Auto-immolazione e genocidio

L’auto-immolazione del militare statunitense Aaron Bushnell davanti ai cancelli dell’ambasciata israeliana a Washington ha trovato scarso spazio nell’universo mediatico. E quel che è stato raccontato ha cercato di neutralizzare il messaggio di denuncia di quell’atto politico, altro che suicidio nichilista, contro il genocidio in corso a Gaza. Non si tratta di creare una triste icona eroica ma di riconoscere la ricerca disperata di atti di riscatto di fronte all’orrore

Darsi fuoco per Gaza. Aaron Bushnell e il fanatismo religioso, tra devozione e manipolazione, è il titolo di un commento apparso su Huffington Post e dedicato alla recente auto-immolazione del militare statunitense davanti ai cancelli dell’ambasciata israeliana a Washington. Poche righe sono accessibili ai non abbonati alla testata online, ma il lead sembra offrire la chiave di lettura del profilo, in seguito proposto, di Aaron Bushnell. Vi si legge, infatti, che il venticinquenne autore del drammatico gesto è colui che “ha riportato l’attenzione sulle complessità e i pericoli del fanatismo religioso e soprattutto sulle sue conseguenze” essendo lo stesso “nato e cresciuto all’interno del movimento cristiano estremista Comunità di Gesù, un’organizzazione più volte accusata di essere una setta abusiva”.

Quell’introduzione non ha stimolato in chi scrive l’esborso monetario per la sottoscrizione di un abbonamento al sito dell’organo di informazione online. Il sospetto concreto è che i contenuti poi espressi nell’articolo non dovessero troppo allontanarsi dalla sua impostazione iniziale. Senza eccesso d’immaginazione, è lecito supporre che sarebbero risultati contigui all’orientamento in gran parte sostenuto da Repubblica, principale quotidiano di gruppo, che certo non lesina spazi e benevolenza verso le posizioni dello stato di Israele.

La cosa però conferma la sintomatica reazione mainstream successiva all’atto auto-immolatorio del giovane originario del Massachusetts, in servizio a reparti informatici dell’Air Force dal 2020. All’enormità del gesto trasmesso in diretta sulla piattaforma streaming Twitch è corrisposto l’asimmetrico scarso spazio riservato dall’universo mediatico. E pur quando, nella gran parte dei casi, attenzione sia stata rivolta all’analisi dell’accaduto, essa ha inteso screditare qualsiasi accezione politica del gesto. Lo si è fatto indicando il quadro patologico e il calco psichiatrico impresso dalla soppressione omicida della propria vita, la deformazione derivante da un passato oscuro di fanatismo coltivato dall’autore del gesto, la pericolosità incarnata da questo giovane influencer del male crudele. Come se fosse improvvisamente divenuto fiction il cruento panorama, ora non più inimmaginabile, offerto dalla diffusione globale in tempo reale dei quotidiani massacri compiuti da Israele nella Striscia contro civili indifesi, dilaniati, mutilati, squartati. Sulla morte di Aaron Bushnell si è instaurato un corpus divulgativo compatto, finalizzato a neutralizzare il messaggio offerto dal sacrificio di denuncia della vergogna e di collettiva connivenza con il genocidio di palestinesi in corso a Gaza.

Preme dunque la ricerca di un significato altro rispetto a quanto così consistentemente diffuso.

“Il mio nome è Aaron Bushnell. Sono un membro in servizio attivo dell’aeronautica americana e non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma rispetto a ciò che le persone hanno vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto un atto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso essere il nuovo normale”.

Bushnell annuncia con precisione il suo intento mentre un’inquadratura laterale lo riprende diretto al luogo dove poi concluderà la sua vita. Indossa l’uniforme militare (quindi, non incappucciato appartenente a qualche setta o congrega). Mentre cammina con passo regolare, informa lo spettatore della sua risolutezza nel portare a compimento l’estremo proposito: tutt’altro, dunque, rispetto a crisi isterica o trance mistico-divinatoria. Quello che di lì a poco si consumerà, sarà dunque il punto culminante di una durissima protesta (non un macabro rito propiziatorio). Con calma, Bushnell sistema poi il dispositivo che continua a riprendere la scena, compie ancora qualche passo allontanandosi da esso, quindi posizionandosi in maniera ben centrata rispetto all’obiettivo che lo filma. Inizia a versarsi benzina da una borraccia cospargendo prima il capo, quindi il corpo. Indossa poi, con sarcastica solennità, il berretto coordinato con la divisa, estrae uno zippo e, azionando ripetutamente l’accendino, provoca infine la scintilla che avvia le fiamme. È l’apice della protesta condotta nel fuoco che inizia ad avvolgerlo: quel Free Palestine! urlato più volte prima che il giovane cadesse al suolo esanime e annerito non si era mai sentito così veemente nel grido di un cittadino del nord del mondo. Ridicola, nauseante la scena col corpo a terra controllato dalla pistola puntata su di lui da un addetto dell’ambasciata durante il tentativo di estinguere le fiamme da parte di alcuni accorsi. Bushnell morirà di lì a poco.

Darsi alle fiamme comporta una morte particolarmente orrenda: non è rapida, istantanea. Appare particolarmente disumana con le tracce di resti non più identificabili, carbonizzati. È soprattutto violenta. Di una violenza politica che si colloca ben al di sopra della semplificazione ipocrita che tale gesto addita quale apice di fanatismo o disgustoso esempio da stigmatizzare e occultare a giovani indifesi.

Della natura vitale e politica di una morte sacrificio v’è spiegazione solida nella risposta che lo scrittore e intellettuale Ghassan Kanafani propose a un giornalista qualche tempo prima di rimanere vittima dell’attentato del Mossad che lo uccise a Beirut.

“Certamente la morte significa tanto. L’importante è sapere perché il proprio sacrificio, nel contesto dell’azione rivoluzionaria, è espressione della più alta comprensione della vita e della lotta per rendere degna la vita di un essere umano. L’amore per la vita di una persona diventa amore per la vita delle moltitudini di cui si compone il suo popolo e rifiuto del fatto che la loro vita continui a essere piena di miseria, sofferenza e difficoltà. Perciò, la sua comprensione della vita diventa virtù sociale, in grado di convincere il combattente militante che il suo sacrificio è riscatto della vita del suo popolo. Questa è la massima espressione dell’attaccamento alla vita”.

L’auto-immolazione di Aaron Bushnell è atto politico e come tale è da interpretarsi. Si tratta di una violenza simbolica eseguita sul proprio corpo, non su quello altrui. Non è né un suicidio nichilista, né assimilabile a quello dell’attentatore che, oltre se stesso, uccide altri. Sgombriamo il campo dallo stigma sommario di chi ha voluto individuare sola ripugnanza del gesto perché, in quanto tale, compromettente gli assetti narrativi, borghesi e paternalisti, messi a punto e consolidati dal sistema. E puntiamo dunque dritti alla ricerca del rilevante atto politico di questo pubblico sacrificio di sé così maldestramente oscurato dai media e ben distinto dal comune senso di condanna emergente invece nell’opinione pubblica quando a suicidarsi è un attentatore. Sondare la sfera in cui matura la significatività politica del drammatico gesto di Bushnell è atto a lui dovuto. Ed è dovuto per l’agghiacciante, sorprendente, decisione contenente fino all’agonia il sonoro urlo, il più politico possibile, di “Palestina libera” in evidente contrasto col silenzio assordante del nord globale, adeguato, muto sfondo d’accompagnamento all’assassinio quotidiano di un popolo vittima di un’azione genocida.

“Desidero che i miei resti vengano cremati. Non desidero che le mie ceneri vengano disperse o che i miei resti vengano sepolti, perché il mio corpo non appartiene a nessun posto in questo mondo. Se arriverà il momento in cui i palestinesi riprenderanno il controllo della loro terra, e se le popolazioni native di quella terra fossero aperte a questa possibilità, mi piacerebbe che le mie ceneri fossero disperse in una Palestina libera”.

Sono le ultime volontà di Bushnell. Come si può negare volontà politica al gesto che si dà in un quadro biopolitico con l’espressione di una violenza che si oppone a quella del sovrano disciplinante? È lo stesso informatico dell’aviazione statunitense a denunciare lucidamente la responsabilità del governo nella normalizzazione della violenza, tant’è che già nel dicembre scorso vi era stato analogo tentativo di auto-immolazione da parte di una donna in protesta nei pressi del consolato israeliano di Atlanta. L’auto-immolazione di Aaron Bushnell sfida radicalmente l’autorità assoluta del sistema in cui lui stesso opera, compiendo l’atto estremo e forse più potente nelle mani del singolo resistente alla concezione imperialista occidentale. E ciò avviene proprio nel momento in cui il biopotere di sistema si esprime con la peggior ferocia necropolitica dispiegando a livello globale tutto il suo apparato di guerra. Una ferocia che si traduce aggressiva e sanguinaria nel tentativo estremo di difesa della sua egemonia, della sua rendita sui vari piani di conquista geografica, militare, logistica, dello sfruttamento di uomini e risorse, finanziaria, antropologica e sociale.

E dunque cosa è più simbolico per Bushnell del proprio corpo che acquisisce autorevolezza di agenzia politica capovolgendo il rapporto che l’homo sacer ha con la legge? Si badi, ciò che conta per Bushnell (e che elude in pieno lo spiccio giudizio del moralista leguleio) non è l’essere “politico” nel momento in cui decide di eseguire la propria auto-immolazione. Ciò che conta sono le interpretazioni successive alla sua auto-immolazione. Dunque, Bushnell è consapevole del fatto che, per raggiungere quel fine politico, il suo gesto non può che essere performativo. Per dirla con Judith Butler il corpo non è semplice materia ma incessante materializzazione di possibilità e l’atto del soldato di un esercito vergognoso richiede perciò la presenza di pubblico allo scopo di propagare potenza politica. Nel caso di Bushnell, vi è poi il dettaglio scientifico dell’inequivocabile, integrando anche, nel punctum immagine dell’uomo che muore tra le fiamme, l’elemento di struttura capitalista e istituzionale rappresentato dallo sfondo dell’ambasciata israeliana davanti alla quale si compie il suo sacrificio.

Se vogliono avere effetto politico duraturo, è presumibile che le auto-immolazioni non si abbiano in un luogo isolato, ma compiute di fronte a spettatori. L’immagine di Bushnell avvolto dalle fiamme mentre urla più volte Free Palestine! devolve dunque il suo vettore politico alla narrazione che debba farsi a partire da essa. La scaturente lotta politica sull’interpretazione dell’immagine è dunque fuori dal controllo di chi si immola: è il suo lascito. Privo di significato politico, quell’atto sarebbe ciò che in tanti preferiscono ravvisare a tutela della propria posizione di rendita, di uno status quo per impedire il conseguente rinculo di biopotere. Ed è per questo che troppo poco si è detto su Bushnell. Quel poco frettolosamente diretto a identificare il gesto alla stregua del suicidio egoista, del frutto di una malattia mentale, dell’atto del fanatico, dell’esempio deprecabile da oscurare per la sua pornografia.

Non è obiettivo di queste riflessioni trasferire la rilevanza politica del gesto nella creazione dell’icona eroica e necropolitica che mancava. Quella, semmai, è servita a potenti e cortigiani per ridurla a una scoria antisemita, del fanatismo. Bushnell ha compiutamente collocato il suo gesto nel solco di verità troppo a lungo taciute in un occidente poco o per nulla consapevole del sacrificio secolare e insanguinato dei palestinesi. In senso politico aderendo a ciò che Michael Biggs ascrive all’auto-immolazione nel suo effetto generativo a impegnarsi di più nella causa da parte di tutti. Il bios rilanciato, vitale proprio come nella suggestione di Kanafani dove sacrificio è riscatto.

Pasquale Liguori

11/3/2024 https://comune-info.net/

Immagine: Foto di Janne Leimola su Unsplash

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