel è mutato”.

Sempre in Europa l’impresa tedesca Uniper, controllata da quella pubblica finlandese Fortum, ha deciso di citare in giudizio ad un tribunale arbitrale privato internazionale il governo olandese poiché questo ha deciso – con tanto di legge approvata dal Parlamento dell’Aja – l’uscita dal carbone al 2023, obbligando l’impresa a chiudere un suo nuovo impianto nel paese (guarda qui il video che racconta questa storia).

In molti investono nella Uniper/Fortum, tra cui anche la nostra Intesa Sanpaolo. Sempre negli ultimi giorni la stampa slovena ha rivelato che la banca italiana starebbe finanziando il nuovo impianto a carbone di Tuzla 7 in Bosnia-Herzegovina. Un progetto sotto indagine da parte della commissione europea per possibile violazione per aiuti di stato. I cinesi e i russi sono pronti a finanziare questa bomba climatica che vincolerà il paese balcanico ad un futuro di carbone.

Per ultimo, l’ex ministro dell’Istruzione Fioramonti, in visita alla COP di Madrid, aveva candidamente ammesso che l’Eni va totalmente riconvertita per uscire dal business dei combustibili fossili. Finalmente un rappresentante istituzionale ammette che l’Eni è l’elefante italiano nella cristalleria del clima. Ma è lecito porre a questo punto una domanda molto ingenua al governo: è davvero possibile trasformare l’Eni, o la più grande azienda italiana è nata e morirà con i combustibili fossili, e perciò sarà sempre il vero ostacolo per iniziare ad attuare una giusta transizione fuori dall’economia dei fossil fuels? Peccato che il governo italiano, principale azionista di Eni con una solida golden share del 30 per cento, ad oggi non abbia mostrato alcun interesse a riconvertire, o anche più modestamente riformare, la società a seguito dei numerosi scandali di corruzione ed inquinamento, limitandosi ad intascare ogni anno un lauto dividendo di qualche miliardo di euro. Anzi chiedendone di più, viste le ristrettezze statali di bilancio, e spronando così la stessa Eni ad estrarre e vendere sempre più petrolio e gas. L’ennesima ipocrisia climatica, sovranista e tricolore.

Antonio Tricarico

16/1/2020 comune-info.net

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