Violenza, impotenza e sofferenza

 

Santiago del Cile, ottobre 2019. Foto di Elias Arias tratta da Unsplash

Ho letto un articolo della scrittrice cilena Lucy Oporto Valencia il cui titolo è Lumpenconsumismo, saqueadores y escorias varias: tener poseer destruir. Si tratta di un testo interessante che permette di approfondire una questione che sta emergendo dalla ribellione che attraversa molti luoghi nel mondo, e prima di tutto il Cile. Oporto Valencia parla di

“distruzione sistematica di infrastrutture pubbliche e private che a causa del sabotaggio hanno reso impraticabile il metro di Santiago, e inoltre di saccheggi e incendi nei supermercati, nelle farmacie, microbus, negozi hotel, banche, municipalità, chiese, edifici patrimoniali e monumenti storici, in gran parte del paese”.

La scrittrice critica in modo radicale anche coloro che sembrano comprendere le motivazioni dei sabotatori, dicendo:

“Dicono che il popolo ha diritto di distruggere tutto perché è stato distrutto tutto quel che è suo… Ma questo argomento rivela la assoluta dipendenza del popolo dai suoi oppressori ed è equivalente al ragionamento: se i potenti possono distruggere, saccheggiare e rubare perché noi no?”.

E per concludere respinge

“la vittimizzazione, infantilizzazione degli agenti di questa violenza”.

A parte il fatto che nel Cile di ieri come in quello di oggi la violenza scandalosa e criminale non è quella dei saccheggiatori, ma quella delle forze statali che hanno ucciso decine di manifestanti, accecato centinaia di persone, arrestato, torturato cittadini e violentato molte donne e molti giovani, mi rendo conto del fatto che il dibattito sulla violenza torna nel dibattito politico e filosofico. Questo dibattito ha sempre fatto parte della tradizione della sinistra, dall’epoca della rivoluzione sovietica agli anni Settanta, quando in Italia le Brigate Rosse organizzarono azioni armate di efficacia mediatica e di grande ferocia, come il sequestro e l’assassino di Aldo Moro. Però la discussione sulla violenza non può oggi riproporsi nella stessa maniera perché mancano le premesse politiche e ideologiche di quel passato.

Quando negli anni Settanta in Italia come in altri paesi occidentali il movimento progressista e operaio si divise nel giudizio sulla violenza armata la domanda era: che strategia può essere più efficace per la conquista del potere? La maggioranza del movimento operaio scese la via democratica, mentre una minoranza non irrilevante scelse la azione armata. Oggi l’obiettivo della presa del potere si è dissolto: gli insorti di oggi sanno bene che non otterranno il potere politico attraverso una rivoluzione, e che l’espressione “potere politico” ha perso consistenza quando il potere è sempre più un agente astratto, tecnico e finanziario cui la politica soggiace.

Le ragioni di chi saccheggia e distrugge

Allora perché lo fanno, perché saccheggiano, perché distruggono? Un risposta molto semplice si trova nella situazione cilena del 18 ottobre. Lycu Oporto Valencia lamenta la distruzione di alcune stazioni del metro cittadino, però è chiaro che se gli studenti non avessero distrutto alcuni oggetti materiali oggi non saremmo qui a parlare delle condizioni in cui si trova la popolazione cilena a causa di quaranta anni di sistematica violenza finanziaria e fascista. Non staremmo qui a parlare di questo tema perché i media riconoscono e comunicano l’ingiustizia e la sofferenza solo quando coloro che soffrono distruggono qualcosa e alzano la voce. È triste da dire ma è così.

Inoltre penso che la distruzione di oggetti materiali come le macchine di controllo all’ingresso delle stazioni di metro, anche se è spiacevole e scortese, non lo chiamerei violenza. L’impoverimento e l’umiliazione prolungata di milioni di lavoratori e delle loro famiglie è violenza, questa sì. La disuguaglianza spaventosa che il capitalismo neoliberale ha prodotto con la complicità degli assassini di Pinochet è violenza, quella sì.

Nell’epoca della rivoluzione sovietica e negli anni Settanta la violenza aveva un orizzonte di speranza, oggi ha soltanto un orizzonte di disperazione, e non credo che sia legittimo né eticamente accettabile colpevolizzare coloro che sono disperati, perché la disperazione non è una colpa dei disperati ma una colpa di coloro che ci hanno costretti alla disperazione.

Che cos’è la violenza?

Dopo aver letto l’ammirevole articolo di Oporto Valencia mi sono chiesto cosa si intenda con la parola “violenza”, e dopo avere riflettuto mi sono risposto che la violenza si caratterizza per due aspetti: il primo è che la violenza è conseguenza di una condizione di impotenza, il secondo è che la violenza provoca intenzionalmente sofferenza e umiliazione negli altri, in una persona sola o in gruppi isolati o in tutta la società.

Anzitutto la violenza nasce dalla mancanza di potenza. La stessa violenza dello stato nasce da questo: quando il potere è impotente a comprendere e a governare la società, allora diviene violento. Allo stesso modo gli attori sociali possono diventare violenti quando soffrono o sono impotenti a cambiare la realtà della loro esistenza attraverso la parola. Violenza è l’effetto dell’ineffettualità della parola, sostituzione della parola con la forza.

Quel che abbiamo sperimentato negli ultimi anni – in Cile come in Grecia come in cento altri luoghi del mondo – è la impotenza della democrazia a cambiare una situazione di sofferenza, perché il capitale finanziario ha fondamentalmente cancellato l’efficacia della democrazia, e l’ha sostituita con automatismi tecnici ed economici che in maniera sistematica producono violenza.

Se la mia definizione del concetto di violenza, per quanto insufficiente dal punto di vista filosofico, è accettabile, allora credo che possiamo definire la teoria e la pratica degli economisti della scuola di Chicago e dei politici e banchieri neoliberisti come una violenza prolungata nel tempo contro tutta la società. La distruzione di oggetti materiali non si può in sé e per sé definire violenza, anche se si può talvolta configurare come tale perché può provocare sofferenza e umiliazione nelle persone che di questi bisogni hanno bisogno.

Lumpenizzazione sociale

Lucy Oporto Valencia identifica l’azione di molti insorti cileni come lunpen-consumismo e posso capire il senso di questa parola, e in alcuni casi posso condividerla. Ma non dovremmo mai dimenticare che l’impoverimento morale e psichico di una parte maggioritaria della popolazione è conseguenza della violenza economica del capitalismo finanziario, della distruzione della scuola pubblica, e della competizione che viene predicata come solo valore morale riconosciuto dall’ideologia neoliberista. So bene che in molti casi l’azione di rivolta può contenere elementi di lunpen-consumismo, però mi pare necessario riconoscere che la riduzione di una parte maggioritaria della popolazione a lunpen-proletariato non è qualcosa che si possa imputare alle vittime, ma dipende dalla riduzione della vita sociale a un deserto competitivo e precario. La critica della vittimizzazione che leggo nel testo di Oporto Valencia posso comprenderla e talvolta anche condividerla, ma non quando parliamo di milioni di persone che sono state depredate sistematicamente del loro tempo, del prodotto del loro lavoro e dei loro diritti, prima di tutto del diritto all’educazione pubblica e gratuita.

Oporto Valencia scrive:

“L’impulsività manifestata in questa crisi sociale si radica neo i sinistri appetiti della società di consumo. Prima di essere assassinato Pier Paolo Pasolini sintetizzò quel che potrebbe essere descritto come il teorema della società di consumo: avere, possedere, distruggere”.

Come Pasolini, l’autrice parla di un fenomeno di lumpenizzazione sociale, però come Pasolini dimentica di definirla. Io la definirei come un effetto duplice: da un lato è l’identificazione del consumo come solo valore positivo, e al tempo stesso è l’impossibilità a ottenere i mezzi necessari a consumareIl primo effetto è prodotto dalla società di consumo, dalla pubblicità e dall’individualizzazione competitiva, il secondo effetto è prodotto dalla riduzione del salario e dalla politica di austerità neoliberista.

Quel che non posso accettare però è l’identificazione del lunpen-consumismo con il lumpen-fascismo. La lunpenizzazione generalizzata che il capitalismo ha determinato può evolvere in lunpen-fascismo, ma non sempre e non necessariamente: quel che dobbiamo fare, come intellettuali e come attivisti è proprio evitare che l’impoverimento si trasformi in fascismo, come succede nell’Inghilterra del Brexit e nell’America di Trump. C’è ovviamente una relazione tra povertà, umiliazione e lunpen-fascismo, però questa relazione non è automatica, e il riferimento a Pasolini è interessante, però pericoloso. Non dimentichiamo che Pasolini provò al tempo stesso orrore e attrazione per la figura sociale ed estetica del lunpen, fino a trovare la morte sulla spiaggia di Ostia. Per questo, con tutta la ammirazione e il rispetto per il poeta, non credo che Pasolini ci possa aiutare molto nella situazione attuale.

Uscire dal sistema

Quel che ci può aiutare è l’organizzazione di un movimento autonomo e radicale che renda possibile l’uscita dal sistema dominato dal capitale finanziario e dai suoi servitori politici. Se non riusciremo in questo, mi dispiace ma credo che la violenza sarà destinata a crescere in maniera sempre meno controllabile. Quando si scatenano processi come quelli che si sono manifestati nell’autunno 2019 a Hong Kong, Barcellona, Baghdad, Teheran e molte altre città del mondo (leggi anche Il mondo esplode di Sergio Segio, ndr), non credo che il compito dell’intellettuale e del poeta sia prendere il punto di vista dell’ordine. Se c’è violenza significa che la democrazia è svuotata, perché il capitale finanziario l’ha ridotta a un rituale impotente. Credo che il compito dell’intellettuale, del poeta e dell’attivista sia comprendere le motivazioni della violenza dal punto di vista della sofferenza. Sempre dobbiamo respingere la violenza in quanto azione rivolta a ridurre, sottomettere e umiliare gli altri, però in sé la condanna è inutile e oralità se non siamo capaci di comprendere che talvolta la violenza è la sola maniera per opporsi all’insopportabile e per risvegliare un corpo oppresso dalla depressione.

Io credo che la violenza che si sta manifestando nella rivolta globale di questi mesi – a cominciare con Hong Kong dove gli studenti hanno attuato forme di azione estremamente dura contro la polizia e contro le strutture urbane – non sia violenza politica finalizzata al potere come la violenza delle formazioni armate del decennio Settanta, e neppure sia una violenza diretta all’umiliazione di un nemico sociale molto più potente e violento di quanto possono essere i manifestanti. Credo che si tratti di violenza a carattere essenzialmente suicida. Qui si apre un discorso sulla tendenza principale del nostro tempo, particolarmente per la generazione precaria che è cosciente dell’inesistenza di un futuro e quindi è sempre più disperata. Solo l’azione collettiva permette di uscire, seppur temporaneamente, dalla depressione, anche quando questa azione collettiva ha un carattere intimamente suicidario.

In conclusione dunque l’azione dell’intellettuale, del poeta e dell’attivista, se vuole essere produttiva di coscienza e di trasformazione, deve avere un carattere simile a quella del terapeuta: comprendere e analizzare il sintomo, e tradurlo attraverso la parola, il farmaco e l’esempio. La condanna è cosa che riguarda i giudici, e non abbiamo nessun bisogno di giudici quando il corpo sociale sta soffrendo.

Franco Berardi Bifo 

23/1272019 comune-info.net

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