A cosa servono i medici di base?

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Maurizio Bardi, 64 anni, MMG da una trentina d’anni, prima per tre anni in due piccoli paesini vicino a Lodi, poi a Milano dove da oltre 15 anni lavora in una medicina di gruppo insieme ad altre due colleghe. In studio hanno segretaria e infermiere, sono aperti 7 ore dal lunedì al venerdì e 4 ore al sabato.
Ha lavorato anche per qualche anno come medico scolastico per il Comune di Milano e poi per l’ASL. E’ specialista in reumatologia (mai praticata). Fa parte del direttivo di Medicina Democratica

Alberto Deambrogio: A inizio pandemia molto si è parlato dei medici di base, purtroppo per le condizioni inaccettabili in cui si sono trovati ad operare. L’evoluzione di quella situazione, col passare dei mesi, ha registrato la fuoriuscita dai radar di quelle importantissime figure. Ci puoi dire come hai vissuto il giorno per giorno del tuo lavoro, il rapporto coi tuoi pazienti, durante i mesi di “assestamento” della lotta contro il covid?

Maurizio Bardi: Certamente il Covid ha segnato un punto di non ritorno rispetto al nostro lavoro. L’inizio è stato, come tu ricordi, assolutamente drammatico. La gestione della pandemia è stata lasciata alla buona volontà e all’improvvisazione di ciascuno di noi, mettendo in luce anche una grande disomogeneità nel modo di lavorare e nell’impegno della categoria. Un po’ alla volta si è tornati ad una normalità che è, però, diversa da quella precedente. Se l’impegno orario durante l’emergenza era praticamente senza interruzione, anche se a distanza, oggi stiamo nuovamente ricevendo in studio i pazienti, ma con tempi di visita dilatati, per evitare affollamento in sala d’attesa, e anche i più restii tra di noi hanno ceduto all’uso della posta elettronica come mezzo di comunicazione usuale tra medico e paziente. Un mezzo di comunicazione che è, almeno per me, faticoso: è spersonalizzante, non ti dà l’idea del “peso” della questione per l’assistito, si presta a fraintendimenti. Sicuramente durante la fase acuta della pandemia i MMG sono stati l’unico punto di riferimento per la popolazione e questa consapevolezza ha aperto la strada almeno ad una discussione sul ruolo nostro e della medicina di territorio, ma questa presa di coscienza deve essere riempita di contenuti che stento a individuare.

A.D.: Nelle scorse settimane molto si è discusso, in realtà soprattutto in ambienti specialistici o di settore, intorno al ruolo e alla funzione dei medici di famiglia e del loro possibile inquadramento alle dipendenze del S.S.N.
Organizzazioni sindacali, medici, osservatori hanno dibattuto soprattutto lungo gli assi dei problemi organizzativi e dei temi riguardanti l’impegno e la competenza dei professionisti. Che idea ti sei fatto di questa discussione? Secondo te è stata ben impostata?

M.B.: Ben venga una riflessione sul ruolo della medicina di base, prima ancora però ci sarebbe bisogno di aprire un confronto sulla Medicina in generale, quella con la emme maiuscola e sui suoi scopi. Cosa chiede la società, ora, in questa fase storica, alla medicina?
Una discussione che non si è mai aperta nella società e, ancor meno, tra gli operatori sanitari. E nemmeno purtroppo nei corsi di formazione universitaria dei medici e del personale sanitario in genere.
Oggi, forse più che in passato, è alta la domanda di salute, per due motivi principali:

per le migliorate condizioni generali e le cresciute aspettative della società che, almeno fino all’avvento del COVID, sembrava aver rimosso dal proprio orizzonte l’idea che esistessero la malattia e la morte;

perché la salute è diventata un bene ancora più essenziale per tutte quelle persone che oggi sono meno tutelate di ieri e per le quali la malattia significa assenza di reddito.

Questa domanda forte di salute si incrocia con un mercato particolarmente aggressivo, che tende a far coincidere la prevenzione con tutta una serie di visite e accertamenti, inutili al di fuori dei tre screening validati a livello internazionale.
Queste modalità, senza produrre un miglioramento dello stato di salute, fanno esplodere la richiesta di prestazioni in modo praticamente inarrestabile, destabilizzano i conti, rendono ingestibili le liste d’attesa.

Tutto lascia pensare che questa sarà la medicina supertecnologica del domani, in linea con quella dell’oggi,
nella quale non sembrano trovare spazio né la prevenzione né le relazioni umane. In questo contesto il ruolo del MMG è fondamentalmente residuale. Così come penso sia una figura in via d’estinzione il medico che lavora da solo nel proprio studio. Se c’è un futuro possibile credo che stia nella figura di un medico che lavora insieme ad altri colleghi, in associazioni più o meno grandi a seconda delle esigenze del territorio, condividendo competenze e criticità. Solo nel lavoro di gruppo ci può essere una crescita professionale che deve portare a una maggiore assunzione di responsabilità, a una migliore capacità di relazione, alla capacità di dare risposte alle aspettative di salute dei propri assistiti.
Un medico che abbia un numero limitato di assistiti e sia liberato dalla maggior parte delle incombenze burocratiche, che oggi sono diventate parte preponderante del lavoro e sottraggono tempo alle attività di cura.

A.D.: Ivan Cavicchi, rispetto all’ipotesi di medico di famiglia dipendente ha sviluppato una sua critica molto dura rivolta in primis a Governo e Regioni (non risparmiando staffilate anche ai MMG). Lui che da molto tempo sostiene il medico “autore”, cioè autonomo e responsabile, ritiene che la dipendenza sinora descritta restituisca “una idea vecchia di medico, tutt’altro che flessibile”, all’interno di una sorta di riesumazione dei “poliambulatori Inam”; insomma un “ritorno alla vecchia medicina territoriale amministrata di mutualistica memoria”. Sono parole nette e molto critiche, tu che ne pensi?

M.B.: Cavicchi è persona molto preparata ma, come molti, ha troppe certezze e pochi dubbi. Oggi il MMG guadagna bene, anche molto bene se soddisfa una serie di requisiti organizzativi (lavoro in gruppo, orario lungo, apertura al sabato, presenza in studio di personale infermieristico e di segreteria) e può organizzare il proprio lavoro a piacimento, rispondendo fondamentalmente solo ai propri assistiti dopo aver soddisfatto alcuni requisiti minimi regionali. D’altro canto ha meno tutele: non ha ferie pagate né malattia e TFR e ha a proprio carico tutte le spese di studio, personalecompreso. Quindi pro e contro. Un passaggio forzato alla dipendenza in questo contesto parrebbe poco praticabile, pensando semplicemente al personale assunto e alla gestione degli ambulatori, per tacere della questione previdenziale.

Personalmente sono favorevole a un progressivo passaggio alla dipendenza, che inizi con le nuove entrate in ruolo. Questo visto dalla parte dei medici. Se guardiamo dalla parte della popolazione cosa cambia avere un MMG inquadrato come dipendente o libero professionista?

Quelle che contano sono le regole d’ingaggio e soprattutto il sistema dentro al quale deve operare. La medicina di base può esprimere il meglio solo se lavora all’interno di una rete fatta di operatori sanitari e sociali in grado di farsi carico della salute della popolazione di riferimento e di prendersi cura globalmente dei bisogni delle persone. Credo che si debba prima delineare un modello di sanità territoriale all’interno del quale trovare le forme organizzative migliori. Una sanità nella quale gli interessi degli operatori (medici, strutture, ospedali) siano in linea con il miglioramento della salute delle persone. Per capirci, non mi interessa quante prestazioni sono in grado di fornire, mi interessa sapere quanta salute produco con queste prestazioni. Le case di comunità proposte nel PNRR che riprendono l’idea delle case della salute proposte da Maccacaro e Medicina Democratica ormai mezzo secolo fa possono essere un tentativo interessante.

A.D.: La medicina territoriale, di cui il MMG è parte fondamentale, dovrebbe essere riformata secondo una riflessione che si è imposta durante la pandemia. Ti pare che l’occasione sia stata sinora ben colta? E’stato ben analizzato, tanto per fare un esempio, il ruolo sviluppato nel tempo (magagne comprese) del distretto?

M.B.: Nella legge che istituiva il SSN, i distretti erano l’ambito territoriale in cui veniva fatta l’analisi dei bisogni della popolazione e, in base a quelli, la programmazione e l’attuazione dei servizi sociosanitari. Hanno funzionato più o meno bene a seconda dei tempi e dei luoghi, ma rimangono un caposaldo organizzativo e dovrebbero essere il punto di partenza per un rilancio della medicina di territorio: definizione di una popolazione, ricognizione dei bisogni, programmazione e istituzione dei servizi. Come dicevamo prima il PNRR istituisce le case e gli ospedali di comunità come presidi territoriali di cure primarie e intermedie. Questi devono prevedere al loro interno la massima integrazione dei servizi sociosanitari e occuparsi anche della medicina domiciliare.

Potremo dare un giudizio quando saranno attuati. Intanto dobbiamo pretendere che siano strutture assolutamente pubbliche e partecipate, cosa non scontata. Poi dobbiamo puntare alla massima integrazione sociosanitaria: gli ottimi lavori di Michel Marmot hanno mostrato in maniera inconfutabile quanto la buona salute e la longevità delle persone dipendano innanzi tutto dai fattori sociali. Confermando peraltro gli studi della scuola degli epidemiologi piemontesi. Naturalmente quando si fanno questi progetti è fondamentale tenere conto delle differenze geografiche, di popolazione e di presenza di presidi sanitari dei diversi territori, perché a situazioni differenti devono corrispondere differenti modelli organizzativi.

A.D.: Non si fanno nozze coi fichi secchi. Il rischio che, al di là delle considerazioni sulle riforme, le risorse continuino ad essere troppo poche c’è tutto. E’ inutile magnificare il PNRR, quando già si ritorna a una austerità imposta per rientrare velocemente negli assurdi parametri sul deficit. Come valuti la partita dei finanziamenti al settore salute? Anche solo fermandosi al tema del personale i problemi paiono enormi…

M.B.: Sicuramente gli stanziamenti, soprattutto futuri, non sono al pari con le aspettative e probabilmente neanche con le necessità e ci vedono comunque alla retroguardia in Europa. Inoltre bisogna ragionare sulla ripartizione di questi fondi destinati alla sanità. Nel PNRR il grosso degli investimenti, come confermato dalle prime destinazioni alle Regioni, riguarda principalmente l’ammodernamento tecnologico e la digitalizzazione. Nulla pare destinato all’assunzione del personale. Di più, gli investimenti previsti per la telemedicina ci fanno capire qual è l’idea di sanità e di medicina di territorio che i nostri amministratori hanno in mente. Un MMG che si prende cura di 2000 assistiti che vede e gestisce col telescopio della telemedicina. Attenzione, non voglio denigrare l’aspetto tecnologico: esso è quello che ci consente di dare risposte di vera eccellenza laddove ci sono bisogni veri; semplicemente penso che una medicina basata su questi presupposti non sia adeguata a gestire la salute come bene collettivo della società.
L’impressione è che la salute delle persone non sia mai il punto da cui si parte per organizzare una buona sanità e resti sempre come un po’ sullo sfondo.

Alberto Deambrogio

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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