11 Settembre: Il discorso di “Tati” Allende a L’Avana


Non sono qui per fare un discorso, vengo semplicemente per raccontare a questo popolo solidale e fraterno come sono state le ore che abbiamo vissuto nel Palacio de La Moneda la mattina dell’11 settembre. Vengo a dirvi qual è stato l’atteggiamento, qual è stata l’azione e qual è stato il pensiero del compagno presidente Salvador Allende sotto l’attacco dei militari traditori e fascisti.

Il popolo cubano, certo, conosce la realtà, ma in molti altri paesi la campagna di menzogne ​​promossa dalla Giunta fascista e sostenuta dalle agenzie dell’imperialismo nordamericano intende calare un sipario sui fatti accaduti a La Moneda, la trincea di combattimento del presidente Allende.

Vengo a confermare che il Presidente del Cile ha combattuto fino alla fine, armi alla mano. Che ha difeso fino all’ultimo respiro il mandato che il suo popolo gli aveva dato, che era la causa della rivoluzione cilena, la causa del socialismo.
Il presidente Salvador Allende è caduto sotto le pallottole nemiche come un soldato della rivoluzione, senza incertezze di alcun tipo, con assoluta fiducia, con l’ottimismo di chi sa che il popolo cileno supererà ogni battuta d’arresto e che combatterà senza tregua fino alla conquista della vittoria finale.

È caduto accompagnato dall’assoluta fiducia nella forza del suo popolo, pienamente consapevole del significato storico che avrebbe avuto il suo atteggiamento nel difendere con la vita la causa degli operai e degli umili del suo paese.
Ma c’è dell’altro: Cuba e Fidel erano presenti nelle sue parole e nel suo cuore in quei momenti difficili. Siamo stati testimoni della sua lealtà fino alla morte, dei legami di profondo affetto che lo legavano a questo popolo, alla sua Rivoluzione e al suo comandante in capo, Fidel Castro. Praticamente tutto l’ultimo mese che ha preceduto il golpe dell’11 settembre abbiamo vissuto in guardia permanente. Non passava giorno senza voci su rivolte militari e colpi di Stato.

Quella mattina di martedì 11 abbiamo ricevuto notizie inquietanti e abbiamo appreso che il presidente Allende era arrivato molto presto al Palazzo. Ci siamo diretti lì, ancora senza conoscere l’entità di ciò che stava accadendo.

Fu solo sulla strada per La Moneda, dovendo più volte aggirare le barriere dei Carabineros, che in un atteggiamento chiaramente ostile impedivano di avvicinarsi al Palazzo del Governo, che comprendemmo la gravità della situazione.
Siamo riusciti ad arrivare a La Moneda quando mancavano circa dieci minuti alle nove. All’interno c’era la normale guardia dei Carabineros, che aveva il compito di proteggere il Palazzo. Tuttavia, prima di entrare nell’edificio, avevamo visto Carabineros nei dintorni intenti ad arrendersi o a piegarsi al golpe.

A La Moneda avemmo subito conferma che si trattava di un golpe in piena regola con la partecipazione dei tre rami delle Forze Armate e dei Carabineros.

All’interno dell’edificio il clima era di combattimento; un gruppo di compagni più numeroso di quello solito della sua sicurezza personale era a fianco del presidente e si era messo ai posti di combattimento. Le poche armi pesanti erano state distribuite. Inoltre, è arrivato il un gruppo del Servizio Investigativo che aveva sempre lavorato in coordinamento con i compagni del personale della sicurezza personale.

Era presente anche un gruppo di ministri, sottosegretari, ex ministri, tecnici, addetti stampa e radio. C’erano anche medici, infermieri, personale amministrativo de La Moneda, coloro che non volevano andarsene, decidendo di combattere a fianco di Allende. Infine, c’erano i suoi più stretti collaboratori. Di tutti questi, undici erano donne.
Mentre gli passavo una delle tante telefonate in arrivo, lo vidi per la prima volta quel giorno. Era sereno, ascoltava con calma le diverse informazioni che gli venivano date e dava ordini e risposte che non ammettevano discussioni.
Aveva già fatto il giro e lo avrebbe ripetuto più volte dei posti di combattimento, correggendo la posizione di tiro di alcuni compagni.

Presto sarebbe iniziato il fuoco di fanteria, l’attacco dei carri armati e dell’artiglieria golpista al palazzo presidenziale. I nostri compagni hanno risposto con le loro armi. Abbiamo appreso che fin dall’inizio, i capi militari del colpo di stato hanno ripetutamente ordinato al presidente di arrendersi, ma ha sempre rifiutato categoricamente e in maniera inappellabile tutti gli ultimatum che i capi del colpo di stato gli hanno lanciato.

Non lo abbiamo mai visto esitare per un solo momento. Al contrario, ha sempre ribadito la sua decisione di combattere fino alla fine e di non arrendersi ai militari traditori, che già chiamava con il loro nome: fascisti.
Ho anche appreso che fin dalla mattina ha ricevuto visite e continuato a ricevere chiamate dai partiti della Unidad Popular e dal MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria), che esprimevano la loro decisione di combattere.
È stato chiamato al telefono in diverse occasioni da uno dei generali traditori di nome Baeza. Ho saputo anche che gli avevano offerto un aereo per andare con la sua famiglia e i suoi collaboratori dove voleva. Il presidente rispose che come generali traditori non potevano sapere cosa fosse un uomo d’onore, congedandoli, indignato, con parole talmente forti da non essere qui ripetibili. Il presidente ha preso misure per combattere una battaglia lunga, andava continuamente da una parte all’altra. Ha chiesto di controllare i punti più sicuri per proteggere i combattenti dai bombardamenti aerei. Si informava circa la quantità di cibo e acqua immagazzinata.

Ha ordinato al gruppo medico di tenere pronto il reparto chirurgico per curare i feriti. Ha incaricato un compagno di raggruppare le donne e portarle in salvo mentre le si convinceva che avrebbero dovuto lasciare La Moneda.
Ha chiesto che la documentazione, compresa quella personale, che avrebbe potuto compromettere altri rivoluzionari venisse bruciata. Ha inviato tre compagni, due dei quali donne, all’estero per svolgere una missione in favore della futura resistenza.

In quel momento, già sapevamo che i Carabineros addetti alla protezione del Palazzo avevano aderito alla Giunta fascista.

In seguito, ho potuto parlare per un momento da sola con il presidente. Mi ha detto di nuovo che avrebbe combattuto fino alla fine. Che per lui era estremamente chiaro cosa sarebbe successo, ma che avrebbe adottato le misure necessarie affinché il combattimento fosse condotto nel migliore dei modi. Che sarebbe stata dura, in condizioni di svantaggio. Tuttavia, ha aggiunto che era consapevole che questo era l’unico atteggiamento che poteva assumere come rivoluzionario, come presidente costituzionale, difendendo l’autorità che il popolo gli aveva consegnato. E che non arrendendosi, né consegnandosi, avrebbe smascherato tutti i militari traditori e fascisti.

Ha espresso la sua preoccupazione per i compagni che erano lì, per sua figlia Isabel. Ha detto che tutti dovevano lasciare il palazzo e preoccuparsi anche per la mamma, perché si stava combattendo a Tomás Moro e lei era lì.

In seguito mi disse che si sentiva un po’ sollevato dall’arrivo di questo momento, perché così si erano definite le cose e si era liberato dalla situazione scomoda che lo aveva afflitto negli ultimi tempi, in cui mentre era presidente di un governo popolare, d’altra parte, le forze armate, usando la cosiddetta legge sul controllo delle armi, reprimevano i lavoratori, razziavano le industrie e vessavano i loro lavoratori.
Questo me l’aveva detto anche in passato.

La sua presenza di spirito era straordinaria, con una grande disposizione alla lotta. Le sue parole riflettevano la visione serena degli eventi e la direzione che avrebbe dovuto prendere la lotta rivoluzionaria.

Ha affermato che l’importante era la futura leadership politica. Garantire una direzione unitaria di tutte le forze rivoluzionarie; che i lavoratori avrebbero avuto bisogno di una leadership politica unitaria. Per questo non volle lì sacrifici sterili e inutili; che sarebbe stato necessario adoperarsi per raggiungere quella direzione politica unitaria che avrebbe guidato la resistenza iniziata quel giorno, e che per essa sarebbe stata necessaria una giusta direzione politica.

Praticamente la stessa cosa ha detto ai ministri e collaboratori, che aveva riunito nella Sala Toesca. Ha ribadito ancora una volta la sua decisione di difendere con la vita l’autorità presidenziale. Ha ringraziato per la loro collaborazione durante quei tre anni, ordinando agli uomini armati di riprendere un posto di combattimento e a quelli disarmati di aiutarlo, prima a convincere le donne a lasciare La Moneda, e poi a farlo loro stessi, perché non voleva sacrifici inutili, quando l’importante sarebbe stata l’organizzazione e la direzione della classe operaia. Quella fu l’ultima volta che vidi uno dei suoi più cari amici e collaboratori, l’amico della rivoluzione cubana, il collega giornalista Augusto Olivares, mentre stava andando al suo posto di combattimento, armi alla mano.

Le donne e gli altri compagni hanno trascorso gli ultimi istanti nei pressi del reparto chirurgico e nel piccolo locale sotterraneo dove era immagazzinata la carta. Il presidente è arrivato lì con il suo elmetto militare verde oliva. Aveva in mano un fucile automatico AK che il comandante Fidel gli aveva regalato, con la scritta: “Al mio compagno d’armi”.

Il bombardamento aereo si avvicinava. Gli aerei passavano a volo radente. Ci ha ordinato energicamente, senza ulteriori indugi, che le compagne lasciassero immediatamente il palazzo. Si è rivolto a ciascuna di noi individualmente, spiegando perché saremmo state più utili fuori e l’impegno rivoluzionario da rispettare.

Dichiarò ancora una volta che l’importante era l’organizzazione, l’unità e la leadership politica del suo popolo. Mi ha rimproverato per essere stata lì in gravidanza, che il mio dovere era andarmene con i compagni dell’ambasciata cubana. Mi ha fatto sapere di aver subito come nella propria carne le provocazioni e le aggressioni di cui la rappresentanza diplomatica cubana era stata vittima negli ultimi mesi. Che credeva che quel giorno ci sarebbero state provocazioni e che avrebbe potuto esserci un combattimento e, per questo, avrei dovuto stare con loro.

Ci ha condotto personalmente all’uscita su Calle Morandé. Lì ha deciso di chiedere un cessate il fuoco e una jeep militare affinché i compagni potessero partire senza problemi. Pochi minuti prima aveva considerato la possibilità che ci prendessero in ostaggio per chiedere ancora una volta la sua resa. Ma ci ha detto che se fossero stati capaci di farlo, non lo avrebbero fatto esitare e che, al contrario, questa sarebbe stata una prova ulteriore davanti al popolo cileno e al mondo intero del punto a cui erano arrivati il tradimento e il disonore del fascismo e che questo sarebbe per lui un motivo in più per combattere.

Così lo abbiamo lasciato poco prima che iniziasse il bombardamento aereo, combattendo a fianco di un piccolo gruppo di rivoluzionari, dove c’era anche una compagna che si era nascosta per combattere con loro. E questa è, compagni, l’immagine che conservo del presidente; questa è l’immagine, cari fratelli di Cuba, che vorrei lasciare oggi nella mente e nel cuore di ciascuno di voi.

Immagine che si innalza con orgoglio rivoluzionario in questa piazza, dove solo pochi mesi fa ha alzato la sua voce commossa per portarvi il messaggio di solidarietà e gratitudine della nostra Patria, dei nostri lavoratori, dei nostri bambini, donne e anziani.

In questo atto di solidarietà con il Cile, vorrei raccontarvi ciò che mi ha chiesto di trasmettervi. Me l’ha confidato a La Moneda durante il combattimento: di’ a Fidel che farò il mio dovere. Digli che si deve ottenere la migliore leadership politica unitaria per il popolo cileno. Ha indicato che quel giorno stava iniziando una lunga resistenza e che in essa Cuba e i rivoluzionari avrebbero dovuto aiutarci.
Oggi, da questo territorio libero in America, possiamo dire al nostro compagno presidente: il tuo popolo non si arrende, il tuo popolo non ammainerà la bandiera della rivoluzione; la lotta all’ultimo sangue contro il fascismo è iniziata e finirà il giorno in cui avremo il Cile libero, sovrano, socialista per il quale hai combattuto e hai dato la vita.

COMPAGNO PRESIDENTE, VENCEREMOS!

Beatriz Allende Bussi, figlia del compagno Salvador Allende
11/9/2021 Da: http://elsiglo.cl/2021/09/10/11-s-el-discurso-de-tati-allende-en-la-habana/

raduzione per il mensile Lavoro e Salute a cura di Gorri

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