Aborto e telemedicina

Esiste la possibilità di interrompere una gravidanza in sicurezza, vicino alle persone che vogliamo, nel luogo che scegliamo e nel pieno rispetto della nostra privacy

In Italia, in questi mesi, i diritti civili hanno preso sempre più spazio nel dibattito pubblico. Se si osserva il discorso istituzionale costruito su questi temi, è possibile scorgere un filo rosso che lega le politiche reazionarie in merito all’accesso all’aborto e le discriminazioni alla comunità Lgbtqia+: questo filo rosso è la riproduzione dello Stato nazione, nel periodo di «crisi demografica» più acuto di sempre.

Quale futuro si prospetta per chi vorrà abortire in questo paese? Quali strumenti – istituzionali e non – dovremo utilizzare per combattere l’obiezione di coscienza dilagante, le politiche regionali a favore delle associazioni antiabortiste e la dismissione del Sistema sanitario nazionale?

Ci salveremo da sole: l’aborto farmacologico 

Una delle tante risposte a questa complicata domanda si può trovare nell’accesso all’aborto farmacologico con il supporto della telemedicina. 

Nel marzo 2022 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha aggiornato le proprie Linee guida in materia di aborto dalle quali emerge come ogni anno si registrino almeno 25 milioni di aborti non sicuri con 39 mila decessi annuali. L’aggiornamento dellAbortion Care Guideline rispetto alle precedenti del 2012 contiene una specifica sul ruolo dell’aborto telemedico. Le raccomandazioni coprono tutti gli ambiti rilevanti nell’Abortion Care: legge e politica, fornitura di servizi, operatori sanitari e servizi clinici. Le linee guida rispetto alle precedenti si concentrano molto di più sui diritti umani assumendo un approccio globale all’aborto. Per la prima volta e non a caso infatti le linee guida includono e sottolineano anche raccomandazioni per l’uso della telemedicina, rimandando al fondamentale ruolo da essa assunto durante la pandemia di Covid-19. 

Già nel 1997, l’Oms definiva la telemedicina come «l’erogazione di servizi sanitari quando la distanza è un fattore critico, per cui è necessario usare, da parte degli operatori, le tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni». In Italia, la telemedicina è entrata a far parte del Sistema sanitario nazionale (Ssn) nel 2020, grazie all’accordo nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni «Indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni in telemedicina». All’interno dell’accordo, però, non ci sono raccomandazioni specifiche sull’aborto.

Women on Web

Women on Web è un’organizzazione non governativa canadese che da 18 anni fa supporto e accompagnamento all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) in telemedicina in tutto il mondo. Dal 2007 a oggi ha permesso a più di centomila persone di abortire farmacologicamente e ha fornito informazioni e supporto a oltre un milione di donne, persone trans e non binarie Afab (Assigned female at birth) in cerca di aiuto.

Una ricerca del 2021 condotta da Karin Brandell nei primi mesi di lockdown, ha evidenziato un aumento delle richieste del 12% nei primi 9 mesi di pandemia rispetto all’anno precedente. Le richieste fatte da adolescenti sono il dato più cospicuo: in Italia, infatti, le persone minorenni devono avere il permesso di entrambi i genitori o di un giudice tutelare per poter accedere all’Ivg e questo è spesso un ostacolo determinante. Secondo i dati raccolti da Women on Web, i numeri sono significativi: 606 richieste nel 2021, 545 richieste nel 2022 e 172 richieste nei primi 4 mesi del 2023. Al di là dei dati specifici che riguardano la pandemia, considerando che la relazione più aggiornata del Ministero della Salute in merito all’attuazione della legge 194 si riferisce al 2020,  Women on Web è l’unica organizzazione che fa ricerca sul campo in merito all’aborto fuori dal Sistema sanitario nazionale che produce dati aggiornati e richiede a tutte le utenti i motivi che le spingono a rivolgersi a questo servizio. 

Tra i motivi che spingono le persone a rivolgersi a Women on Web, il più comune è l’aumentata accessibilità dell’Ivg farmacologica a casa per chi, vivendo in centri distanti diversi chilometri dall’ospedale e/o non avendo disponibilità di mezzo proprio, sono più in difficoltà ad accedere all’Ivg in ambiente ospedaliero, specie considerando la necessità di assumere il mifepristone e le prostaglandine a distanza di 36/48 ore. Anche la precarietà lavorativa, l’impossibilità di chiedere ferie o di assentarsi dal lavoro rendono inaccessibile l’Ivg all’interno del Ssn, come evidente da alcune testimonianze: 

«non posso andare in ospedale, non ho a chi lasciare i miei 3 bimbi»; «non posso raggiungere il servizio ospedaliero perché abito in un piccolo paese lontano dalle città, non ci sono mezzi pubblici e non ho la macchina»; «non ho la possibilità di abortire per questioni di lavoro, ancora per due mesi lavoro tutti i giorni della settimana, supererò le 9 settimane di gravidanza da rispettare per legge. Non posso prendere permessi di lavoro perché lavoro in famiglia e vorrei rimanesse una cosa mia riservata. In più l’ospedale che può somministrare la pillola abortiva è a un’ora di distanza da dove vivo».

Anche per chi può accedere fisicamente all’ospedale, la possibilità di abortire a casa propria invece che in ambiente sanitario ne aumenta l’autonomia e la privacy poichè permette di avere il pieno controllo sull’assunzione dei farmaci e sull’ambiente in cui avviene l’aborto. Autonomia che garantisce la sopravvivenza in caso di partner violenti o famiglie abusanti: 

«I have a restrictive family and I can’t go to the hospital to do the abortion»; «vivo in una piccola comunità e mi conoscono tutti in ospedale, vorrei avere privacy»; «I am asking for your help because for reasons of family privacy, I cannot access the abortion. My partner accompanies me on every visit, but the conception happened because I was raped by a colleague in the workplace and I don’t have the courage to report».

L’inaccessibilità per chi non parla italiano, la mancanza di mediatori culturali e il reticolo burocratico per chi ha un permesso turistico sono un altro comune motivo di mancato accesso: 

«I am not Italian so going to a clinic/hospital here is a little harder because I’m not a citizen and don’t understand the language, it would be a lot easier and quicker this way»; «I learned that surgical abortion costs 800 euros and pharmaceutical 1.200 euros. I do not have a steady financial income and I do not have the opportunity to pay such a large amount. Today I asked my family, who told me they couldn’t help either».

Infine il tasso di obiezione altissimo, l’ostruzionismo del personale antiabortista e la scarsità di personale adeguatamente formato spingono le persone ad abbandonare il Ssn.

Un altro aspetto dell’aborto in telemedicina da non sottovalutare, infatti, è la maggior rapidità nell’accesso all’Ivg: anche chi preferirebbe abortire in ambiente sanitario, sceglie la telemedicina per evitare lunghe liste d’attesadovute non solo ai tagli al Ssn ma anche alla quantità di personale obiettore e al conseguente eccessivo carico di lavoro sulle spalle del personale non obiettore: 

«nonostante sia di 7 settimane i centri che ho contattato mi hanno detto che per questioni di esaurimento posti e burocrazia non mi farebbero l’interruzione farmacologica ma chirurgica, che vorrebbe dire mancare diverse ore da casa senza una scusa e senza supporto alla fine dell’intervento»; «mi sono recata più volte presso un consultorio per avere il certificato di Ivg ma sono sempre sprovvisti di personale a me utile per poterlo firmare. Ho inoltre chiamato in ospedale e le liste d’attesa sono lunghissime e non mi consentono di avere un Ivg farmacologica».

Cosa succede nel resto del mondo

Durante la pandemia, il tema dell’accesso all’aborto farmacologico in relazione all’ospedale come primo focolaio del Covid-19 e la tutela della salute delle donne è stato ciò che ha spinto numerosi paesi a confermare la possibilità di accesso all’aborto farmacologico attraverso la telemedicina. Francia, Inghilterra, Scozia, Galles e Svezia sono stati i primi a regolamentare immediatamente la procedura. Sebbene negli Stati uniti in realtà l’accesso all’aborto telemedico venga fornito dalla Planned Parenthood già dal 2008, è stato implementato in tutto il paese durante il periodo pandemico. La recente sentenza statunitense Dobbs v. Jackson ha mostrato, tra le altre cose, come l’attacco alla telemedicina sia di fatto uno dei primi e più mirati obiettivi degli Stati che hanno previsto e continuano a prevedere restrizioni, restituendo un chiaro esempio di ciò che si è potuto constatare durante la pandemia in Italia: ostruzionismo. 

Se all’indomani della chiusura dei reparti, Stati come la Francia hanno regolamentato l’accesso all’aborto telemedico, in Italia al contrario durante tutto il primo periodo pandemico associazioni e movimenti hanno denunciato le difficoltà di accesso, mentre il contrattacco antiabortista ha usato la retorica dell’occupazione «inutile» di posti letto per la propria battaglia contro l’interruzione volontaria di gravidanza. Solo nell’agosto 2020 sono state emanate le nuove linee di indirizzo per la RU486, che come più volte denunciato sono state ignorate e disattese: esplicativo è l’esempio della regione Marche.  

Dopo l’esperienza pandemica molti stati hanno optato per mantenere la possibilità di accesso tramite telemedicina e altri, come la Nuova Zelanda, vi hanno costituito vere e proprie riforme. Da novembre 2022 in Nuova Zelanda, infatti, è attiva una linea telefonica nazionale 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 per ottenere consulto e farmaci durante le prime dieci settimane di gravidanza.  

Quella dell’accesso all’aborto telemedico è un argomento che si intreccia inevitabilmente all’aborto farmacologico, al dibattito retorico che si è costruito sulla sua sicurezza nonché a un ribaltamento della tradizionale «sorveglianza medica». L’aborto telemedico si configura attualmente e a livello globale come un centrale campo di battaglia per le forze conservatrici e pro-life e un terreno di lotta e autodeterminazione per le associazioni pro-choice. 

E se parlassimo di pratiche di autogestione?

Dai contesti dove l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza è illegale o fortemente ostacolato, arrivano alcune delle esperienze di pratiche di mutualismo e autogestione più importanti. In particolare, in America Latina è possibile ricostruire una lunga genealogia di accompagnamento all’aborto da parte di organizzazioni femministe/transfemministe, che hanno contribuito a diffondere conoscenza sull’uso abortivo del misoprostolo. In Brasile, ad esempio, dove l’aborto è tutt’ora pesantemente limitato, le ricerche scientifiche fanno risalire la diffusione popolare di questa pratica già all’inizio degli anni Novanta, presto estesasi al di fuori dei confini nazionali, in paesi limitrofi come Bolivia, Perù, Ecuador o Argentina. In Argentina, dove l’aborto è legale dal 2020 fino alla 14esima settimana, dal 2014 esiste una rete abortista particolarmente ampia, Socorristas en Red (feministas y transfeministas que abortamos), un’articolazione di collettive argentine che accompagnano donne e persone con utero che hanno deciso di interrompere una gravidanza seguendo i protocolli dell’Oms.

Il misoprostolo, a differenza del mifepristone utilizzato esclusivamente per scopi abortivi, è un farmaco più facilmente reperibile, dati i suoi svariati utilizzi. Nel tempo, è diventato uno strumento di cui appropriarsi per tentare di cambiare le condizioni di accesso all’aborto, soprattutto in quei contesti in cui le restrizioni legali costringono le persone a pratiche non sicure e con elevati costi economici e sociali. L’uso abortivo del misoprostolo apre a una redistribuzione del sapere che cerca di rompere il monopolio dello sguardo del sapere medico (bianco, maschio, abile, cis) sul corpo femminile, aprendo a nuove possibilità di autodeterminazione e a un allargamento delle rivendicazioni in tema di giustizia riproduttiva.

Tra gli scopi delle Socorristas en Red, c’è anche quella di produrre dati, con la finalità di monitorare lo stato di attuazione della legge, produrre conoscenza femminista concreta sulla realtà dell’aborto (e delle persone che lo richiedono) e pensare ad azioni «politiche e pedagogiche» che coinvolgano la società civile e i vari settori del sistema di salute, come si legge nell’introduzione all’ultima sistematizzazione prodotta. È bene ricordare, infatti, che le vittorie legislative non sono necessariamente sinonimo di un accesso sicuro, gratuito e non discriminatorio alla pratica abortiva. Lo sanno bene le compagne colombiane, che a un anno dall’approvazione della sentenza Causa Justa  (C-355) del 2022, ancora registrano significative barriere d’accesso, spesso legate al disconoscimento della sentenza o a una applicazione restrittiva della stessa. Lo sappiamo bene anche noi in Italia, dove la legge 194 è spesso disattesa o boicottata. Proprio per questo esiste Obiezione Respinta.

Nonostante le tante esperienze positive di Ivg farmacologica in telemedicina e addirittura la presa di posizione dell’Oms che lo dichiara sicuro, la sua diffusione è molto limitata. La possibilità di abortire nel luogo in cui si vuole e di farlo in sicurezza attraverso un farmaco esprime una potenza trasformatrice capace di dare forma reale al diritto di autodeterminazione. Questa forza irrompe nello spazio delle decisioni e svela che l’unico motivo per cui ne viene ostacolato l’accesso è politico: l’aborto in telemedicina è sicuro, tempestivo, ci permette di interrompere una gravidanza vicino alle persone che vogliamo, lontano dalle persone che non vogliamo e nel luogo che scegliamo, nel pieno rispetto della nostra privacy e delle nostre comodità. 

Eleonora Mizzoni, Francesca Lizzi, Ilaria Perolfi, Martina Facincani, Tamara Roma

*Eleonora Mizzoni è una delle fondatrici di Obiezione Respinta. È attivista di Non Una di Meno e collabora con Women on Web. Tamara Roma è dottoranda in Diritti umani: evoluzione, tutela e limiti all’Università degli Studi di Palermo, e attivista della piattaforma Obres. Martina Facincani è dottoranda in Gender Studies all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro e attivista della piattaforma Obres. Ilaria Perolfi è medica e attivista di Non Una di Meno e Obres. Francesca Lizzi è attivista di Obiezione Respinta. È ricercatrice di tecnologie presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e si occupa di IA applicata alla medicina.

1/6/2023 https://jacobinitalia.it/

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