Vivere e morire a Taranto. Per un nuovo piano di risanamento che coinvolga i giovani laureati che la locale Università di scienza ambientale sforna ogni anno, gli operai attualmente occupati nell’area a caldo e le attività di coltivazione di mitili che potrebbe rifiorire potendo cosi raggiungere i livelli quantitativi e qualitativi che hanno già fatto conoscere Taranto in tutto il mondo

Ormai ciclicamente appaiono notizie su l’ILVA di Taranto che o parlano di impossibilità a pagare salari e stipendi, o di una sua vendita allo straniero ora cinese ora brasiliano e per contrappunto articoli che parlano di cosa comporterebbe una chiusura dell’ormai tristemente famoso Mostro D’Acciaio pugliese. Io voglio fare alcune considerazione su uno studio apparso su Siderandia //www.siderlandia.it/2.0/index.php/quanto-costerebbe-la-chiusura-dellilva/?123 in cui si valutano i costi economici e industriali circa l’ipotesi tout court della chiusura.

Non è una ipotesi peregrina e negli ambienti dei Verdi ( leggi Bonelli) è da tempo posta come alternativa, anzi come necessità.

Naturalmente i costi sociali ed occupazionali sarebbero gravissimi. Oggi l’industria tiene occupati intorno ai 10-15 mila addetti fra diretti e indotto che in una città di circa 150 mila abitanti significa la vita( anche se a rischio tumori). Chiudere significherebbe abbandonare la città che è una ipotesi ricorrente per la società americana nei periodi di crisi, ma una ipotesi catastrofica per l’Italia e per un paese meridionale. La città e tutta la provincia vive ormai solo e soltanto a fronte dell’ILVA. Tutte le attività sono chiuse e non solo quelle industriali, porto, cantieri navali, Arsenale militare, cementificio, industria petrolifera, a causa della crisi , ma anche quella agroalimentare e di coltivazione dei mitili fiorente attività e primaria risorsa prima dell’avvento della industria siderurgica. A causa dell’inquinamento sia dei mari che dei terreni di PCB, diossina e prodotti cancerogeni.  Se dovesse chiudere l’ILVA, quindi, si dovrebbe chiudere la città.

Ma i costi non sarebbero solo per la città, ma per tutta l’economia siderurgica italiana. L’ILVA rappresenta il primo produttore d’acciaio dalla materia prima ai semilavorati, coils , lamiere, lamierini, tubi di diverso diametro per svariati utilizzi. La chiusura di questa realtà significherebbe quindi un grosso danno economico per l’intero pase. Quindi sia costi sociali che industriali sconsigliano appena appena la sola ipotesi di chiusura.

E anche l’ipotesi che il governo sta incentivando e che ogni tanto si affaccia appena qualche pretendente si fa avanti. Cioè la vendita al privato o con la partecipazione dello Stato.  A parte i cinesi o brasiliani si è fatta anche l’ipotesi di un gruppo o consorzio di italiani ( Marcegaglia in testa) che con l’apporto della Cassa depositi e Prestiti si accingerebbero a comprare l’ILVA. Naturalmente questa è l’ipotesi accarezzato dal ministro Lupi sempre pronto a rispolverare l’ipotesi Alitalia che nonostante i fallimenti e i costi sopportati dalla collettività rappresenta l’unica soluzione per il nostro ministro. Follia pura.

Vi si affaccia , questa volta da parte di gruppi politici cosi detti antagonisti, comunisti, l’ipotesi della nazionalizzazione. Ma questa industria veniva da una nazionalizzazione, e non è che prima era tutto rose e fiori, non è che l’inquinamento è venuto con il privato , brutto sporco e cattivo. La logica del profitto a tutti i costi e nonostante tutto non è che sia una logica solo del privato e non presente nelle industrie ex di Stato. Anche in questo caso nessuno garantirebbe un miglioramento dello stato di cose, ammesso che sia ancora possibile una simile ipotesi, stante il contesto. Nazionale e internazionale

Cosa cambierebbe se al posto di Riva subentrasse un altro privato o un gruppo misto pubblico privato ma a conduzione privatistica? Assolutamente nulla se accanto a questa ipotesi non v’è un piano industriale che indica cosa e soprattutto come produrre e soprattutto affiancato ad un piano di risanamento ambientale e di riammodernamento degli impianti.

L’industria siderurgica diventa obsoleta in mancanza di ammodernamento tecnologico con una frequenza di 15 20 anni. Questa era la frequenza con cui si faceva il revamping degli impianti quando era l’IRI il padrone della industria siderurgica. L’ammontare degli investimenti era significativo, il tempo di ammortamento abbastanza lungo ma si riusciva a stare sul mercato e anche per certi specifici semilavorati anche all’avanguardia ( i tubi saldati temperature sotto lo zero , per l’industria del petrolio e del gas, per esempio) Testimoni le decina di migliaia di brevetti  ottenuti in quei periodi. Con l’avvento di Riva il must era sfruttare al massimo quel che si aveva avuto in regalo uomini e impianti, nessun investimento ne dal punto di vista produttivo figuriamoci in quello di impatto ambientale.

Ora cambiare il conducente, ma lasciare inalterato la meta cosa cambierebbe?

Ecco che quindi la questione è mal posta eoccorre ribaltare l’angolo di visuale. Al centro va posto non chi fa l’operazione, ma cosa si vuol fare!

O si chiude  e allora la questione non si pone nemmeno , e diventa cosa ne facciamo di cittadini di quella provincia?

Oppure si decide di riammodernare gli impianti e soprattutto il ciclo a caldo, più legato a vecchia tecnologia a processi produttivi ormai vecchi e obsoleti che producono un alto tasso di inquinamento di per se a prescindere dai surrogati tecnologici di abbattimento delle sostanze inquinanti.

E’ processo che parte dal minerale e dal ciclo Altoforno- acciaieria Martin Siemens che va modificato e con essa tutto quello che è a monte dell’altoforno e intorno a quel processo produttivo. E il modello industriale che è obsoleto, il grande colosso ( cinque altoforni sei forni di acciaieria, una capacità produttiva di 20 milioni di ghisa e dieci di acciaio ) che rende quel ciclo produttivo foriero di produzione di un alto tasso di inquinamento indipendentemente dalle più sofisticate tecniche di abbattimento dei fumi e della produzione di sostanze inquinanti. E’ una filosofia legata agli anni in cui è nata La fine degli anni ’70.

E’ un ciclo nato quando vi era fame di acciaio , il mercato tirava, non vi erano gli alti e bassi della domanda e infatti il ciclo è rigido. Un altoforno deve pisciare ghisa in continuazione e non si può fermare ne ridurre.  Gli altiforni sono cinque perché a turno uno è in ricostruzione per manutenzione E la ghisa prodotta la devi trasformare in acciaio subito se no lo svendi o la butti.

Tutti gli investimenti finalizzati a mettere una pezza sono soldi buttati al vento e fra 5 dieci anni si riproporrà di nuovo il problema

Cosa fare allora?

Il ciclo produttivo deve cambiare per essere flessibile e per consentire di modulare la produzione a seconda della domanda del mercato. Quindi o si riduce il ciclo a caldo ad uno o al massimo due altiforni nati con le nuove tecnologie in modo da poter dimensionare la produzione in base al mercato , ridurre conseguentemente il livello di inquinamento anche se questo con questo tipo di ciclo produttivo non si abbatterà mai del tutto.

Oppure passare al ciclo basato sui forni elettrici . Dismettere tutta l’area a caldo, i parchi dei minerali di ferro e calcare, produrre acciaio direttamente dal rottame di ferro e la quantità di energia elettrica necessaria prelevarla dalle surplus prodotta dalle centrali di cui soprattutto il Salento , ma tutta l’area pugliese si è dotata invece che trasportarla al Nord con enorme spreco e perdita di energia.

Ma qualunque ipotesi si percorre questa deve essere accompagna da un programma di disinquinamento sia dell’area attualmente occupata dal ciclo a caldo, e che verrebbe in parte o del tutto dismessa,  sia dei terreni limitrofi ( fino al comune di Statte) , sia dei fondali del mare sia Mar piccolo che Mar grande ( i due bacini del porto di Taranto) che non verrebbero più alimentati dalla polvere di minerali di ferro e carbone che si disperdono durante lo scarico delle navi.

Il ciclo economico e produttivo si riequilibrerebbe per la città e per l’economia locale e non solo. Il piano di risanamento coinvolgerebbe i giovani laureati che la locale Università di scienza ambientale sforna ogni anno, dagli operai attualmente occupati nell’area a caldo e le attività di coltivazione di mitili potrebbe rifiorire potendo cosi raggiungere i livelli quantitativi e qualitativi che hanno fatto conoscere Taranto in tutto il mondo ( persino a Bergen Norvegia ho visto un cartello che indicale le cozze che si vendevano come  Cozze di Taranto!) Cosi come la pastorizia ( oggi del tutto eliminata) come l’agroalimentare.

Si capisce che posta cosi la questione, chi fa le cose diventa insignificante , un falso problema. L’importante che sia la città tutta a vigilare che un siffatto piano industriale e di rinascita venga rispettato con vincoli e tempi certi e fissati.

 

 

Ma intanto si continua a porre questione che allontanano le soluzioni, creano solo cortine fumogene per poter giungere alla fine a soluzioni fatte diventare per disperazione come liberatorie.

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