A proposito di crisi climatica

Donna Baka, Bacino del Congo. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale. Le prove dimostrano che sanno prendersi cura dei loro ambienti e della fauna meglio di chiunque altro: non è un caso che l’80% della biodiversità terrestre si trovi proprio nei loro territori. © Nicolas Marino

Immagina di essere un Baka, un cacciatore-raccoglitore nella foresta del Bacino del Congo. Quella terra è stata la tua casa per generazioni. Ne conosci ogni albero e ogni pietra. I tuoi nonni sono sepolti lì. Tu e il tuo popolo l’avete alimentata e amata, e ve ne siete presi cura. 

E ora immagina di venire sfrattato e di vedere distruggere la tua casa perché, come qualcuno ti spiega, un uomo bianco che vive molto lontano pensa che la tua foresta debba diventare un’Area Protetta al cui interno possono vivere solo gli elefanti. “Lui ama gli elefanti”, ti spiegano… Gli uomini bianchi amano gli elefanti. A quanto pare è andato nello spazio, si è accorto che gli piace la tua foresta ed è preoccupato per i cambiamenti climatici. Quell’uomo ha fondato un’azienda che l’anno scorso anno ha prodotto 60,64 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di bruciare 140 milioni di barili di petrolio. Ma, ti dicono, se la tua foresta è protetta, lui si può sentire meglio per le sue emissioni di CO2. Se ti stai chiedendo perché non smette lui di emettere carbonio invece di distruggere la tua vita, la risposta è: per denaro. E se ti chiedi come qualcuno possa credere che stia facendo qualcosa di buono, la risposta è il tema di questo articolo.

Con la proliferazione dei movimenti per il clima e l’accelerazione del riscaldamento globale, la crisi climatica è ormai diventata innegabile per i più. Eppure, le emissioni continuano a crescere. Invece di affrontare la crisi, i governi, le aziende e le grandi ONG della conservazione riuniti a Glasgow per la COP26 chiedono aiuto al settore finanziario, nascondendo la loro inazione e ingannando i cittadini con slogan falsi e pericolosi come “Nature Positive”, “Soluzioni Basate sulla Natura”, “Net-Zero” o “emissioni zero”. Queste cosiddette “soluzioni” sono principalmente promesse vuote che causeranno massicce violazioni dei diritti indigeni senza risolvere la crisi climatica. Distraggono l’attenzione dalle vere cause della distruzione ambientale e dei cambiamenti climatici, e da coloro che ne sono maggiormente responsabili, a spese dei popoli indigeni e delle comunità locali, che sono coloro che ne hanno meno colpa. 

Cosa sono le Soluzioni Basate sulla Natura?

Il nome suona promettente, non è vero? Apparso per la prima volta nel 2009 in un documento preparato dalla International Union for Conservation of Nature (IUCN) per i negoziati internazionali sul clima, il concetto è stato definito dalle grandi organizzazioni della conservazione come la “soluzione dimenticata” ai cambiamenti climatici. L’idea è molto semplice: la natura ha già le soluzioni alle nostre varie crisi ambientali e, nel caso dei cambiamenti climatici, possiamo mitigarli evitando ulteriori emissioni dagli ecosistemi naturali e agrari (ovvero, creando più Aree Protette) o aumentando il sequestro di carbonio al loro interno (ovvero, piantando alberi o restaurando foreste). Eccola: una soluzione magica che non comporta cambiamenti significativi da parte delle grandi economie e delle loro maggiori industrie! 

Oggi, nel dibattito internazionale su clima e biodiversità si sente sempre più spesso affermare che si può raggiungere un 30% di mitigazione globale del clima attraverso Soluzioni Basate sulla Natura (NBS). Le voci che sostengono le NBS sono diventate dominanti anche durante la COP26 come elemento centrale delle soluzioni alla crisi climatica portate avanti dai governi, conservazionisti e industrie del petrolio.

Il vero problema inizia quando tali Soluzioni Basate sulla Natura vengono presentate come il modo migliore per contrastare la crisi climatica, fornendo una facile soluzione che non implica una riduzione dell’uso dei combustibili fossili e un cambiamento dei nostri modelli di consumo – che sarebbero l’unica risposta concreta. E più cresce il sostegno a queste Soluzioni, più aumenta la probabilità di un impatto devastante sui popoli indigeni e altre comunità locali.

Infatti, nascosto dietro il loro nome accattivante, troviamo il solito (e vecchio!) approccio basato sul mercato. In parole povere, le Soluzioni Basate sulla Natura forniscono una nuova spinta a quella che prima era chiamata “compensazione delle emissioni di carbonio” (carbon offset). In questo contesto, la “Natura” è considerata un capitale o un bene, qualcosa a cui dare un prezzo e da commercializzare. Supponiamo per esempio che la Shell (una tra i maggiori sostenitori delle Soluzioni Basate sulla Natura) stia emettendo una quantità X di CO2 nell’atmosfera: per poter affermare di rispettare i suoi impegni, Shell potrebbe continuare a rilasciare esattamente la stessa quantità di CO2 a condizione di supportare contemporaneamente o la creazione di un’Area Protetta che immagazzini la stessa quantità di CO2 o la piantumazione di un numero di alberi che si suppone possano assorbirne lo stesso ammontare. Questo scambio si realizza, ovviamente, nei mercati finanziari attraverso la creazione di crediti di carbonio. Questo è quello che i governi intendono con “net-zero” o “emissioni zero”: non intendono portare realmente le loro emissioni a zero, bensì si limitano semplicemente a dichiarare di “compensare” quelle emissioni da qualche altra parte.

Trasformare la natura in una forma di capitale (in questo caso in crediti di carbonio) che può essere poi venduto sul mercato è un’idea così in voga da aver persino ottenuto il sostegno di David Attenborough, noto conservatore e conduttore televisivo. 

Cosa c’è di sbagliato?

Dalla prospettiva della giustizia: tutto!

Secondo il documento utilizzato più spesso come prova da chi spinge le Soluzioni Basate sulla Natura come soluzioni di mitigazione (documento apparso nel 2017 e che vanta tra i suoi autori carbon trader e rappresentanti di un’importante organizzazione della conservazione), attraverso le NBS si potrebbe efficacemente raggiungere il 37% della mitigazione climatica necessaria entro il 2030”. Questa cifra, in varie forme (“37%”, “un terzo”, “più di un terzo”, etc.) è stata ripetuta più e più volte, guadagnando credibilità con la ripetizione.

Ma cosa significano davvero queste cifre?

Il metodo conosciuto più efficace per eliminare l’anidride carbonica dall’atmosfera consiste nel piantare alberi. Secondo stime del 2017, l’afforestazione rappresenta quasi la metà del potenziale di mitigazione climatica per mezzo delle Soluzioni Basate sulla Natura. Ma raggiungere questo potenziale richiederebbe di piantare alberi su un’area stimata di quasi 700 milioni di ettari – più o meno la dimensione dell’Australia. Ma dove trovare tanta terra? Sicuramente non in Francia o nel Regno Unito (paesi tra i sostenitori di queste Soluzioni). Il rischio evidente è che a perdere le loro terre siano molti popoli indigeni e comunità locali, tra i meno responsabili per la crisi climatica.

Life in the equatorial rainforest. The Bayaka Pygmys. Central African Republic

Amarlal Baiga, uomo Baiga dell’India, spiega bene l’impatto che i progetti di afforestazione per compensazione hanno sulla sua comunità. In questo caso si tratta di compensazione di biodiversità (biodiversity offsetting), ma il processo e le conseguenze devastanti sono le stesse. “Il Dipartimento alle Foreste ha recintato con la forza il mio terreno, e ha fatto lo stesso con i campi di tutti gli altri. Hanno messo recinzioni e piantato alberi teak. Questa terra è nostra, apparteneva ai nostri antenati. Ci hanno fatto piantare gli alberi e ci hanno imbrogliati dicendo: ‘queste piante vi gioveranno’ ma ora ci minacciano e dicono: ‘questa giungla è nostra e questa terra non vi appartiene più’.”

La terra del suo villaggio è stata espropriata nell’ambito di un progetto di compensazione per afforestazione. In India, quando le foreste vengono distrutte per attività come quelle minerarie, le compagnie responsabili devono versare denaro al fondo CAMPA, utilizzato per finanziare progetti di afforestazione – ma le foreste biodiverse vengono generalmente rimpiazzate da monoculture, spesso nelle terre degli Adivasi (indigeni).

Un’altra Soluzione Basata sulla Natura promossa con forza insieme all’afforestazione, è la creazione di cosiddette Aree Protette. La nuova iniziativa per la biodiversità della Commissione Europea, chiamata NaturAfrica, tratta le aree di conservazione come un enorme deposito di carbonio che può “fornire interessanti opportunità per generare flussi di entrate per le comunità attraverso i crediti di carbonio”.

Ma anche questa costituisce una grave minaccia per i popoli indigeni. Diverse organizzazioni per i diritti umani e indagini indipendenti denunciano da anni che la creazione di Aree Protette, specialmente in Africa e Asia, avviene senza il consenso dei popoli indigeni o delle comunità locali – che perdono completamente l’accesso alle loro terre ancestrali – ed è accompagnata da un aumento della militarizzazione e delle violenze. Le Aree Protette distruggono i migliori custodi del mondo naturale, i popoli indigeni, nelle cui terre si trova l’80% della biodiversità.

È assurdo che un cacciatore-raccoglitore del Bacino del Congo – il cui stile di vita ha alimentato e protetto quelle foreste – perda la possibilità di accedere alla terra e al cibo che lo sostengono, o che sia torturato e abusato da parte dei guardaparco, perché dall’altra parte del mondo un ricco uomo bianco, le cui aziende inquinano in modo massiccio, pensa di poter compensare le sue emissioni creando un’Area Protetta in Congo – invece di smettere di sfruttare i lavoratori, pagare le tasse e semplicemente fermare le emissioni.

Questa idea, ovviamente, non piace solo ai miliardari. L’industria della conservazione spinge le Soluzioni Basate sulla Natura perché le organizzazioni possono guadagnare vendendo crediti di carbonio dalle Aree Protette che amministrano, allo scopo di finanziare altre nuove Aree Protette (e pagare i salari milionari dei loro direttori generali). 

In definitiva, i popoli indigeni, i piccoli agricoltori, le comunità locali, i pescatori perderanno le loro terre per una crisi climatica che non hanno provocato.

Ma tutto questo ci salverà dalle peggiori conseguenze dei cambiamenti climatici?

Assolutamente no.

Innanzitutto, molti dei progetti di piantumazione rivendicati come strumenti di mitigazione del clima piantano alberi a rapida crescita, come eucalipti e acacie, per poterne ricavare profitti. Queste attività, in realtà, possono addirittura aumentare le emissioni di carbonio invece che ridurle: la vegetazione esistente deve essere eliminata e le nuove piantagioni sono più soggette agli incendi. Inoltre, nella maggior parte di queste piantagioni, i raccolti avvengono dopo pochi anni per produrre ad esempio carta o carbone, restituendo rapidamente all’atmosfera tutto il carbonio che era stato catturato. Le vere foreste di alberi autoctoni avrebbero bisogno di crescere per decenni prima di iniziare ad assorbire carbonio in quantità. Infine, le piantagioni su larga scala distruggono la biodiversità e le terre dei popoli indigeni. 

Anche il piano di trasformare il 30% del mondo in Aree Protette viene presentato come un mezzo per mitigare i cambiamenti climatici. Ma, a parte l’impatto disastroso sulla diversità umana, non ci sono prove scientifiche a conferma del fatto che raddoppiare le Aree Protette sia davvero un bene per la natura. Dei 20 obiettivi del precedente piano di azione globale sulla biodiversità, relativi al decennio 2010-2020, l’unico raggiunto è stato quello di trasformare il 17% della Terra in Area Protetta. Eppure, secondo la stessa industria della conservazione, nello stesso periodo la biodiversità è calata ancora più rapidamente. Uno studio del 2019 che analizza oltre 12.000 Aree Protette in 152 paesi ha rivelato che, con alcune singole eccezioni, negli ultimi 15 anni queste aree di conservazione non hanno fatto nulla per ridurre la pressione umana sulla fauna selvatica. Anzi, all’interno di molte di esse, la pressione è aumentata rispetto alle aree non protette. Molte Aree Protette aprono le porte al turismo di massa e spesso ospitano caccia ai trofei e attività minerarie e di taglio del legno. 

Infine, l’industria finanziaria non ha mai risolto nessuno dei nostri problemi e non lo farà nemmeno questa volta. È probabile che lasciare al mercato decidere cosa sia importante e cosa no in base al “valore economico” si riveli catastrofico. Un territorio indigeno, una foresta, una prateria sono meritevoli di protezione solo per la quantità di carbonio che immagazzinano? E cosa dire delle persone che vivono in quel territorio e della diversità non misurabile che rappresentano?

Sono proprio e soprattutto lo sfruttamento delle risorse naturali per profitto e la mercificazione della natura che ci hanno portato a questo punto di crisi. L’industria finanziaria vuole fare soldi, non proteggere il nostro pianeta.

“È facile valutare il nostro impatto sul clima. Impatto del carbonio, tonnellate di CO2 equivalente… Tutto questo parla alla finanza” ha affermato l’amministratore delegato della compagnia di investimenti Mirova. “Ma quando iniziamo a discutere di deforestazione e degrado dell’ecosistema è molto più complicato, perché non ci sono indicatori né standard internazionali per misurare questi impatti.” 

A ulteriore prova del fatto che tutto ciò abbia a che fare con il denaro (e non con la natura), le Soluzioni Basate sulla Natura sono sostenute e adottate sia dall’industria della conservazione sia dalle aziende più inquinanti del mondo: un modo di evitare i drastici cambiamenti realmente necessari per contrastare la crisi climatica. Tra i sostenitori delle Soluzioni Basate sulla Natura troviamo: Nestlé, BP, Chevron, Equinor, Total, Shell, Eni, BHP, Dow Chemical Company, Bayer, Boeing, Microsoft, Novartis, Olam, Coca-Cola, Danone, Unilever, etc.

Quindi, i nostri governi e le grandi aziende mentono quando affermano di “agire” per porre fine alla crisi climatica?

Si. Gli schemi di compensazione hanno già fallito nel prevenire i cambiamenti climatici. Ampliare questi schemi in modo massiccio con le Soluzioni Basate sulla Natura comporterà un fallimento ancora più grande. Gli schemi di compensazione come le Soluzioni Basate sulla Natura dovrebbero essere abbandonati, e al loro posto i governi dovrebbero mettere in atto vere regolamentazioni per le aziende e la finanza al fine di contrastare le vere cause della distruzione ambientale: lo sfruttamento delle risorse naturali per profitto e il crescente sovra-consumo, trainati dal Nord Globale. 

Dobbiamo anche decolonizzare i nostri approcci e smettere di marginalizzare e ridurre al silenzio i popoli indigeni e altre comunità locali che proteggono il nostro pianeta da generazioni. Per ottenere questo i governi devono rispettare, proteggere e far rispettare pienamente i diritti territoriali dei popoli indigeni e di altre comunità locali. 

Infine, abbiamo bisogno di un cambiamento radicale della nostra struttura economica e del nostro stile di vita. Le uniche soluzioni giuste e reali per fermare i cambiamenti climatici arriveranno solo quando questi temi saranno portati sui tavoli dei dibattiti. Fino ad oggi, i leader mondiali, le aziende, le ONG della conservazione e alcuni movimenti per il clima nel Nord Globale non sono stati in grado di farlo.

Di Fiore Longo Survival International

www.survival.it

Fiore Longo è ricercatrice di Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni, dove è responsabile della campagna per decolonizzare la conservazione.

In Copertina:

Donna Baka, Bacino del Congo. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale. Le prove dimostrano che sanno prendersi cura dei loro ambienti e della fauna meglio di chiunque altro: non è un caso che l’80% della biodiversità terrestre si trovi proprio nei loro territori. 

© Nicolas Marino

6/11/2021 https://www.intersezionale.com

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