Vaccini, società e conflitto ai tempi della pax draghiana

In vista dell’introduzione di domani del green pass obbligatorio anche sui luoghi di lavoro, non si può che osservare un clima di tensione crescente: sia fra le file dell’esecutivo, che ancora non sa come mediare e gestire il possibile caos nel settore della logistica, sia nelle discussioni che “a sinistra” montano sulla natura del variegato movimento che si oppone alla certificazione verde, polarizzata fra condanne ed entusiasmi, sia (non da ultimo) all’interno dei collettivi di lavoratori e lavoratrici stessi, che già in occasione dello sciopero dei sindacati di base di lunedì registravano alcune divergenze sul tema. Il tutto è complicato dalla “lunga scia” dei fatti di sabato scorso a Roma, iniziati con le arringhe del fascista Castellino dal palco e terminati nell’assalto alla sede della Cgil.

Proviamo a partire da qui: per interpretare ciò che è accaduto in quell’occasione, le categorie di fascismo e anti-fascismo rischiano di essere fuorvianti. In piazza erano sicuramente presenti molti fascisti: anzi, come appena ricordato, erano tra gli organizzatori, pienamente legittimati a parlare, applauditi da migliaia di persone. L’assalto alla sede della Cgil è stato un gesto squadrista, soprattutto nello specifico immaginario storico dell’Italia repubblicana.

Dello svolgimento della giornata, però, quello è solo un atto: giustamente mediatizzato all’esterno, ma non così decisivo nell’ottica interna della manifestazione. Non è l’ideologia fascista ad animare le mobilitazioni che dall’arrivo del Covid-19 si sono registrate in diversi paesi del pianeta, sebbene sia la destra estrema la parte politica che più naturalmente vi trova legittimazione e produce identificazione.

Non sono tutte fasciste le migliaia di persone, molte più di 10mila come si vede dalle foto, che si sono concentrate in piazza del Popolo o i circa 7 milioni di italiani che nel mezzo di una pandemia che solo qui ha fatto 131mila vittime non si sono ancora voluti proteggere attraverso il vaccino.

Molto più difficile è dire cosa unisca quella piazza, in quale orizzonte di senso si inserisca, come possa accogliere senza contraddizione comuni cittadini e militanti neofascisti che gridano «libertà» e «no alla dittatura sanitaria». Prima di ragionare su questo aspetto, estremamente complesso, è utile dedicarsi a un esercizio più semplice: vedere cosa è cambiato dopo il weekend nello scenario politico generale.

Gli effetti


Chi ha tratto inizialmente maggior vantaggio dall’attacco squadrista alla sede della Cgil è il clima di unità nazionale che sostiene il governo e dunque il premier Mario Draghi.

Alla fine dei conti l’assalto dei neofascisti – che hanno potuto agire indisturbati, nonostante fossero facce ben conosciute a prefettura e questura e avessero anche annunciato dal palco l’intenzione di far visita al sindacato – stringe il fronte unitario che sostiene l’esecutivo. Sia mettendo in difficoltà Fratelli d’Italia e la parte della Lega che fa riferimento a Matteo Salvini, sia associando nell’immaginario comune l’opposizione al green pass all’estrema destra più becera contro cui animare il frontismo anti-fascista (destinato a durare lo spazio di una passerella).

Sabato prossimo a Roma i sindacati confederali hanno lanciato una mobilitazione, probabilmente statica, con la parola d’ordine «mai più fascismi». Un modo di rispondere in massa all’attacco squadrista, ma anche un’occasione per rilanciare la contrattazione con il governo.

Ben altro valore avrebbe avuto convocare immediatamente uno sciopero, una protesta conflittuale, magari nella stessa giornata di lotta dei sindacati di base. È ciò che avevano chiesto nei giorni precedenti gli operai Gkn che in piazza hanno detto: «Non vediamo i compagni del sindacalismo di base come concorrenti o avversari. Avrebbe dovuto o dovrebbe essere la Cgil a dichiarare lo sciopero generale di massa».

Intanto tutto ciò che si muove fuori dal perimetro della pax draghiana è finito nello stesso tritacarne dei fascisti. I no tav definiti «terroristi urbani» dal direttore di “Repubblica” in diretta televisiva, di fronte a un silente Landini.

Lo sciopero unitario dei sindacati conflittuali declinato mediaticamente come una protesta contro il certificato verde. I centri sociali indicati dalla destra come contropartita per lo scioglimento di Forza Nuova.

Le prossime mobilitazioni, soprattutto quelle di fine ottobre contro il G20, sottolineate con il pennarello rosso sul calendario dell’allarme sociale e in via di militarizzazione. E dunque mentre re Mario «prende in considerazione» l’ipotesi di liquidare il partitino di Fiore e Castellino, anche se nessuno si illude che il fascismo o la povertà si aboliscano per decreto, dal Viminale trapelano veline molto più concrete sulle future limitazioni delle piazze.

La piazza e il «popolo»


Chi sabato scorso nel centro di Roma ha intravisto il popolo ha avuto un’illusione ottica. C’era invece tantissima gente. Prima e dopo la protesta, però, restano i numeri della campagna vaccinale che per una volta esprimono in maniera netta le scelte intorno a quello che è diventato (incredibilmente) il principale crinale di polarizzazione sociale. Lo fanno in maniera più esatta di sondaggi, scadenza elettorali, referendum. Chi non vuole il vaccino è una minoranza, ma una minoranza agguerrita, spesso infervorata da spinte mistiche e percezioni escatologiche. E ciò rafforza lo scontro, che non ha punti di mediazione.

Con questa parte non piccola di popolazione sono spesso saltati i criteri comuni di interpretazione della realtà, la condivisione degli strumenti di calcolo di rischi e benefici, la capacità di definizione collettiva dei valori etici.

È capitato a tutti di trovarsi a discutere con parenti e amici che da un certo punto della pandemia parlano come fossero esperti di biologia molecolare, scrivono inoculazione con la (o) tra parentesi, nominano dittatura sanitaria e grafene, rispondono «non è un vaccino, ma un siero sperimentale».

Più che il ritorno delle camicie nere è questa discontinuità epistemologica e cognitiva che ha frammentato la società ad alludere a un futuro possibile. Potrebbe essere un sintomo passeggero della pandemia, ma anche l’annuncio di un futuro di incomunicabilità e disgregazione sociale. Se questo dipenda dalle nuove forme di comunicazione, se rifletta l’onda lunga di un anno e mezzo di interazioni sociali ridotte o sia dovuto ad altre ragioni ancora è presto per dirlo. Rimane però la questione più complessa e forse importante da interpretare.

Green Pass


È vero che tra le piazze no green pass e quelle no vax esiste uno scarto, ma non si possono negare i fondamentali elementi di continuità. Il leader di Fn Giuliano Castellino non è finito su un palco davanti a migliaia di persone per caso. La traiettoria che lo porta al centro di piazza del Popolo è emblematica: negazionismo della pandemia e manifestazioni contro il lockdown, opposizione a coprifuoco e chiusure, rifiuto del vaccino e solo in ultimo del green pass.

Il nocciolo della storia non è il codice a barre sul lasciapassare, è il liquido contenuto nella siringa. Inutile girarci attorno. Tutti i no vax sono contro il green pass, anche se non tutti gli anti green pass sono no vax. E quelli favorevoli al vaccino sono irrilevanti non per caso, né per effetto della mancanza di investimento militante.

Il certificato verde stabilisce un precedente pericoloso rispetto a nuove forme di cittadinanza differenziale e limitazioni all’accesso dello spazio pubblico, al godimento di alcuni diritti o alla possibilità di usufruire di determinati servizi. Un brutto precedente, sicuramente. Ma rimane difficile vederci la personificazione del tiranno.

Da questa parte del mondo il privilegio dei vaccini è gratuito e accessibile a chiunque e rimane anche aperta la possibilità di sottoporsi a tampone (ammesso che dal 15 ottobre il sistema tenga). La libertà di scegliere, insomma, resta. A differenza di quanto accade per altri gruppi sociali che si vedono negare diritti senza alcuna alternativa. Se il green pass è dittatura, allora cos’è il permesso di soggiorno per i migranti? E se l’obiettivo del green pass è escludere e discriminare, come mai viene rilasciato anche agli stranieri senza documenti, agli ultimi, agli invisibili?

Il green pass è “semplicemente” una misura di soft law neoliberale che forza la popolazione a un determinato comportamento senza imporre un obbligo o un divieto. Ha l’obiettivo di far aumentare il numero dei vaccinati e così prevenire altre chiusure, tutelando in primis le attività economiche. Paradossalmente, però, è anche un misura anti-economica che rallenta la circolazione di merci e persone e dunque non durerà per sempre.

Una misura che colpisce alcuni diritti e che divide dolorosamente i lavoratori, i quali infatti – a seconda dei vari contesti – si trovano spesso stretti fra le esigenze corporative e di mantenimento dell’unità di classe da una parte e la garanzia della tutela della salute sul posto di lavoro dall’altra: se a Trieste i portuali (fra i quali pare esserci una percentuale molto più alta del 20% di non vaccinati) hanno chiamato uno sciopero per domani chiedendo la cancellazione del green pass su lavoro per tutto il territorio nazionale, lunedì a Genova i camalli del Calp e le reti antifasciste hanno deciso di non condividere la piazza con le frange contrarie al certificato verde guidate da Italexit di Paragone.

Per quanto riguarda il settore della logistica in particolare, pesa anche la confusione riguardante i vaccini di produzione non europea o statunitense: il green pass infatti non è valido per chi è stato vaccinato magari con Sputnik, come capita per tanti camionisti provenienti dall’est-europeo. Una grave disattenzione e noncuranza da parte del governo, che colpisce anche tanti cittadini italiani residenti all’estero. In più, va anche rilevato che sulla misura del green pass c’è stata scarsissima trasparenza comunicativa e che la sua efficacia dal punto di vista sanitario è tutt’altro che scontata, come sembrano evidenziare alcuni studi.

Ciò non toglie, però, che contro una misura di questo tipo, più che cortei o slogan, forse basterebbe fare una cosa molto più semplice: andare a vaccinarsi. Invece, molto spesso, il vaccino viene visto come la materializzazione del complotto o della dittatura e rifiutarlo come un sintomo di sapienza o libertà.

Quando la parola libertà viene scandita nelle piazze da no vax, fascisti e persino da alcuni libertari rimanda a una specifica declinazione del concetto: la libertà individualista e proprietaria, contrapposta alla responsabilità collettiva e alla cura reciproca.

Poco importa se il tema sia indossare la mascherina, chiudere per qualche mese il ristorante usufruendo dei ristori pubblici o vaccinarsi per mettere al sicuro se stessi e gli altri. Non c’è ragione che tenga: io mi oppongo, io apro, io non mi immunizzo. Chi da sinistra pensa di poter spostare queste piazze su posizioni di altra natura, magari pro sanità pubblica o pro universalizzazione dei diritti, si illude. Nel brodo di anti-scientismo e irrazionalità navigano molto meglio i fascisti, la storia lo ha già dimostrato. Quei valori sono reazionari.

Più coerente è la scelta delle soggettività di movimento che interpretano strategicamente il rifiuto individualista, la parola no a prescindere dalla domanda, come un moto destituente da alimentare per combattere lo stato, di eccezione o meno. È una scelta coerente, ma sbagliata: contro stato e mercato non servono più individualismo o maggiori tutele dei diritti di proprietà.

C’è bisogno di finanziare il sistema sanitario pubblico, slegare la ricerca scientifica dagli interessi economici, garantire l’accesso ai vaccini a livello globale eliminando i brevetti, costruire mondi in cui non sia il più forte a vincere e vivere ma ci sia spazio per tutti, espandere i diritti sociali e dei lavoratori contro rendita e sfruttamento, regolare i sistemi finanziari e tassare i ricchi. Il motivo migliore per andare in piazza del Popolo sarebbe stato impedire ai fascisti di parlare oppure invitare i manifestanti ad andare a vaccinarsi il prima possibile.

Rompere la Pax draghiana


Molto più pericoloso di Giuliano Castellino e la sua band, comunque, è quello che sta accadendo oltre la polarizzazione green pass sì/green pass no. Mentre l’attenzione è concentrata sul certificato verde, l’esecutivo guidato da super Mario Draghi si prepara a gestire la pioggia di miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza in assenza di qualsiasi dibattito pubblico o politico, senza che alcuna forza antagonista provi almeno a contendere la torta.

E mentre passano in sordina riforme decisive per il futuro prossimo del paese, il governo lavora a una parallela ridefinizione del sistema dei partiti (e della concertazione con i principali sindacati). Non sappiamo se Draghi governerà per sei mesi o sei anni, ma le trasformazioni imposte dentro le formazioni politiche e nei loro reciproci rapporti gli sopravviveranno.

L’Italia è il terzo paese più importante dell’Unione Europea e un governo sovranista guidato da Fratelli d’Italia e Lega non può essere all’ordine del giorno. Dopo aver contribuito ad affondare ciò che restava dell’area ingovernabile e ingovernista dei 5 Stelle, il premier si sta dedicando a marginalizzare gli altri populisti. Alla fine della cura-Draghi la Lega assomiglierà più all’Unione cristiano-sociale bavarese (Csu) che al Fronte nazionale francese.

In questo quadro il Partito democratico, capace di esultare per elezioni amministrative quasi senza quorum in cui se tutto va bene toglierà due città ai nuovi amici grillini, è entrato al governo con un’unica linea politica: marginalizzare Salvini e presentarsi come più draghista di Draghi. Del resto un governo di centrosinistra è impossibile: se i 5 Stelle continueranno a crollare anche il «campo progressista» sfumerà, così l’unica opzione di restare in poltrona è creare le condizioni di un accordo che vada da Letta a Giorgetti, anche nel prossimo esecutivo.

Tra gli effetti di questa situazione c’è la spoliticizzazione massiccia di questioni sociali e scelte economiche fondamentali. Quando il premier dice che non può perdere tempo con le agende elettorali dei partiti perché deve spendere il Pnrr e rispondere alla Commissione Europea esplicita, quasi con fastidio, che la dialettica parlamentare su cui si baserebbe la democrazia liberale è già superata. Che non ci deve essere contesa sulle risorse né dentro, né fuori il parlamento.

La pax draghiana è oggi il nemico più pericoloso. Soltanto il conflitto può riaprire i giochi. La domanda più urgente è allora capire quali possano essere gli spazi entro cui creare una nuova politicizzazione ampia e non regressiva, che sappia articolare le istanze delle diverse soggettività in lotta con la richiesta di un contrasto alla pandemia che sia equo a livello globale.

Lotte ambientali, battaglie femministe, vertenze contro le delocalizzazioni e i licenziamenti, la richiesta del salario minimo e l’introduzione del reddito universale di base, mobilitazioni interne alle logistica, riforma fiscale e del catasto: sono i punti di un’agenda di conflitto a venire. Bisogna alimentarli a tutti i costi, guardando avanti.

14/10/2021 https://www.dinamopress.it

Immagine di copertina di Patrizia Montesanti, sciopero 11 ottobre 2021, Roma.

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