Attacco al capitale umano del SSN

Il personale dipendente dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha subito da anni un costante ridimensionamento. Dal 2009 a oggi si sono persi 40.000 operatori di tutte le professionalità e la tendenza si è particolarmente accentuata nell’ultimo anno, con oltre 10.000 unità di personale in meno. Il blocco parziale del turnover (ormai applicato da anni) e il blocco dei contratti in atto da sette anni hanno peggiorato progressivamente le condizioni di lavoro.

Lo stanziamento di 75 milioni nella legge di bilancio per il 2017, sbandierato come uno strumento per potenziare le risorse umane dei servizi sanitari, potrà coprire non più del 45% degli infermieri e del 30% dei medici che hanno lasciato il servizio nel 2016. A fronte della riduzione del personale sono aumentati gli operatori con contratto a tempo determinato. Di conseguenza l’età media dei dipendenti del servizio sanitario nazionale continua ad aumentare e ha superato ormai i 50 anni. Gli operatori che invecchiano sono più esposti al rischio di malattie e disabilità invalidanti. Il 12% dei lavoratori della sanità presenta condizioni di inidoneità fisica al lavoro di vario grado. Contestualmente alla diminuzione dei posti di lavoro si è ridotta la spesa per gli stipendi del personale, che nel 2015 è scesa a 38,9 miliardi, una cifra inferiore a quella del 2007.

La difficile situazione del personale ha reso problematico per il nostro paese l’adeguamento alla direttiva europea 2003/88/CE, che nel 2015 ha dettato norme più eque in materia di orari e riposi del personale sanitario. La direttiva, recepita col decreto legislativo 66/2003, prevede che il personale sanitario negli ospedali non possa lavorare più di 48 ore alla settimana; e individua precisi turni di lavoro e di riposo. Tuttavia continue deroghe, con conseguente procedura di infrazione dell’Unione Europea, hanno impedito l’applicazione delle norme, resa difficile dalla riduzione delle risorse e dal blocco del turn-over. Le carenze di personale impediscono di raggiungere adeguati livelli di assistenza,di garantire sicurezza e servizi efficienti, rendendo inoltre  difficile spostare gli equilibri dall’ospedale al territorio, dall’acuzie alla cronicità e alla prevenzione.

Secondo i dati diffusi recentemente dall’ISTAT, nel 2015 il personale dipendente del servizio sanitario nazionale contava 661.000 unità, di cui 31.000 a tempo determinato, pari al 5% del totale. Oltre ai dipendenti vi erano più di 37.000 lavoratori con varie tipologie di contratti flessibili che comprendono. contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.), collaborazioni a progetto (co.co.pro.), lavori somministrati, ovvero ex lavori interinali, contratti occasionali di tipo accessorio (voucher), addetti ai lavori socialmente utili e lavori di pubblica utilità, i titolari di assegni di ricerca e borse di studio, medici specializzandi. E’ tuttavia probabile che i dati sull’estenzione del precariato in sanità siano sottostimati. Abbiamo indicatori attendibili che mettono in luce una continua estensione del fenomeno e permettono di collegare la precarizzazione e la diminuzione dei posti di lavoro al disegno di smantellamento e di privatizzazione della sanità pubblica. Restando ai dati ufficiali i lavoratori con rapporti atipici sono aumentati dal 2011 al 2015 di 12.000 unità, rispetto a una diminuzione di un numero equivalente di dipendenti.

Questo processo è in atto da molto tempo ed è iniziato con i processi di esternalizzazione, avviati negli anni ’80 del secolo scorso. Inizialmente sono stati dati in gestione a cooperative o a imprese private i servizi non sanitari, dalle pulizie alle mense. Poca attenzione fu posta ai costi (generalmente i servizi esternalizzati hanno un costo notevolmente superiore ai servizi in proprio) che in quegli anni non venivano percepiti come un problema e fu invece valorizzata la maggiore facilità di gestione dei servizi (solo compiti amministrativi e di controllo, non più acquisto di materiali, gestione del personale ecc.). Il personale dipendente, non più impegnato in questi servizi veniva impiegato e spesso di fatto sprecato  in altre mansioni e poi non sostituito al momento delle dimissioni.

Coi primi blocchi delle assunzioni, negli anni ’90, e i continui tagli agli stanziamenti per il personale, esternalizzare i servizi divenne una strada quasi obbligata in quanto la spesa non ricadeva più sui costi del personale, ma su quelli per beni e servizi. Ben presto divenne una filosofia, per cui tutto ciò che non rientrava nel “core business” sanitario, doveva essere gestito da privati ricorrendo ad appalti. Questa tendenza chiaramente apriva la strada, neanche tanto mascherata, alla privatizzazione di interi settori della sanità, ma non è stata denunciata né contrastata con sufficiente vigore dai partiti della sinistra e neanche dagli stessi lavoratori e dalle loro organizzazioni. Così nel tempo sono stati esternalizzati la gestione dei magazzini, gli archivi, i Centri Unici di Prenotazioni, finché il processo negli anni 2000 ha interessato i servizi sanitari compresi interi reparti ospedalieri.

Tutto ciò ha comportato un grave peggioramento nella qualità dei servizi e una dequalificazione del personale. I servizi esternalizzati sono diventati un serbatoio di lavoro precario e sottopagato, che spesso sfugge alle rilevazioni ufficiali, soprattutto per i servizi ausiliari, contribuendo alla sottostima del precariato in sanità. La retribuzione dei lavoratori è inferiore a quella dei lavoratori dipendenti, anche se di frequente questo sulla carta non appare, perché vengono dichiarate in busta paga retribuzioni contrattuali per un numero minimo di ore e il resto viene pagato in nero con cifre molto inferiori. In queste condizioni i lavoratori sono fortemente ricattabili. Purtroppo va segnalato che le cooperative si sono spesso rese responsabili di queste modalità gestionali fondate sullo sfruttamento dei lavoratori, segno di una degenerazione di una parte del mondo cooperativo ormai lontano anni luce dall’ispirazione sociale e solidaristica delle origini.

L’esternalizzazione ha colpito in maniera determinante i servizi del privato accreditato, dove ormai raramente si applica il contratto nazionale della sanità privata, e alcune figure professionali a cavallo tra il sanitario e il sociale, sia nel pubblico che nel privato, come gli educatori, i tecnici della riabilitazione, i fisioterapisti, i terapisti occupazionali. La professionalità di questi operatori, particolarmente importanti per i servizi a forte integrazione socio-sanitaria, è spesso compromessa dalla cattiva gestione delle cooperative e dallo scarso controllo degli enti appaltanti. Ultimamente ai danni creati dalle esternalizzazioni si è aggiunto il ricorso sempre più frequente a diverse forme di rapporti di lavoro precario, spesso non censiti dalle rilevazioni periodiche sul  personale, fondati su consulenze libero professionali con retribuzioni a prestazione, ormai utilizzati anche per il personale medico in grandi ospedali, borse di studio pagate da aziende farmaceutiche o da fondazioni e associazioni, contratti di ricerca utilizzati impropriamente per attività assistenziali di routine, uso massiccio di specializzandi, tirocinanti e frequentatori volontari per attività che nulla hanno a che vedere con progetti formativi.

Di conseguenza nei servizi sanitari si è innescata una spirale di disagio, determinata da una situazione in cui personale con rapporto di lavoro stabile, pagato secondo i contratti nazionali, lavora gomito a gomito con schiere crescenti di operatori frustrati, vincolati a rapporti di lavoro atipici e instabili, spesso formalmente considerati liberi professionisti, ma in realtà pesantemente subordinati, privi di tutele e di incentivi di carriera, esclusi dai programmi di formazione e di aggiornamento, frequentemente destinati ai compiti lavorativi più disagevoli, come i turni notturni e le guardie. Sovraccarico di lavoro, stress, burn-out e fatica cronica colpiscono sempre di più tutte le professioni d’aiuto, dagli operatori socio-sanitari di base fino ai dirigenti. Questa situazione acuisce la conflittualità e il rischio di errori, aumenta la spinta al contenzioso legale, alla medicina difensiva, alla burocratizzazione, impedisce il ricambio generazionale, lo scambio di esperienze e competenze. La frustrazione del personale è aggravata dalla diffusione nei servizi sanitari di uno stile aziendalistico autoritario che penalizza l’autonomia e la professionalità degli operatori e si caratterizza per il ricorso frequente a misure disciplinari e l’intolleranza verso le espressioni critiche nei confronti dei vertici aziendali. Il deterioramento del rapporto tra dirigenza e personale, che si è evidenziato in molti servizi è alimentato dalle differenze nel rapporto di lavoro, determinate dai rapporti di tipo privatistico svincolati dai contratti nazionali di cui usufruiscono i dirigenti in posizioni apicali. È tempo di rivedere questa impostazione, che non trova giustificazioni in termini di funzionalità dei servizi.

Un capitolo a parte è rappresentato dalla libera espressione intramuraria, che ultimamente, di fronte al prolungamento delle liste d’attesa, si è sempre più caratterizzata come un canale privilegiato di accesso alle prestazioni che mette in questione l’equità del servizio sanitario e introduce intollerabili discriminazioni tra i cittadini. E’ necessaria una revisione di questo strumento, che ne vincoli l’applicazione alla riduzione delle liste di attesa per tutti gli utenti e ne consenta l’uso in contesti diversi dal luogo di lavoro del dipendente. Inoltre il servizio pubblico deve attrezzarsi per garantire la libertà di scelta del cittadino rispetto agli operatori con cui stabilire un rapporto di fiducia, senza costringere gli utenti a ricorrere alla libera professione per esercitarla.

Per tutti i motivi che abbiamo esposto riteniamo necessaria una forte iniziativa politica, che si rivolga a tutti coloro che lavorano nella sanità, per denunciare l’intollerabilità delle condizioni di precarietà e la negazione dei diritti introdotti dal Jobs Act. Il Forum per il Diritto alla salute ha sostenuto il referendum sul lavoro promosso dalla CGIL, in particolare per la specifica rilevanza che assumeva per i lavoratori del settore il quesito che mirava a ripristinare la responsabilità solidale inderogabile e piena da parte dei soggetti appaltanti, che scelgono l’appaltatore e beneficiano della prestazione lavorativa dei dipendenti, obbligandoli a intervenire in caso di comportamenti scorretti e illegali da parte degli appaltatori, come il mancato pagamento e versamento dei contributi. E’infatti fondamentale per i lavoratori dei servizi esternalizzati avere la possibilità di difendere i propri diritti rivolgendosi direttamente e velocemente al committente, senza dover chiamare in causa tutta la filiera dell’appalto. Il successo dell’iniziativa referendaria, che ha costretto il governo, per evitare una probabile sconfitta nel voto popolare, a modificare la legislazione nel senso indicato dai proponenti del referendum, è stato politicamente significativo, ma la manovra diversiva del governo, che ha subito dopo reintrodotto parzialmente lo strumento dei voucher richiede di continuare la mobilitazione. In ogni caso rimane all’ordine del giorno il tema della lotta al precariato in sanità.

Per questo proponiamo alle forze della sinistra politica e sociale una serie di obiettivi riguardanti il personale della sanità che sia coerente con la difesa e il rilancio del servizio sanitario nazionale:

  • La spesa per la remunerazione del personale sanitario non è comprimibile, pena licenziamenti, precarietà, disoccupazione giovanile e impoverimento dei lavoratori. Va messa in atto una riconversione a parità di risorse nell’ambito dei rinnovi e dell’applicazione puntuale degli istituti contrattuali con la copertura del turn over al 100% attraverso un piano di assunzioni dei precari con concorsi regionali per disciplina e graduatorie a scorrimento.
  • Va messo in atto un ampio lavoro culturale, democratico e di costruzione del consenso su nuovi modelli operativi condivisi a cui agganciare gli istituti premianti previsti dai contratti e la riconduzione al settore pubblico dei servizi strategici dell’accreditato in crisi.
  • Va proposto un nuovo contratto tra operatori, servizio sanitario nazionale e cittadini: un new deal della sanità che sia un modello per tutto il welfare in crisi, includa sicurezza del lavoro e del salario, promuova l’occupazione giovanile favorendo l’umanizzazione dei servizi e delle cure, insieme all’appropriatezza non autoritaria ma condivisa tra operatori e utenti.
  • In questo contesto la remunerazione degli operatori va commisurata al miglior soddisfacimento della domanda dei cittadini e a tal fine dovrà essere messa in graduale, ma progressiva, relazione con gli esiti, definiti da indicatori, in termini di miglioramento o mantenimento dei livelli di salute.
  • Va messa in atto una profonda revisione dei servizi esternalizzati, garantendo innanzitutto le condizioni di lavoro e la giusta retribuzione del personale, e procedendo a un graduale ritorno della gestione diretta, a partire dai settori strategici.
  • Va rivista la norma che impone un rapporto di lavoro privatistico tra dirigenti in posizioni apicali e aziende sanitarie.
  • L’aggiornamento continuo del personale dei servizi pubblici e privati, inclusi i medici di medicina generale, deve essere reso obbligatorio anche per il personale con rapporti di lavoro atipici, monitorato e garantito, istituendo a tal fine un fondo vincolato.

Orsola Baldacci, Angelo Barbato, Marzia Frateschi, Giordana Martinetti, Gian Piero Riboni.

Forum per il Diritto alla Salute.

10/7/2017 www.saluteinternazionale.info

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