Si muore ancora nella Chinatown pratese

Anche se l’autopsia confermerà che è morta per cause naturali, la donna cinese di 50 anni trovata cadavere nel bagno di un maglificio di Comeana ha fatto riaccendere le luci sulla Chinatown pratese. Con l’arrivo dell’ambulanza sono arrivati anche i tecnici della Asl e i finanzieri, che hanno rilevato come all’interno dell’azienda gli operai vivessero in un dormitorio al primo piano, mentre al piano terreno lavoravano almeno trenta operai. Di questi, solo sei o sette, in regola con il permesso di soggiorno, hanno testimoniato che la donna non aveva chiesto loro aiuto e sembrava in buone condizioni. Degli altri lavoratori nessuna traccia, con tutta probabilità a causa della mancanza del permesso di soggiorno. Permesso che anche la povera vittima, vedova e con i figli in Cina, non aveva.
L’intero immobile è stato sequestrato dalla magistratura, che ha avviato una inchiesta e ha indagato il titolare del maglificio, con le ipotesi di reato di sfruttamento di mano d’opera irregolare, abusi edilizi e omicidio colposo. Accusa quest’ultima che potrebbe anche decadere se verrà confermata l’ipotesi di un malore, sul quale peraltro occorrerà chiarire se la donna fosse costretta a turni troppo pesanti per le sue condizioni di salute. Le altre imputazioni sono invece già documentate, e finiranno sia nel fascicolo processuale che nelle statistiche. Quelle della lunga battaglia civile avviata dopo la strage del Macrolotto del dicembre 2013, quanto sette operai morirono bruciati nel rogo del capannone della Teresa Moda.
Da allora sono passati più di tre anni, durante i quali la task force regionale “Lavoro sicuro” ha controllato quasi tutte le 7.700 aziende cinesi disseminate fra le province di Prato, Pistoia e Firenze, compreso l’Empolese Valdelsa. In questa primavera il primo giro di controlli sarà ultimato, e la Regione utilizzerà i 76 tecnici inviati fra i capannoni con l’estensione delle ispezioni. Mirate questa volta non solo alle sicurezza ma ad altri aspetti della vita lavorativa, dalla formazione all’ambiente.

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Visto con l’ottica del lungo periodo, il lavoro degli ispettori è stato positivo: se all’inizio soltanto il 15% delle aziende cinesi controllate era in regola con la sicurezza (solo il 6% a Prato), in tre anni abbondanti la percentuale è salita al 58%. Inoltre più dell’80% delle aziende trovate non in regola hanno rispettato le prescrizioni sulla sicurezza entro il termine concesso dalle autorità.
L’altra faccia della medaglia racconta di un 42% delle aziende ancora a fortissimo rischio. Davvero tante. Di qui la decisione di chiuderne 338. E nei primi tre trimestri del 2016 sono stati aperti 888 procedimenti penali, di cui però ben 611 (il 71%) sono stati chiusi con l’archiviazione per estinzione del reato. In altre parole gli imprenditori cinesi hanno accettato, due volte su tre, di pagare sanzioni pesanti e di mettersi in regola per i macchinari, l’igiene, gli impianti elettrici e i dormitori. Di quest’ultima casistica (753 aziende colte in flagrante lo scorso anno) fa parte il maglificio di Comeana.
Non c’è da festeggiare dunque. Anche perché continuano a proliferare le aziende intestate a prestanome. A riprova, nel novembre scorso un’inchiesta (15 arresti e 83 indagati) ha fatto scoprire due studi di commercialisti che producevano falsa documentazione – buste paga, bilanci, assunzioni e certificati falsi, sostituzioni di persona – per ottenere rinnovi dei permessi di soggiorno. E i cinesi regolarizzati venivano utilizzati come prestanome per altre aziende fantasma, da far sparire in caso di controlli.

Riccardo Chiari

8/3/2017 https://ilmanifesto.it

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